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Perché riesplode la questione dell'eutanasia
Di Gianburrasca - 25/09/2006 - Bioetica - 1572 visite - 0 commenti

E' esploso in questi giorni il dibattito politico che, nelle intenzioni di chi ha acceso la miccia, dovrebbe preparare il terreno favorevole alla legalizzazione dell'eutanasia anche in Italia.

A riportare alla ribalta dei giornali l'annosa querelle sulla "dolce morte", è stata l'accorato appello rivolto al presidente della Repubblica da un malato di distrofia mulscolare, Piergiorgio Welby, copresidente dell'Associazione Luca Coscioni.

E la bomba è deflagrata, perché il Capo dello Stato gli ha risposto invitando il mondo politico ad aprire un confronto in materia.

Evidentemente Welby ha toccato le corde giuste presentando il proprio dramma personale. E i drammi personali, si sa, piacciono alla stampa che con racconti come questi è consapevole di appagare la curiosità un po’ morbosa dei lettori.

“Ho orrore della morte – ha confessato nella sua lettera Welby – ma la mia non più vita, bensì "un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche".

L’obiettivo di Pannella e soci è chiaro: utilizzare questo malato incurabile per suscitare nell’opinione pubblica da un lato un sentimento di pietà verso quest’uomo, dall'altro diffondere al tempo stesso lo sdegno perché il retrogrado ordinamento del nostro Paese non permette di soddisfare la sua disperata richiesta di staccare la spina, ponendo fine a quella che egli stesso considera una non-vita.

In altri termini ai rosapugnoni e agli esponenti della sinistra radicale, della reale situazione di Welby non frega un accidente.

Fosse per loro potrebbe crepare anche subito se il suo dramma non servisse a muovere le acque per accelerare il sospirato avvento dell'eutanasia nel nostro Paese.

Chi conserva il lume della ragione sa che questo è solo un trucco odioso che ha un nome preciso: si chiama strumentalizzazione. E della peggior specie, perchè gioca sulla pelle di un essere umano in carne ed ossa.

La vera questione è un’altra, come spiega con chiarezza l'articolo dello scrittore Luca Doninelli pubblicato in prima pagina da Il Giornale di ieri (25 settembre 2006). Ne riporto una parte che consiglio a tutti di leggere per non lascairsi abbindolare e cogliere il nocciolo del problema.  

“Bisogna dire quello che non va in questa storia“, osserva Doninelli. “Innanzitutto, le storie sono due. Una riguarda il caso personale di Welby, l'altra la battaglia civile che dal caso Welby prende spunto.

È lo stesso Piergiorgio Welby (che è, ricordiamo, co-presidente dell'associazione Luca Coscioni per la libertà della ricerca scientifica) a presentare le due storie come se fossero una sola.

Ma non è così.

L'attenzione viene immediatamente spostata dalla realtà della sofferenza, una vicenda umana viene usata, proprio usata, ai fini di una propaganda ideologica.

Anche il modo di diramare il comunicato, con un video che lo mostra in tutto lo spettacolo (che non è, scusate tanto, la realtà) della sua sofferenza atroce e la voce sintetizzata al computer ha qualcosa di orribile, ma orribile soprattutto perché costruito, calcolato, misurato.

C'è, dunque, una finzione il cui scopo è quello di riportare al centro del dibattito civile la questione dell'eutanasia.

Su questo punto è bene essere chiari e semplici perché l'ipocrisia non può essere ammessa. Il cuore del contendere si fonda sul seguente dilemma: i padroni della nostra vita siamo noi, oppure la vita è un dono?

Dalle parole di Welby (un po' letterarie) si capisce che per lui la vita è un dono.

Poi però la sofferenza è tale che la vita smette di essere un dono, è solo una condanna.

Ma una volta giunti al dibattito civile, bisognerà scegliere una delle due vie.

Se la società (opportunamente manovrata) decide che io sono il padrone della mia vita, posso naturalmente avvalermi del diritto a non interrompere la mia esistenza, ma lo farò solo in base a una convinzione privata, a un parere: il parere che la vita è sacra.

Ma sarà sempre un parere privato, senza nessuna pretesa di verità.

La regola pubblica si fonderà, infatti, sul principio opposto. Ma, una volta deciso che la vita è nostra proprietà, che la si può volere e disvolere, una volta deciso che non è un dono gratuito, che non è una porta aperta sul mistero, chi potrà fermare la marcia del più forte? Dove porremo il limite alla sperimentazione genetica? Chi potrà dire «fin qui si può, da qui in avanti non si può»?

Io non voglio essere obbligato ad accettare il principio che la vita mi appartiene.

Lo dico non solo da cristiano, lo dico anche come narratore. Scendendo nel cuore dei fatti che raccontiamo, i casi sono due: o sperimentiamo la loro inconsistenza originaria, oppure sperimentiamo la tenacia della realtà, la sua irriducibilità a tutte le nostre teorie.

Chi sostiene che noi siamo i padroni della nostra vita si fonda sulla prima alternativa, alla quale è stato dato un nome preciso: nichilismo. Bene, io non sono nichilista. Nessuno può dirmi che devo accettare l'inconsistenza della vita salvo poi precisare che, personalmente, privatamente, ritengo che la vita sia una bellissima cosa.

Questa sarebbe una buffonata, perché una volta detto «sì» al principio le persuasioni personali sono paglia e fumo. Welby può chiedere di morire, e io sinceramente non so se abbia torto, a titolo individuale.

Se però mi trovassi nella sua condizione, so che i miei amici mi ricorderebbero che la verità della vita non muta di un punto né di una virgola anche se dalla mia difficile condizione non la si capisce più.

Vorrei ricordare che in Italia esistono cinquemila malati di distrofia laterale: cinquemila persone che, diversamente da Welby, vogliono continuare a vivere. I parenti e gli assistenti di queste persone devono spendere centinaia di euro al giorno per sostenere le cure dei loro cari malati.

Lo Stato non si fa nessun carico di queste situazioni. Mi domando dunque se la voce di un solo Welby, per quanto forte, debba trovare ascolto mentre nessuno si preoccupa di quei cinquemila.

Certo, staccare la spina costa meno che sostenere l'onere di una cura molto costosa. Scusate il cinismo, ma è così. Ma Lei, Presidente Napolitano, che nella risposta a Welby ha mostrato tutto il suo equilibrio e la sua saggezza, non dimentichi l'appello muto, il grido ignorato di tutti quelli che, anziché morire, vogliono vivere.”

Gian Burrasca pressmail.a@libero.it
 
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