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Presentazione in aforismi di un reazionario colombiano
Di Giulia Tanel - 14/10/2010 - Letteratura - 2033 visite - 0 commenti

“I libri seri non istruiscono, interrogano”, parola di Nicolás Gómez Dávila. E leggendo i suoi, di libri, non si può non sottoscrivere la verità di tale aforisma.

Gómez Dávila nella sua vita “lesse, scrisse e morì”. Nato a Bogotá il 18 maggio 1913, all’età di sei anni si trasferì a Parigi, dove ebbe un’istruzione umanistica degna di nota. A ventitré anni fece ritorno in patria e si ritirò a vita privata. I suoi giorni trascorrevano tra la lettura e la scrittura, in compagnia dei suoi amici più cari: i libri. Si dice di lui che l’unica cura che ritenesse utile contro il tedio dell’esistenza fosse la biblioterapia; Gómez Dávila si rintanava nella sua biblioteca e ne usciva solo a notte fonda, dopo aver scritto su piccoli quaderni verdi i propri pensieri, sotto forma di aforismi. Infatti, più che scrivere lunghe opere in prosa, lo studioso colombiano preferiva esporre le proprie considerazioni attraverso brevissime frasi, che hanno il pregio di andare direttamente al nocciolo della questione: “[…] tra poche parole è difficile nascondersi come tra pochi alberi”. In fondo, “scrivere è far sì che la frase aderisca al suo significato senza sbavature”.


Per le sue posizioni, Gómez Dávila è stato spesso definito un “reazionario”, epiteto di cui andava molto orgoglioso. Il suo è un antimodernismo inflessibile e intransigente, basato sull’inestirpabile convinzione che “l’umanità sia caduta nella storia moderna come un animale cade nella trappola” (Escolios, II, 471) e che la società attuale “ha sostituito il mito di una passata età dell’oro con quello di una futura età della plastica” (Escolios, II, 88).
Per Dávila i tre nemici più radicali dell’uomo sono: il demonio, lo Stato e la tecnica. Il primo perché è la perversione della trascendenza e perché “il più grande errore moderno non è l’annuncio della morte di Dio [che è “un’opinione interessante, che però non riguarda Dio”], ma l’essersi persuasi della morte del diavolo”; il secondo in quanto, più aumenta lo Stato più decresce l’individuo; e infine la tecnica, perché costituisce una perenne tentazione del possibile: mica per niente “il progresso è il flagello che Dio ha scelto per noi”.

Ma le frasi pungenti di Gómez Dávila toccano ogni ambito del vivere moderno.
Se “coltivare la lucidità è il fine della cultura” e “la prolissità non è un eccesso di parole, ma una carenza di idee”, la diretta conseguenza è che “forse non c’è scempiaggine pari a quella di passare la vita a leggere scrittori mediocri perché sono nostri contemporanei”. Infatti, “a volte basta una virgola per distinguere una banalità da un’idea”, ma è altresì vero che “un tocco di volgarità rende popolare qualsiasi libro”. “I progressi della stampa hanno incoraggiato la moltiplicazione di libri sciatti e prolissi, mentre l’obbligo di ricorrere allo scrivano e al rotolo di papiro induceva all’accuratezza e alla brevità. Ieri l’imperfezione di un testo era involontaria, oggi non è detto che lo sia. Le rotative vomitano immondizia che non aspira a essere nient’altro”, quindi meglio mettersi in guardia dagli scrittori moderni.
Ma il colombiano ne ha anche per chi legge, infatti: “le frasi sono pietruzze che lo scrittore getta nell’animo del lettore. Il diametro delle onde concentriche che esse formano dipende dalla dimensione dello stagno”.
“Educare non consiste nel contribuire al libero sviluppo dell’individuo, ma nel fare appello a ciò che tutti hanno di buono contro ciò che tutti hanno di perverso”. Ecco quindi che, in tale contesto, “i pregiudizi proteggono dalle idee stupide”, perché “la verità è la gioia dell’intelligenza” e “chi scrive ragione con la maiuscola si prepara ad ingannare”: infatti, “il diavolo è troppo intelligente per essere razionalista, ma suggerisce oracoli razionalisti ai sui devoti perché lo venerino senza scrupoli”.

Secondo Gómez Dávila “questo secolo sta diventando uno spettacolo interessante: non per quello che fa, ma per quello che disfa”. Purtroppo “la democrazia non è tanto l’impero delle parole quanto quello delle menzogne” perché “la vita è officina di gerarchie. Solo la morte è democratica”. Allo stesso modo, anche la Chiesa è giusto che mantenga solido il suo assetto gerarchico e “chi richiede alla Chiesa di adattarsi al pensiero moderno, confonde per lo più l’esigenza di rispettare certe regole metodologiche con l’obbligo di adottare un repertorio di postulati imbecilli”.
“Il cristiano moderno non chiede che Dio lo perdoni, ma che ammetta che il peccato non esiste”; “progressisti atei e progressisti cattolici hanno rinunciato gli uni alla bestemmia, gli altri alla preghiera, per condividere, gli uni con gli altri, lo stesso culto delle fognature suburbane”, in nome del paradigma sociale secondo il quale “molti amano l’uomo solo per poter dimenticare Dio con la coscienza a posto”. “Il cristiano moderno sente l’obbligo professionale di mostrarsi affabile e allegro, di sfoggiare un benevolo sorriso a trentadue denti, di ostentare cordialità ossequiosa per convincere il miscredente che il cristianesimo non è un religione >, dottrina >, morale >. Il cristiano progressista ci stringe forte la mano con un ampio sorriso elettorale”.
Però “l’attuale crisi del cristianesimo non è stata provocata dalla scienza, o dalla storia, ma dai nuovi mezzi di comunicazione. Il progressismo religioso è il continuo sforzo di adattare le dottrine cristiane alle opinioni patrocinate dalle agenzie di stampa e dagli agenti pubblicitari”: “l’obbedienza del cattolico si è trasformata in un’infinità docilità a tutti i venti del mondo”.
Insomma, “imbecille è chi percepisce solo l’attualità”, mentre “il pensiero reazionario è impotente e lucido”.
Il problema della religione non ha investito unicamente i fedeli, infatti “è difficile simpatizzare con il clero moderno da quando è diventato anticlericale”. “La più grande preoccupazione della teologia moderna è il ruolo del cristiano nel mondo. Preoccupazione singolare, visto che il cristianesimo insegna che il cristiano non ha alcun ruolo nel mondo”.
Gómez Dávila si spinge fino a dire che “sul Concilio Vaticano Secondo non sono discese lingue di fuoco, come sulla prima assemblea apostolica, ma un torrente di fuoco: un Feuerbach”. E questo in virtù del fatto che “il Concilio Vaticano Secondo più che un’assemblea episcopale sembra[va] un conciliabolo di manifatturieri spaventati per aver perso la clientela”… Però, si sa, oggigiorno “addurre a difesa di qualcosa la sua bellezza irrita l’animo plebeo”, quindi meglio non dire troppo a voce alta quanto solenne è la Messa di Pio V, celebrata con canti gregoriani e silenzi carichi di Mistero…

Per chi volesse approfondire la conoscenza di Gómez Dávila, morto a Bogotá il 17 maggio 1994, consigliamo i libri “In margine a un testo implicito” (Ed. Adelphi, Milano, 2001, pp. 192, euro 10,33) e “Tra poche parole” (Ed. Adelphi, Milano, 2007, pp. 228, euro 14), da cui abbiamo tratto tutti gli aforismi sopra citati.

 
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