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Teatro e veritą, ovvero la possibilitą di rappresentare il vero [parte 2]
Di don Matteo Graziola - 10/12/2010 - Cultura e societą - 1174 visite - 0 commenti
4. Il teatro religioso: un percorso nei secoli (Sofocle)
E’ importante ora prendere in considerazione alcune opere teatrali che segnano delle tappe espressive importanti sia del senso religioso dell’uomo che del cristianesimo. E’ chiaro che si tratta di una selezione del tutto incompleta; essa però tenta di richiamare l’attenzione su una collezione di testi che difficilmente possono essere superati nel loro valore sia contenutistico che artistico. E’ auspicabile che essi siano promossi, sia come lettura che come rappresentazione, dalle comunità cristiane alla ricerca di opere teatrali da valorizzare dentro la vastissima produzione mass mediatica.

(1) SOFOCLE: “Edipo Re” (e “Edipo a Colono”)
Tutte le tragedie greche sono portatrici di una riflessione drammatica sul problema dell’inevitabilità della morte. In questa loro profonda serietà sfidano il nichilismo gaio dell’uomo moderno. Nello stesso tempo esse mostrano, per contrasto, quanto sia stata grande la rivoluzione culturale cristiana, che ha cambiato radicalmente il pessimismo e la rassegnazione dei greci in una visione esistenziale piena di speranza e di fiducia: il destino umano non è più l’oscurità, ma la gloria di Dio a cui tutti possono partecipare se la accolgono in questa vita. Le tragedie greche in tal modo possono aiutare a comprendere sia la gravità del problema umano, che la novità della salvezza cristiana.
Tra esse spiccano due vette, entrambe di Sofocle, vale a dire Edipo Re e Antigone, appartenenti entrambe al cosiddetto ciclo tebano. La prima è la più famosa e convincente rappresentazione del problema dell’inevitabilità del destino e dell’insuperabilità umana del problema del male. Edipo lotta disperatamente contro una profezia avversa e finisce col porre in atto lui stesso inconsapevolmente le situazioni e le condizioni perché essa si attui. La tesi di fondo è chiarissima: l’uomo con le sue forze non può salvare se stesso; anzi, se tenta di farlo, sprofonda sempre più nel suo nulla.
Per rendere consapevole Edipo del suo male, che né lui né nessun altro riesce a conoscere e che sta causando una maledizione terribile su tutta la città di Tebe, Sofocle fa intervenire la figura profetica del cieco Tiresia:

Corifeo: “[…] l’indovino, colui che , ispirato dal dio, unico tra gli uomini possiede la verità”.

Essendo cieco fisicamente, non deve a sé la sua conoscenza della verità, ma agli Dei: per questo egli, non vedente, può vedere veramente, mentre gli altri, vedenti, non possono vedere, perché confidano solo in se stessi e così facendo si rendono ciechi. E con queste parole si rivolge ad Edipo, che insiste per sapere la verità sugli altri, e non sospetta che sarà invece una verità su di sé:

Tiresia: “Ahimè, ahimè! Tremenda cosa è sapere quando non giova a chi sa! […] E’ la forza della verità che mi sostiene. […] Dico che sei dentro un abisso di nefandezza e non lo vedi. […] Non è Creonte il tuo danno, tu sei danno a te stesso. […] Tu hai gli occhi per vedere, ma in che punto sei di miseria non vedi […]. […] la maledizione di tuo padre e di tua madre, ti inseguirà con il suo piede tremendo […]. E poi c’è una turba di altri guai che tu non conosci ancora […]. […] sappi che non c’è tra i mortali nessuno il quale cadrà abbattuto più miseramente di te”.

Quando poi Edipo scopre di essere lui il colpevole sconosciuto, Sofocle, impersonandosi sia negli interlocutori che in Edipo stesso, pronuncia la durissima sentenza sul misero essere umano:

Pastore: “[…] tu sei il più sventurato di tutti i mortali”.
Edipo: “Uh, uh, uh! Tutto è chiaro ormai. O luce del sole, ch’io ti veda ora per l’ultima volta! Io che da chi non dovevo nascere sono nato, i che con chi non mi dovevo congiungere mi sono congiunto, io che chi non dovevo uccidere ho ucciso!”
Coro: “Ahi progenie di mortali, come simile al nulla è vostra vita! Di felicità non più che un’apparenza ha ciascuno, e anche questa, appena avuta, subito declina e cade. Solo che a te come ad esempio io guardi e alla tua vita, Edipo miserando, cosa nessuna io reputo dei mortali felice”.

