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Femminismo: dalla parte della donna?
Di Irene Bertoglio - 14/04/2008 - Cultura e società - 1215 visite - 0 commenti
Riprendendo un’espressione di Sant’Agostino, per il quale «in interiore homine habitat veritas», Giuliana Kantzà introduce il suo intervento in occasione della conferenza dal titolo «Nell’intimo delle madri», secondo incontro organizzato dal CAV magentino. Lo scorso 12 aprile, infatti, la psichiatra psicoanalista membro della scuola Lacaniana, ha spiegato al pubblico che «accogliere l’altro si può solo se ci si guarda dentro». È questo l’approccio della psicoanalisi che ci spinge a trasformare il nostro bisogno in domanda e ci spinge a chiederci: chi sono io? Che cosa vuole una donna? La stessa base etimologica della domanda è l’amore, in quanto in greco erotao, che contiene il termine eros, significa domandare. Per Freud, l’assunto fondamentale è che uomini e donne non sono uguali, ma hanno un destino molto diverso. È a questo livello che si impone la discussione ancora attuale sulle rivendicazioni del femminismo, che negli anni ’70 si connota come movimento per la liberazione di genere a fianco della sinistra. Le donne cominciano ad allontanarsi dalla «condizione dell’essere» per parlare un linguaggio diverso, quello degli uomini: «quelle che un tempo erano le postulanti dell’amore, sono diventate così le postulanti dell’uguaglianza». Ma, come ricorda la docente dell’Istituto freudiano, «noi non siamo come ci immaginiamo di essere, siamo quello che siamo, e ci dobbiamo confrontare con questo». L’influenza culturale dell’ondata femminista si ripercuote anche ai nostri giorni: «abbiamo accettato il mutamento che ci ha imposto la società, spostandoci sul versante del consumismo». Le conseguenze sulla società non sono irrilevanti; basti pensare al morbo del nostro tempo, la depressione, che colpisce soprattutto le donne. A questa condizione “snaturata” della femminilità, si somma il venir meno della funzione del padre, che lascia la donna in uno stato di massima libertà, cioè paradossalmente di massima solitudine esistenziale. Quelle che, nei secoli scorsi, sembravano conquiste sul fronte femminile, rischiano di diventare oggi una sconfitta: «grazie a questa bulimia dell’avere, abbiamo perduto ciò che ci legava all’essere». Oggi, infatti, tutto viene medicalizzato; la gravidanza è concepita come una malattia e «ognuno di noi è il referente della propria solitudine». Per recuperare la dignità di donne, dobbiamo invece riprendere in mano la grande questione dell’amore, perché «se ci facciamo togliere di mano quello che è nostro non siamo più noi, ma restiamo incapaci di indicare qualcosa per l’altro, e di essere preziose per noi stesse».
 
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