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Pericolosità e stoltezza dello scienziato senza Fede: Ugo Cerletti, il «33» della Massoneria che inventò l’elettroshock
Di Mattia Tanel - 01/11/2008 - Scienza - 2205 visite - 0 commenti
Come chiunque facilmente comprende, l’invenzione dell’elettroshock non è stata quel che si dice una benedizione per l’umanità. L’infernale marchingegno, messo a punto nel 1938 dallo psichiatra italiano Ugo Cerletti e dal suo aiutante Lucio Bini, ha torturato nel corso dei decenni centinaia di migliaia di pazienti, perlopiù inutilmente. Oggigiorno – almeno in Italia – l’impiego della «terapia elettroconvulsivante» è legale solo in caso di «episodi depressivi gravi con sintomi psicotici e rallentamento psicomotorio», ma c’è chi preme per un utilizzo più massiccio. Anche se i medici non sembrano avere alcuna idea precisa del perché, pare che in qualche circoscritto caso-limite l’elettroshock «funzioni», dia cioè luogo ad un certo miglioramento del quadro clinico generale.
Tutto questo, però, interesserà semmai agli scienziati. Quello che interessa a noi in questa sede è il curioso profilo intellettuale e umano del principale inventore dell’elettroshock, Ugo Cerletti: una figura per più versi emblematica della degenerazione scientista della medicina contemporanea. Ripercorrendone la biografia (1) potremo verificare in cosa consista, e a quali esiti conduca, l’abbandono di ogni sana prospettiva filosofica, morale e religiosa da parte della cosiddetta «scienza» moderna (2).


Tra la «religione della scienza» e un guazzabuglio di miti: formazione di uno scienziato triste

Cerletti nasce nel 1877 in un’agiata famiglia di Conegliano, in provincia di Treviso. Suo padre, Giovanni Battista, è un appassionato viticoltore ed enologo di ideali garibaldini. È lui a favorire i contatti tra il giovane Ugo e il botanico Giuseppe Cuboni, che inizia il futuro psichiatra a quella positivistica «religione della scienza» in virtù della quale «il sapere scientifico viene inteso come strumento per l’emancipazione dell’umanità e il riscatto dalle miserie sociali»: la contrapposizione con i valori religiosi è ovviamente esplicita. La prospettiva che Cuboni inculca nell’affascinato allievo è laica e progressiva, senza peraltro disdegnare le suggestioni kantiane, schopenhaueriane e buddistiche in gran voga a quell’epoca presso i ceti più colti e secolarizzati.
Nel 1886 la famiglia Cerletti si trasferisce a Roma. Il ragazzo, di belle speranze, frequenta per un certo periodo un istituto di gesuiti, ricavando dall’esperienza un acceso anticlericalismo (3); dopo il liceo classico si iscrive a Medicina. L’approccio «religioso» alla scienza ereditato da Cuboni opera potentemente nell’animo giovanile di Ugo: la disciplina medica gli sembra rispondere al «bisogno spirituale» di seguire una strada che possa fungere da «norma di morale e di vita». Sotto la guida di Giovanni Battista Grassi, docente di anatomia comparata, lo schivo e per nulla goliardico Cerletti si vota completamente all’allestimento di nuove strutture didattiche e ad un totalizzante lavoro intellettuale e di ricerca, occupazione che egli stesso paragona a «una vera tossicomania». Nelle note manoscritte di quel periodo, però, giunge a scrivere: «Qualche volta, nei momenti di carenza del tossico, mi sento sbalordito, triste e molto solo».
Di lì a poco, Cerletti fa il suo primo incontro con la psichiatria. Il giovane «scienziato umanista» è fermamente convinto dell’esistenza dell’anima («è l’unica cosa di cui sono certo»), ma – digiuno com’è di una prospettiva filosofica rigorosa – ritiene altresì che essa debba risiedere nella materia, e che solo lo studio positivo del sistema nervoso possa riuscire a «stanarla». A Roma diventa allievo degli psichiatri Mingazzini e Sciamanna; affina le sue conoscenze a Parigi con Dupré, a Monaco con Kräpelin e Alzheimer e a Heidelberg con Nissl (4). Al momento della laurea, nel 1901, la formazione ricevuta è sulla carta la migliore possibile. Cerletti è più che consapevole delle proprie doti: sovente, nell’intero corso della sua carriera scientifica, i successi lo renderanno orgoglioso fin quasi all’arroganza, anche se le difficoltà riusciranno ancora più spesso ad abbatterlo e prostrarlo. Sarà lui stesso, lucidamente, a definirsi «bizzarro impasto di autosvalutazione ed orgoglio». A livello di prospettive generali non abbandonerà mai le suggestioni schopenhaueriane e kantiane di Cuboni, ma saprà ecletticamente integrarle: ad esempio con l’evoluzionismo, il vitalismo, l’eugenetica e la psicanalisi, «scienza» quest’ultima di cui vagheggerà persino un’imposizione legale. Si interesserà per breve tempo anche di occultismo, risultando iscritto negli anni Quaranta alla neonata Società Italiana di Metapsichica, ma l’autentica appartenenza del «libero pensatore» Cerletti sarà ben più caratterizzante: si tratterà, ça va sans dire, della Massoneria. Secondo una fonte autorevole, prima della morte avrà raggiunto il 33° grado nel Rito Scozzese (5).