La conseguenza più drammatica è il desiderio di non vedere, di non sapere quanto sia grande il proprio male:

Servo: “[…] si percosse le orbite degli occhi. E gridava che così non avrebbero più veduto essi né i patimenti sofferti né i delitti compiuti”. […] Corifeo: “Disgraziato te! Per la coscienza che hai delle tue disgrazie, e per le tue disgrazie, disgraziato! Come vorrei non averti mai conosciuto!”

La saggezza greca non può andare oltre: le mancano le ali per alzarsi in volo, secondo la bella immagine suggerita da Giovanni Paolo II . Una di queste ali l’avrebbe, ed è la ragione; ma mancando l’altra, che è la fede rivelata, anche la prima diventa impotente a sollevare l’uomo. Tuttavia anche l’uomo naturale riceve qualche aiuto di grazia, senza il quale non potrebbe in alcun modo resistere: esso sembra manifestarsi in una specie di presagio di salvezza, in una tenue e misteriosa speranza che nulla riesce a togliere dal suo cuore e dal fondamento della sua ragione. Questa tragedia infatti trova una significativa continuità nell’Edipo a Colono, che Sofocle ha scritto alla fine della sua lunga vita. Nel momento in cui Edipo, mendico, cieco ed esule, accetta la sua povertà e la sua totale dipendenza dal Mistero, diventa sorgente di benedizione per la città di Colono che lo ha accolto e va incontro in pace alla morte predetta da una antica profezia. Anche qui la tesi di fondo è chiarissima: l’uomo che accetta il volere divino è condotto misteriosamente verso il superamento trascendete del suo altrimenti insuperabile male.
Quella di Sofocle è l’intuizione di una salvezza ignota, che l’uomo non può darsi da sé e che comporta alla fin fine l’uscita da questa vita di dolore. Non si tratta dunque ancora della speranza cristiana, che trasforma già il tempo presente in un cammino di compagnia con Dio fatto uomo ; si tratta però di un presentimento di questa possibilità, che traluce nell’abbandono di sé agli Dei da parte di Edipo.
Come si è detto, la conoscenza e anche la rappresentazione di queste due tragedie può essere un’occasione utile di riflessione sul mistero immenso da cui la vita umana dipende e in cui interamente si svolge, in opposizione alla mentalità positivista che non vede la profondità del dramma umano.

(2) SOFOCLE: “Antigone
La seconda vetta sopra citata è Antigone, la tragedia che narra le vicende drammatiche dei figli di Edipo rimasti a Tebe, governata dal re Creonte dopo l’esilio di Edipo.
E’ forse la più alta testimonianza pagana dell’esistenza di quella lex aeterna, stabilita da Dio, di cui parlano sia S.Agostino che S.Tommaso , da cui deriva la lex naturalis che tutti gli uomini, di qualsiasi luogo e tempo, sono tenuti a riconoscere e a rispettare: essa infatti si riflette nella coscienza attraverso la ragione. Sofocle è chiarissimo nel ribadire che le norme di questa legge sono superiori a quelle del principe e non sono modificabili dagli uomini. Esse erano già state richiamate chiaramente nell’Edipo Re:

Coro: “[…] Presiedono a questo leggi dall’alto, nell’etere uranio create. Il padre Olimpo, lui solo, le generò, e non mortale natura di umani; e tali che oblio non potrà mai assopirle perché un grande iddio è in loro, da vecchiezza immune”.

Nell’Antigone diventano il tema dominante e mostrano l’ingiustizia e l’insensatezza del potere umano quando esso cerca di negarle. La protagonista non accetta l’ordine del re Creonte che vieta la sepoltura di suo fratello Polinice, il cui cadavere giace davanti alla città dopo che egli era stato ucciso in un tentativo fallito di rovesciare il tiranno: quest’ultimo dà questo ordine per ammonire i suoi sudditi e assicurare il suo potere, incurante della legge divina che impone la pietà verso i morti. Antigone cerca di convincere la sorella Ismene ad aiutarla a seppellire il fratello, ma questa si rifiuta di disobbedire all’ordine regale:

Ismene: “Considera tu, ora, di quale morte più atroce moriremo noi due abbandonate, se trasgrediamo il comando, la legge di un sovrano. […] Eccedere dai nostri limiti è una follia.
Antigone: “[…] Io lo seppellirò. E poi sarà bello morire. Cara a lui riposerò con lui a me caro. […] Rimani tu, qui, a disprezzare le leggi divine.”
Ismene: “Io non le disprezzo le leggi divine; ma nulla so fare contro la città”.

