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Pochi decidono sull'economia mondiale. E' solo colpa del liberismo?
Di Lorenzo Bertocchi - 09/08/2011 - Economia - 1400 visite - 0 commenti

di Corrado Gnerre

Claudio Sardo, direttore de L’Unità, in un dibattito televisivo ha detto (e in questa convinzione si trova in buona compagnia) che è un vero e proprio scandalo che un’agenzia di rating, come Standard & Poor’s, possa influire sui destini di uno Stato come gli USA e quindi di conseguenza sui destini del mondo intero. Un’agenzia – ha precisato - che per giunta è gestita non solo da poche persone ma che non sarebbe nemmeno tanto attendibile. Sardo, poi, ha continuato dicendo che questi sarebbero gli esiti del liberismo, che è convinto che i mercati da soli siano in grado di risolvere ogni problema e perfino di auto controllarsi.

Sardo ha ragione? Sì e no. Sì, perché è senz’altro uno scandalo che un’agenzia di rating possa avere un simile potere. No, perché il direttore de L’Unità è incapace (né potrebbe essere diversamente, altrimenti dovrebbe rinnegare la sua storia) a capire che nell’attuale stato di cose il fallimento del liberismo non c’entra proprio niente. O meglio: c’entra nella misura in cui il liberismo figura come l’ultimo passaggio di un processo della storia dell’economia che ci ha fatto giungere fino a qui. Il liberismo è anch’esso una causa, ma non è l’unica causa. Vediamo di capirci di più.

Ci troviamo in una situazione in cui un manipolo di esperti (o di sedicenti tali) quando comunicano che l’economia di uno Stato non dovesse essere completamente affidabile, creano un tale panico negli investitori, i quali reagiscono cercando di vendere titoli di quello Stato (se li hanno comprati in precedenza) o non comprandoli  (se ancora non li possiedono). Da qui una catastrofe per lo Stato colpito dal giudizio dell’agenzia di rating: borse a picco e rischio di fallimento. Ora, dire che una tale situazione sia stata causata dal liberismo è come dire che una valanga che distrugge a valle un intero villaggio sia partita dieci metri prima e non molto più lontano, cioè a monte. Piuttosto va detto che siamo arrivati a questo punto perché è stata stravolta l’economia. E’ stata stravolta su due versanti. Su quello della funzione e su quella del metodo.

Parto dal secondo perché questo è effetto del primo, nel senso che il metodo con cui si muove l’economia è effetto della funzione che all’economia stessa si vuole attribuire. L’economia finanziaria ha parcellizzato i beni trasformandoli in “carte” con cui giocare e speculare. Da tempo ormai l’economia non s’incentra più su beni reali, riconoscibili, fondati, solidi, bensì sulla loro significazione cartacea, atomizzata, parcellizzata e virtualizzata.

Come già anticipato, questo nuovo metodo è l’effetto di un vero proprio tradimento di ruolo, cioè di funzione che l’economia moderna ha assunto. Ovverosia il fatto che l’economia moderna non ha voluto conservare il ruolo tradizionale di mezzo per elevarsi invece a fine, a volano di riconoscimento di valore per ogni realtà, anche e soprattutto quella comunitaria e statale. Oggi uno Stato vale solo per la sua economia.

Chiediamoci (e vengo al punto nodale): come è potuto avvenire tutto questo? La risposta è semplicissima. La potrebbe capire anche un bambino; anzi, un bambino la capirebbe forse con più facilità, proprio perché è troppo fastidiosamente semplice. E’ avvenuto da quando ci si è iniziati a convincere che ciò che conta è solo la materia. Se l’uomo è solo una macchina (antropologia illuminista), se nulla esiste se non la materia (materialismo), se non esiste alcuna verità perenne (dialettica), è evidente che i beni economici diventino i veri ed unici “valori”. E se i beni economici sono i veri ed unici “valori”, l’economia da mezzo si trasforma in fine. Ma, per trasformarsi in fine, non può limitarsi a “contare” i beni, in un certo qual modo deve sostituirsi ad essi. E’ come nell’arte: un conto è quando l’estetica è a servizio della verità; altro è quando, non riconoscendosi più la verità, l’estetica diventa il fine di tutto … e si arriva all’estetismo, dove basterebbero poche macchie di colore per creare un’opera d’arte. Ecco, dall’economia siamo arrivati all’economicismo; dall’economia come mezzo siamo arrivati all’economia come fine.

Da ciò si capisce perché oggi nella valutazione economica di uno Stato i cosiddetti “fondamentali” non sono più importanti, e cioè: la capacità di risparmiare da parte delle famiglie, la saldezza del sistema bancario e di credito, ecc. Ciò che conta non è più questo, bensì il funzionamento formale del sistema; il che vuol dire – e torniamo al solito punto - che ciò che conta non è più l’economia reale ma quella virtuale. Uno dei motivi per cui (nonostante gli ambienti tutt’altro che edificanti) è bello il gioco del calcio è che si tratta di uno sport in cui vince la squadra che insacca più palloni nella rete avversaria, e non necessariamente la squadra più pimpante, più spettacolare e che gioca meglio. Ecco, l’economia attuale è come uno stravolgimento del gioco del calcio, dove vince non chi segna di più, ma chi invece sembra giocare meglio, e dove la valutazione di chi gioca meglio è data da un manipolo di “esperti”.

Tornando al punto dove siamo partiti, quando un neomarxista come Sardo dice queste cose, se non ci fosse da piangere, ci sarebbe – direbbe il buon Totò - da scompisciarsi dalle risate. Ma come è possibile meravigliarsi di ciò che sta accadendo se si sono ormai da tempo fatti fuori i valori perenni? Come è possibile accusare solo il liberismo se poi si è convinti culturalmente che non c’è una verità metafisica che debba fondare e giudicare il comportamento umano? Richiamarsi alla morale come criterio che debba giudicare la morale, dopo che si è fatta fuori qualsiasi morale oggettiva è il massimo della stoltezza: è tappare il buco dopo che si è voluto che il topo uscisse.

 
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