Costruttore di bombe per avidità di denaro: l’etica di uno scienziato laico alla prova della Grande Guerra

Il primissimo Novecento vede Cerletti brillante ricercatore a Roma, sotto la direzione di Augusto Tamburini. Il novello psichiatra pubblica alcuni lavori e studia il cretinismo e il gozzo endemico per mezzo di ricerche sul campo, dove non sempre tutto fila liscio: in un’occasione viene preso a sassate da un intero paese e volto in precipitosa fuga. La competenza scientifica del giovane comincia però ad essere riconosciuta da alcuni degli specialisti più affermati.
Il 1915 segna una svolta: Ugo è un «fervido interventista» (6) e si arruola come volontario negli alpini. Nel corso della guerra partecipa alle operazioni militari come capitano di sanità, dando prova di grande attivismo e di un’inventiva persino esagerata in campo tecnico-tattico. Come molti altri scienziati presenti al fronte (un nome per tutti: Padre Agostino Gemelli), Cerletti ha modo di osservare con l’interesse del clinico le reazioni psicologiche scatenate nei soldati dalle dinamiche inumane della vita di trincea. Lo colpisce, in particolare, il logorio psichico che affligge i militari in occasione di combattimenti lunghi e ininterrotti, giungendo ad inibirne le reazioni vitali e a comprometterne quindi le prestazioni. È in questo frangente che il nostro medico «si trasforma». A partire dal 1916, Cerletti sarà completamente assorbito dalla progettazione di una speciale «spoletta a scoppio differito» (7): un ordigno di sua invenzione che, grazie alla caratteristica di esplodere a distanza di varie ore dal lancio, risulterebbe particolarmente adatto a generare nei combattenti «un’angoscia senza requie», determinando «uno stato tale di esaurimento nervoso da rendere praticamente insostenibile una prolungata permanenza sulle posizioni». L’invenzione, che suscita l’interesse degli alti comandi, è messa definitivamente a punto e prodotta su scala industriale solo negli ultimi mesi di guerra. Nel frattempo, Cerletti ha potuto sperimentare per la prima volta cosa significhi lavorare senza limitazione di mezzi e soprattutto di denaro: come lui stesso confesserà in seguito, al suo impegno di costruttore di bombe non rimane estraneo il desiderio di guadagno.
Gli aspetti più interessanti di questa vicenda risiedono però altrove. Scrive una biografa dello psichiatra veneto (i corsivi sono miei): «[il] gusto della ricerca […] agisce su di lui come una forza tanto potente da mettere a margine qualsiasi riflessione etica. Ancora una volta, come in passato, è il “fanatico” che viene in primo piano: la religione della scienza, prima che al bene dell’umanità, deve rispondere ad una sete di sapere tutta speciale. Assoluta». E ancora: «Cerletti è posto di fronte alle zone d’ombra che la propria identità di scienziato porta con sé. Tocca con mano le implicazioni estreme dell’esercizio spregiudicato e ardito di una curiosità scientifica difficilmente addomesticabile dall’etica» (8). Ecco dove sono finite le «norme di morale e di vita» che il tardo adolescente Cerletti si diceva certo di trovare nell’esercizio della medicina.


