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Io, critico del Risorgimento, amo l'Italia
Di Massimo Viglione - 17/03/2011 - Attualitą - 1180 visite - 0 commenti
Oggi 16 marzo 2011 e domani 17 l’Italia festeggia i 150 anni della sua unità statuale. Devo dire che mi hanno sempre colpito questo genere di espressioni mediatiche (“L’Italia festeggia” come “il mondo con il fiato sospeso” o “La Francia è chiusa nel suo dolore”…). Nel nostro specifico, che vuol dire “L’Italia festeggia”? Che domani 17 è festa nazionale e non si va a scuola o in ufficio? Sì, ma ciò è stato stabilito dal governo con decreto una tantum (per giunta). Che cosa è l’Italia? Può festeggiare l’Italia? o sono gli italiani a festeggiare? Ma se gli italiani sono quasi 60 milioni, sarebbe interessante scoprire quanti di questi 60 milioni di esseri umani nati in Italia e figli, nipoti e pronipoti di italiani nati in Italia – al di là del non andare a scuola o in ufficio – realmente festeggino e sappiano cosa stiano festeggiando esattamente. Vi sono 3 categorie di italiani riguardo a questo problema: 1) gli italiani che festeggiano domani una tantum l’Italia; questi poi si dividono a loro volta in due sottocategorie: a) quelli che festeggeranno in maniera convinta e attiva e b) quelli che lo faranno solo in maniera passiva, perché è un’occasione di vacanza; 2) gli italiani che in realtà non festeggiano domani (anche se faranno finta di festeggiare), ma festeggiano ogni anno il 25 aprile; 3) gli italiani che non festeggiano, per ragioni molto precise. E quanti sono gli italiani aderenti a questa ultima categoria? E perché esistono? E come mai proprio negli ultimi decenni e anni vanno in realtà sempre più aumentando, non solo come noto al Nord, ma ormai anche al Sud (e al centro pure…)? Questa dovrebbe essere, fra inni, canti solenni e canzonette pop, rumore e sventolio di tricolori e mostra di coccarde, discorsi paludati istituzionali e arringhe di arrabbiati che qualsiasi occasione (compresa questa) riducono al 25 aprile, alla Costituzione e a Berlusconi, una vera, determinante e sentita riflessione da fare. Non solo: altra riflessione-chiave: cosa dobbiamo esattamente festeggiare? In questi giorni gira su Facebook un’intelligente proposta cui aderire (o meno): “Unità sì Risorgimento no”. Sembra un facile slogan, ma in realtà è la chiave di volta del dramma della storia dell’Italia unificata. L’unità politica è un valore oggi che non può essere messo in discussione, rebus sic stantibus, pena la distruzione economica del Paese e – quello che nessuno dice – l’invasione del territorio peninsulare e la più completa umiliazione della nostra civiltà e società. Ma, detto questo, si può continuare ancora a far finta che gli italiani siano uniti? Che un abitante di Ragusa si senta fratello d’Italia con uno di Domodossola? O uno di Sassari con uno di Cividale del Friuli? Si può continuare a nascondere il fatto che una fetta non indifferente della popolazione italiana sia più o meno pronta a rinunciare – consideratamente o sconsideratamente – all’unità statuale? Si può continuare a far finta di non notare il fatto che un’altra non secondaria fetta della popolazione italiana sia rimasta ferma al 25 aprile 1945? Che sogna – apertamente o nascostamente, vecchi allora presenti o giovani fantasiosi e ansiosi di rinnovati giorni di guerra civile – ogni momento il mitra e, da quando c’è in politica il demonio Berlusconi, vero asse portante del senso dell’esistenza di tutti costoro, con rinnovato ardore e odio? Vogliamo continuare a far finta di non sapere che a tutti costoro in realtà del 17 marzo non gliene importa nulla (e infatti hanno trasformato la festa dell’unità in una festa della Costituzione in chiave antiberlusconiana) in quanto la loro vera e unica festa è quella del 25 aprile, del mitra in mano, degli italiani fucilati, della vendetta perpetrata anche dopo la pace, delle rese dei conti familiari e paesane, delle foibe e degli esodi di massa? Vogliamo continuare a far finta di non vedere che siamo l’unico Paese al mondo che non ha mai festeggiato la sua nascita istituzionale prima e continuerà a non festeggiarla anche dopo domani? I francesi, ad esempio, festeggiano dal 1790 il loro 14 luglio; gli americani subito dopo il 1776 istituirono la festa del 4 luglio. Noi no. Mai fatto in questi 149 anni precedenti. Lo facciamo ora. Ora e poi mai più. La loro festa non è quella dell’unificazione. È quella del 25 aprile, del mitra e delle foibe. Del 2 giugno, della repubblica e della costituzione scritta già allora contro Berlusconi bambino. L’Italia per costoro non è nata nemmeno 150 anni fa (età del tutto inadeguata per uno Stato dell’occidente, il più giovane di tutti insieme alla Germania), ma in fondo solo 65 anni fa. Insomma, chi festeggerà stasera e domani? E, soprattutto, cosa festeggerà? Festeggerà: - un’unificazione fatta da poche migliaia di attivi rivoluzionari sopra il capo dei 22 milioni di italiani