Ismene è il simbolo degli uomini vili, che pur conoscendo la verità e la giustizia si adeguano al potere che le calpesta ; ma si sente qui anche l’eco ante litteram di posizioni ideologiche moderne, che attribuiscono allo Stato il diritto di andare contro, in nome della ‘laicità’, alle leggi divine espresse nella lex naturalis, la cui osservanza sarebbe riservata ai soli credenti, come se esse non fossero invece il fondamento di tutta la società civile.
Antigone non si scoraggia e compie da sola la pietosa opera di sepoltura. Scoperta da una guardia, viene condotta davanti al re, nel dialogo col quale emergono le parole decisive del dramma:

Creonte: “Conoscevi il mio ordine, il mio divieto?”
Antigone: “Lo conoscevo […]”.
Creonte: “E tu hai osato sovvertire queste leggi?”
Antigone: “Sì, perché non fu Zeus a impormele. Né la Giustizia, che siede laggiù tra gli dei dei sotterranei, ha stabilito queste leggi per gli uomini. Io non credevo, poi, che i tuoi divieti fossero tanto forti da permettere a un mortale di sovvertire le leggi non scritte, inalterabili, fisse degli dei; quelle che non da oggi, non da ieri vivono, ma eterne: quelle che nessuno sa quando comparvero. Potevo io, per paura di un uomo, dell’arroganza di un uomo, venir meno a queste leggi davanti agli dei? Ben sapevo di essere mortale, e come no?, anche se tu non l’hai decretato, sancito! […] Subire la morte quasi non è un dolore, per me. Sofferto avrei invece, e senza misura, se avessi lasciato insepolto il corpo morto di un figlio di mia madre. Il resto non conta nulla. A te sembrerà ch’io agisca da folle. Ma chi mi accusa di follia, forse è lui, il folle. […] e tutti costoro direbbero che il mio atto è bello, se la paura non li obbligasse al silenzio.”

Creonte condanna a morte Antigone, ma si trova poi ad affrontare il figlio Emone, di cui la condannata era la promessa sposa. Anche attraverso le sue parole Sofocle ribadisce la medesima verità fondamentale:

Emone: “Penso a te solo, ora”.
Creonte: “Miserabile, contrastando il padre”.
Emone: “Perché vedo che l’errore ti conduce ad offendere la Giustizia”.
Creonte: “Offendere la Giustizia? Io difendo l’autorità mia, del re.”
Emone: “Non la difendi calpestando onori sacri”.

Nemmeno l’intervento di Tiresia, l’indovino attraverso cui Sofocle fa parlare la voce sacra della verità, che predice “la vendetta dell’Ade e degli dei” , distoglie il re dal suo proposito. La vicenda si conclude con la morte di Antigone, cui segue quella suicida di Emone e infine quella di Euridice, moglie di Creonte, anch’essa suicidatasi. Creonte, attonito e disperato, sprofonda nella sciagura che egli stesso ha causato.
Sofocle, già dalla fine del primo episodio, aveva svolto attraverso il coro questa riflessione di fondo:

Coro: “L’esistere del mondo è uno stupore infinito, ma nulla è più dell’uomo stupendo. […] fatto esperto di tutto, audace corre al rischio del futuro: ma riparo non avrà dalla morte […]. Fornito oltre misura d’ogni sapere, d’ingegno ed arte, ora si volge al amale, ora al bene; e se accorda la giustizia divina con le leggi della terra, farà grande la patria. Ma se il male abita in lui superbo, senza patria e misero vivrà […].”

Non è difficile notare che la tematica di questa tragedia è di grandissima attualità, in un momento in cui il relativismo dominante, unitamente al culto idealista per il potere dello Stato, nega l’esistenza di valori non negoziabili fondamentali, quali il diritto alla vita dei nascituri, il rispetto del mistero dell’uomo negli embrioni, la sacralità della famiglia e il suo diritto di educare, e via dicendo.

Estratto dal libro La notizia dell'Essere - La comunicazione e il cristianesimo
 
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