Sul carro del vincitore: Cerletti e il fascismo

Dopo la guerra, Ugo Cerletti si trasferisce a Milano per dirigere un istituto di ricerca e l’annesso manicomio. Si tratta per lui di un periodo fecondo di studi e di ricerche, che però si interrompe malamente dopo alcuni anni a causa dello scarso appoggio da parte delle autorità sanitarie locali. Nel 1924, a fascismo affermato, viene fondato l’ateneo «Benito Mussolini» di Bari. L’ormai esperto psichiatra vince il concorso per una cattedra, e a quarantasette anni diviene professore universitario.
Con il regime è un idillio. Il Duce è la «personalità d’eccezione» che saprà risollevare le sorti della scienza italiana: «L’uomo che oggi con lucida volontà e mano ferma guida le sorti dell’Italia è un felice germoglio del più genuino proletariato»; egli «non ha nulla a che vedere con le mezze figure dei politicanti» che l’hanno preceduto. Gli articoli di Cerletti sono ospitati sul mensile «Gerarchia», rivista mensile nata nel 1922 per dare voce alla «rivoluzione fascista». Lo scienziato ha così modo, ad esempio, di esporre le proprie convinzioni razziste e di criticare con argomenti «scientifici» l’idea della naturale uguaglianza fra gli uomini. Si dichiara però contrario alle idee eugenetiche molto discusse in quel periodo, sembrandogli che un’eventuale politica di miglioramento razziale possa configurarsi come una variante moderna dell’antica barbarie spartana.
Su una cosa Cerletti e il fascismo non s’intendono: la Chiesa cattolica. In un’ottica critica nei confronti dell’atteggiamento conciliante di Mussolini, Cerletti propugna politiche educative rigorosamente laiche, avversando con fermezza ogni possibile influenza religiosa nell’insegnamento. Le giovani intelligenze non devono assolutamente essere poste in contatto con la dottrina e la morale religiose, ma con le «verità» – abbiamo visto e vedremo quali – della scienza più aggiornata.
Naturalmente, nel 1943 Cerletti saluterà con favore la caduta di un regime «fatto di arbitrio e violenza e corruzione». Un processo di graduale disillusione, forse. O forse uno dei tanti episodi di opportunismo di cui la classe intellettuale italiana seppe dare prova in quel frangente storico.


«Impassibili maschere di guardiani di pazzi»: l’invenzione dell’elettroshock

Nel frattempo, però, sarà avvenuto qualcosa che cambierà per sempre la biografia scientifica di Ugo Cerletti: nel 1938, a Roma, fa la sua prima comparsa l’elettroshock.
Nella psichiatria degli anni Trenta i trattamenti più in auge sono quelli detti «convulsivanti», finalizzati cioè ad innescare nel paziente un attacco epilettico «terapeutico»: lo shock insulinico di Sakel e lo shock cardiazolico di Meduna. Si tratta, quanto a metodologia e dolorosità, di vere e proprie tecniche di tortura che non starò a descrivere. Cerletti è promotore entusiasta di entrambi i metodi, ma si mette alla ricerca di un procedimento che riesca a indurre l’attacco in modo meno dispendioso dal punto di vista economico. Già negli anni trascorsi all’Università di Genova (città in cui si è trasferito nel 1928) lo psichiatra trevigiano aveva tentato ad altro riguardo qualche esperimento con l’elettricità, sortendo l’unico effetto di ammazzare alcuni dei cani adoperati come cavie. Ma è all’Università di Roma, a partire dal 1935, che i progetti di Cerletti acquistano definitiva concretezza.
Alla notizia dell’incarico, da lui conferito all’assistente Lucio Bini, di svolgere ricerche in vista di un possibile «shock elettrico», la comunità scientifica non dimostra alcun entusiasmo: l’evocazione della sedia elettrica è troppo semplice e immediata. Ma un avvenimento inaspettato e casuale incoraggia Cerletti a perseverare nella direzione intrapresa: gli giunge all’orecchio, infatti, la notizia che al mattatoio comunale di Roma i maiali vengono abbattuti tramite l’uso di una comunissima corrente alternata, la stessa usata per l’illuminazione. Incuriosito, il Nostro chiede e ottiene di poter assistere all’esecuzione dei suini. «Quello che vedrà – scrive la solita biografa – cambierà il corso della storia; della sua storia personale, della storia di migliaia di pazienti, della storia dell’intera disciplina psichiatrica».
«Contrariamente alle aspettative, scopre infatti che i maiali non vengono abbattuti con la corrente, ma solo storditi, tramite l’impiego di un circuito che applica la scarica direttamente al cranio. Dopo la scossa, cadono a terra, in preda ad una vera e propria crisi epilettica. È allora che il macellaio interviene a sgozzarli».
Tra «illuminazioni», «colpi di fulmine» e «dinamiche ad alta tensione», i giochi di parole potrebbero a questo punto sprecarsi. Secondo la biografa, è dopo aver assistito all’esecuzione dei maiali che «una lampadina si accende nella testa di Cerletti». Già: peccato che, nei decenni successivi, qualcosa di simile a una grossissima lampadina sia destinata ad accendersi anche nella testa di migliaia di malati.
Il vecchio «fanatico della scienza» si mette subito al lavoro. Tramite una serie di esperimenti svolti proprio nel mattatoio, appura che la limitazione del circuito al cranio impedisce la diffusione della corrente elettrica al corpo nella sua interezza e in particolare al cuore, evitando sistematicamente la morte degli animali. Bisogna verificare se la stessa cosa avvenga anche nell’uomo: in tal caso, l’attacco epilettico «terapeutico» potrebbe essere raggiunto in modo molto più economico rispetto ai metodi di Sakel e di Meduna. L’alacre Lucio Bini mette a punto in breve tempo un rudimentale prototipo di «apparecchio per l’elettroshock». Ora si tratta solo di trovare il coraggio di sperimentare la scarica su un essere umano.
I primi test hanno luogo a Roma nell’aprile del 1938. Inizialmente tesissimi, Bini e Cerletti constatano con un senso di liberazione che, effettivamente, l’elettroshock non comporta conseguenze letali per i pazienti, scelti tra gli schizofrenici in cura.
La nuova «scoperta» fa il giro del mondo. Lo scetticismo della comunità scientifica si converte in un coro osannante di elogi all’indirizzo del «luminare» Cerletti, che per poco non otterrà, a cavallo del 1950, il premio Nobel per la Medicina. Anzi, è proprio per raggiungere l’ambitissimo traguardo del Nobel che Cerletti stesso e tutta la sua equipe propaleranno a lungo una versione falsata e mitizzata della cronistoria dell’invenzione: mentitori per gloria, o solo per i soldi? Ad ogni modo, l’elettroshock si diffonde a tal punto da divenire l’emblema stesso di quella «istituzione totale» che gli antipsichiatri riconosceranno, non senza qualche ragione, nel manicomio moderno (9). Ecco cosa scrive una paziente a Lucio Bini dopo un trattamento:

Ora, tra me e il prof. Cerletti, tra me e voi, c’è un grosso muro fatto di dolori: di inibizioni senza costrutto, di pudore offeso, di inspiegabili ripulse, di stanchezza immane, di grossolane commedie, di assurde indifferenze.
Con le vostre impassibili maschere di guardiani di pazzi avete spezzato ogni mio slancio, impedito ogni mio abbandono respingendomi spesso sul terreno molle e insidioso della follia. Adesso la sua condotta e la vostra mi appaiono assurde e inumane – e inesplicabili.

Dopo il 1938, comunque, la vita da scienziato di Cerletti è quella della superstar, tra onorificenze e inviti per convegni e prolusioni in ogni angolo del pianeta. Non mi ci dilungherò sopra: mi limito a richiamare un particolare abbastanza grottesco e, visto a distanza, anche piuttosto divertente. Ritenendo (senza alcuna prova osservativa diretta) che l’elettroshock stimoli nel cervello la produzione di fantomatiche sostanze benefiche da lui battezzate «acroagonine», Cerletti predispone una terapia tutta speciale: dopo aver sottoposto a shock alcuni maiali, ne estrae il cervello e ne fa un bel cocktail; inietta infine la brodaglia così ottenuta – ricchissima, naturalmente, di acroagonine – direttamente nei pazienti, aspettandosi un’efficacia tale da rendere superfluo il ricorso in prima persona all’elettroshock. La cavia su cui la nuova procedura viene inizialmente testata è Ugo Cerletti stesso: a seguito dell’iniezione si placano infatti, a suo dire, l’ansia e l’insonnia di cui soffre abitualmente…