allora presenti nella Penisola e nelle isole, “codificata” dalla più ignobile farsa della storia dell’Occidente, quella dei ridicoli “plebisciti” che nessun valore oggettivo ebbero né potevano avere; - l’aggressione di una dinastia molto poco italiana, che aveva il francese come madrelingua e le cui élite sociali e culturali in buona parte corteggiavano il calvinismo e gli ideali massonici, contro gli altri legittimi Stati della Penisola, tutti in perfetta sintonia con la lingua, civiltà, fede, cultura e fedeltà dei loro sudditi, Stati antichi di secoli riconosciuti da ogni governo del mondo, e soprattutto pacifici e alleati con quello Stato che li aggredì e invase in pochi mesi; - l’intervento di potenze straniere (Gran Bretagna e Francia) che firmarono la costituzione del nuovo staterello a loro soggetto e debitore; - lo sterminio di decine di migliaia di meridionali che non furono d’accordo a farsi piemontesizzare da un giorno all’altro; - la cacciata di massa di milioni di meridionali dalla loro terra, dopo averne distrutto l’economia e la progredita attività sociale e culturale, tramite l’utilizzo della delinquenza organizzata; - una feroce guerra alla Chiesa e alla fede degli italiani, che provocò la frattura fra la Chiesa e il nuovo Stato e rese i cattolici, vale a dire la quasi totalità degli italiani, stranieri in patria, per almeno 50 anni; - la più feroce pressione fiscale e la più incancellabile corruzione mai avute; - e poi: il fallimento delle guerra coloniali in Africa, la tragedia della Prima Guerra Mondiale con 700.000 morti e 1.500.000 mutilati, da cui avremmo potuto benissimo restare fuori, la dittatura, la Seconda Guerra Mondiale, la sconfitta e l’invasione di 3 eserciti stranieri in suolo italico, la guerra civile, la caduta della Monarchia e la nascita tutt’altro che limpida di una repubblica, e poi il terrorismo, la crisi economica, la dipendenza economica e politica del nostro Paese da potenze straniere, la corruzione endemica, il clima mai sopito di guerra civile, lo strapotere delle cosche mafiose, la guerra fra le istituzioni dello Stato, gli enormi problemi di oggi e molto altro ancora. Chi festeggerà oggi e domani e cosa festeggerà? Personalmente, io non festeggerò. E questo non solo per le ragioni suddette, ma per un motivo che ritengo molto più profondo e valido. Perché io festeggio l’Italia 365 giorni l’anno da quando ero bambino, e lo farò fino al mio ultimo giorno. Non è un modo di dire banale, è la verità. Da cattolico, ringrazio ogni giorno, puntualmente, il Creatore, per avermi dato i più meravigliosi doni che poteva darmi: l’essere cattolico e l’essere italiano. Ma il mio essere italiano non riguarda questi 150 anni. Si estende a tutta l’italianità, vale a dire per i 26 secoli precedenti. La mia italianità consiste nel far parte di un insieme di popolazioni che hanno costituito un impero quasi millenario che ha dato civiltà, diritto, lingua, unità e cultura al mondo occidentale tutto; che hanno avuto e hanno il più grande dei privilegi della storia umana: quello di ospitare il Vicario di Dio nella propria terra, nell’essere, come dire, il dna costitutivo della Chiesa stessa; che hanno donato all’umanità le più grandi opere di letteratura, arte, cultura, scienza, della civiltà umana. Chi ha dato all’umanità Catone e Scipione, Cicerone e Virgilio, Cesare e Augusto, e poi Bonaventura, Cimabue, Giotto, il Beato Angelico, Mantegna, Antonello da Messina, Piero della Francesca e tutti gli altri geni del rinascimento, quindi Caravaggio, Bernini, Borromini, Vivaldi, Rossini, Verdi, Marconi, Fermi, e così via, non sa proprio cosa farsene di Garibaldi e Mazzini. Chi ha donato all’umanità Francesco, Tommaso, Dante, Caterina e Cristoforo, non può pensare di festeggiare il 17 marzo. Sarebbe come festeggiare la promozione in seconda elementare quando si è giunti alla cattedra universitaria. E il paragone non regge affatto… Allora, per concludere, il motto “Unità sì Risorgimento no” ha un senso. Lo ha per me, che sono italiano e che ne sono fiero come pochi altri. Ha senso proprio perché amo l’Italia, quella vera, quella della civiltà imperiale e della civiltà cristiana. L’Italia maestra della civiltà umana. Proprio perché ho il dna italiano, non festeggio il 17 marzo, non mi riduco a 150 anni, peraltro alquanto tragici, umilianti e forieri di odio e corruzione, ma mi espando per i 27 secoli precedenti. Festeggio ogni giorno della mia vita l’appartenere al più grande e prezioso dei retaggi spirituali, civili e culturali di questa immensa comunità umana che abita su questo pianeta. Perché io, critico del Risorgimento, amo l’Italia. Non l’Italia nata dalle logge e sortita con inganni, violenze e tradimenti. Amo l’Italia vera, degli italiani veri, che non devono “essere fatti” ma che ci sono da sempre, e ai quali sono molto più che fiero e felice di appartenere. Viva l’Italia. Quella vera.
 
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