Riciclato a sinistra: Cerletti e la politica nel secondo dopoguerra

Alle epocali elezioni politiche del 1948, l’ex fascista Cerletti si candida come indipendente nel Fronte popolare, la coalizione delle forze democratiche e di sinistra. Una contraddizione? Lui assicura di no. D’altra parte, tra il fascista del Ventennio e il «liberale di sinistra» del dopoguerra un minimo comun denominatore esiste: la fissazione anticlericale del frammassone d’alto bordo. Già nel ’46, in occasione delle comunali di Roma, lo scienziato veneto era stato eletto consigliere dopo aver conquistato i voti della «borghesia illuminata e democratica» grazie a volantini di questo tenore: Avanti popolo i cuori saldi / il nostro simbolo è Garibaldi / il Campidoglio sarà romano / non sagrestia del Vaticano / non vogliam ladri ad amministrar / non vogliam principi a governar / non vogliam chierici né pescecan / ma vogliam uomini repubblican.
Nel ’48, dunque, il principale bersaglio polemico di Cerletti è non solo e non tanto la Democrazia Cristiana, quanto piuttosto la Chiesa cattolica stessa. Quella stessa Chiesa a cui il laicissimo psichiatra si era affrettato a rivolgersi, solo quattro anni prima, perché salvasse la vita allo scienziato Ottorino Balduzzi, imprigionato dai tedeschi. Ma quel che è stato è stato: dopo il totalitarismo nazifascista è giunto ora il momento di sgominare il totalitarismo del confessionale. In vista di un comizio, Cerletti stende questo appunto:

Stiamo appena uscendo dalla dittatura fascista: vogliamo di nuovo sprofondare in un assolutismo di marca vaticana? Vogliamo passare dalle mani del duce a quelle del papa, di cui la DC è una naturale estensione?

Certo che no, si risponde. Ai «principi dettati del catechismo» vanno dunque sostituiti gli ideali «di solidarietà umana e di civil convivenza», di giustizia sociale, di «rispetto dei diritti altrui» e di azione «a favore dei diseredati». Tutti valori, secondo lo scienziato prestato alla politica, che affondano le loro radici nell’epopea risorgimentale (10). È giunta anche l’ora, sostiene, di rivendicare con fermezza e rigore l’essenza «laica» dell’autentico messaggio cristiano.
Il programma politico di Cerletti (che al termine della consultazione non risulterà eletto) si concentra su due grandi temi: la sanità e l’istruzione. Quest’ultima in particolare: in vista del progresso culturale, civile, morale della nazione italiana è essenziale comprendere che l’istituzione famigliare è assolutamente insufficiente. Lo Stato deve accollarsi il più possibile ogni funzione educativa e formativa, e questo fin da subito, a partire cioè dalle elementari. In perfetta linea con il «pedagogismo» illuminato di matrice massonica, Cerletti vede proprio nei maestri i necessari protagonisti dell’auspicato cambiamento: vere e proprie «forze vive della democrazia».


Conclusione

Non vale la pena di occuparsi oltre dell’itinerario biografico del nostro protagonista, che muore a Roma il 25 luglio 1963. Tirando le somme, credo possa risaltare con chiarezza la pericolosità potenziale di una figura di ricercatore simile a quella incarnata da Cerletti. Ciò che mi preme sottolineare, infatti, al di là della pur eccezionale rilevanza storica della vicenda individuale in quanto tale, è il fatto che con Ugo Cerletti non ci troviamo di fronte a un isolato caso-limite, ma ad un rappresentante paradigmatico dello scientismo contemporaneo.
Oso sostenere, insomma, che non ci sia nulla di più nocivo, né di più stolido, di uno scienziato laico. Investito dalla società contemporanea di un’autorità quasi sacerdotale, oggetto di cieca e superstiziosa credulità da parte delle masse, lo scienziato contemporaneo opera in una sorta di «zona franca» dell’etica, dove non vige alcuna norma che non sia il parto opinabile della propria coscienza e dei propri pregiudizi, o il frutto convenzionale degli indirizzi prevalenti nella comunità degli specialisti. A tale vuoto etico fa da pendant, in molti campi, una capacità tecnico-applicativa praticamente illimitata; ed è su questo binomio che vanno ad innestarsi alcune tendenze peccaminose proprie allo scienziato come a qualsiasi altro uomo: orgoglio, vano desiderio di conoscere, volontà di potenza, brama di denaro e anche, spesso, un’ignorante e cocciuta dabbenaggine.
La situazione attuale in molti settori della scienza ci offre conferma di quanto la Chiesa, Mater et Magistra, ripete da gran tempo ai suoi figli: la pratica scientifica non va mai disgiunta dalla morale naturale e dalla Rivelazione biblica; vero scienziato è colui che rispetta nelle realtà materiali le vestigia di un Dio trascendente, riconoscendo la necessità di un ordine morale oggettivo e vincolante e di un’autorità magisteriale che infallibilmente lo tuteli anche rispetto alle applicazioni tecniche. L’uomo, in particolare, deve essere sempre oggetto di assoluta venerazione e tutela.
Se la comunità scientifica non si affretterà a riconoscere queste verità, molte altre ridicole aberrazioni camuffate da «scienza» avranno libero corso nel mondo, causando ingenti danni e rovine.




(1) La gran parte dei dati biografici da me esposti e tutti i virgolettati riportati nel testo sono tratti, salvo diversa indicazione, da Roberta PASSIONE, Ugo Cerletti. Il romanzo dell’elettroshock, Aliberti, Reggio Emilia 2007. Si tratta di un volume pregevolissimo a livello di documentazione storica, ma totalmente acritico e a tratti persino agiografico nei confronti dello scienziato veneto. Per un ritratto più ficcante e polemico di Cerletti cfr. Hans Magnus ENZENSBERGER, Gli elisir della scienza, Einaudi, Torino 2004, pp. 178 ss.
(2) «La» scienza, infatti, non è che un mito, assunto come reale dall’attuale cultura (alta e bassa) per purissima superstizione. Lo mostra in primo luogo una conoscenza anche superficiale della storia delle innovazioni scientifiche teoriche e pratiche. L’insieme dei paradigmi speculativi e delle prospettive concrete che vengono ricondotte – per conformismo intellettuale e praticità di linguaggio – al termine generale «scienza» si presentano in realtà, il più delle volte, come assolutamente irriducibili tra loro dal punto di vista epistemologico, e questo tanto in prospettiva diacronica (si tengano presenti, tra gli altri aspetti, gli innumerevoli «binari morti» della scienza moderna) che sincronica. Non «la» scienza, dunque e come minimo, ma «le» scienze. In secondo luogo, il termine «scienza» (conoscenza, sapere) implica in se stesso la squalifica di ogni «altra» legittima modalità conoscitiva umana, svalutata in partenza come «non scientifica» e dunque come «non (autentico) sapere». La degenerazione scientista della scienza contemporanea è contenuta in nuce nella scelta di declinare al singolare e con accezione escludente il termine «scienza». Risalta per contrasto, in questa prospettiva, l’infinita saggezza delle scuole tardo-medievali, inflessibili nel perseguire un’istanza conoscitiva unitaria pur nel tentativo di delineare le necessarie distinzioni metodologiche.
(3) Cfr. Arnaldo NOVELLETTO, voce «Cerletti, Ugo», in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 23 (Cavallucci-Cerrettesi), Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1979, pp. 759-763: p. 760.
(4) Per una sintesi cfr. voce «Ugo Cerletti», in Wikipedia, l’enciclopedia libera (http://it.wikipedia.org).
(5) Cfr. NOVELLETTO, cit., p. 763.
(6) Ivi, p. 761. L’interventismo di Cerletti non stupisce: moltissimi intellettuali di mentalità laica furono a quell’epoca nazionalisti e fautori dell’intervento bellico, quasi a compensare con l’ideale di Patria e con la fantasticata ebbrezza della violenza un abissale vuoto religioso ed esistenziale. La gran parte di loro finirà ammazzata, mutilata o consumata dall’apatia e dalle nevrosi della vita di trincea, in un sordido proliferare di giornaletti pornografici.
(7) Per una descrizione tecnica e una rappresentazione grafica dell’ordigno, che finirà per non essere mai concretamente usato in combattimento, cfr. http://www.ilmio.net/artiglieria/MAI/Volume%20I/Index.html (cliccare su «Spoletta a scoppio differito Cerletti»).
(8) Cfr. PASSIONE, op. cit., pp. 39-40.
(9) Si tenga però presente che la cosiddetta antipsichiatria (i cui esponenti più noti sono Laing, Szasz, il «nostro» Basaglia eccetera) rappresenta una reazione ideologica sul piano teorico e catastrofica sul piano pratico a una serie di problematiche reali. Mi rammarico di non potermi qui dilungare sulle autentiche follie, i cui effetti anche legislativi si patiscono tutt’oggi, propugnate negli anni Sessanta e Settanta da tale corrente.
(10) E valori che, come impietosamente sottolineò Veneziani in un libro di qualche anno fa, hanno accomunato fin dall’Ottocento, in Italia, i più importanti scienziati e intellettuali razzisti e atavisti, da Cesare Lombroso a Enrico Ferri, da Alfredo Niceforo a Giuseppe Sergi: tutti, guardacaso, laici, positivisti e di tendenze politiche socialisteggianti. Cfr. Marcello VENEZIANI, La cultura della destra, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 43-44.
 
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