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Gli scozzesi e il papa
Di Gianfranco Amato - 02/10/2010 - Religione - 942 visite - 0 commenti

Che gli scozzessi fossero pronti ad accogliere calorosamente il Santo Padre durante il suo ultimo viaggio in Gran Bretagna era pressocchè scontato.

E i fatti lo hanno dimostrato, a cominciare dal saluto rivoltogli in lingua gaelica: ceud mìle fàilte, centomila volte benvenuto! Ma forse uno degli onori maggiori rivolti da quel popolo al Pontefice è stato di avergli dedicato un tartan, il tipico tessuto di lana scozzese, usato soprattutto per la confezione dei kilt. Come in tutti i tartan che si rispettino, anche in quello donato a Sua Santità le diverse tonalità cromatiche hanno giocato un importante ruolo simbolico, a cominciare dai colori nazionali della Scozia (bianco e blu), da quelli vaticani (bianco e giallo), da quelli dello stemma del cardinale Newman (bianco e rosso), e dal colore verde utilizzato per richiamare i licheni che crescono tra le pietre di Whithorn nel Galloway, luogo in cui San Niniano portò per la prima volta l’annuncio cristiano agli scozzesi, più di 1600 anni fa.

Persino nella tessitura e nella trama dei fili sono state simbolicamente ricordate le otto diocesi della Scozia e le 452 parrocchie cattoliche. Se era, quindi, pacificamente prevedibile il sincero e festoso benvenuto al Papa da parte degli scozzesi, altrettanto non lo era quello degli inglesi. Nubi minacciose si erano addensate sulla visita del Santo Padre dalle parti di Londra. In questo caso, però, i fatti hanno smentito le previsioni, e la realtà ha donato scene davvero impensabili, come quella di vedere un Papa parlare a Westminster Hall, tessendo le lodi di San Tommaso Moro.

Per comprendere esattamente la portata storica di quanto è accaduto sarebbe sufficiente leggere l’editoriale apparso sul Telegraph del 16 settembre, dal titolo “Visita del Papa: Assoluti Morali e imperi che scricchiolano”. L’autore è il prestigioso giornalista agnostico e di sinistra Andrew Brown, vincitore, tra l’altro, del Premio Orwell 2009.

Un passo di quell’editoriale merita di essere integralmente riportato: «Abbiamo assistito alla fine dell’impero britannico. In tutti i quattro secoli di storia da Elisabetta I ad Elisabetta II, l’Inghilterra è stata definita come una nazione protestante. I cattolici sono sempre stati gli “altri”, a volte identificati come violenti terroristi e ribelli, a volte visti semplicemente come sporchi immigrati. Il sentimento che questa fosse una nazione prediletta da Dio, derivò da una lettura profondamente anti-cattolica delle Sacre Scritture. Tale sentimento era ancora ben presente quando la regina Elisabetta II durante la sua incoronazione nel 1952 giurò di mantenere la fede protestante come religione di stato. Per tutti quei quasi quattrocento anni sarebbe stata impensabile l’idea di un Papa che prendesse la parola a Westminster Hall per lodare Sir Thomas More, il quale morì per difendere la sovranità pontificia contro quella del re. La ribellione contro il Papa fu l’atto sul quale si è fondato il potere inglese (“foundational act of English power”). E ora che il potere è venuto meno, forse anche la ribellione non ha più ragione di essere».

Questa analisi di Brown la dice lunga sugli effetti della visita di Benedetto XVI nel cuore del potere inglese, anche se io non condivido pienamente l’idea che la ribellione alla Chiesa di Roma abbia costituito il “foundational act of England”. In questo sono d’accordo con Damian Thompson, editorialista cattolico del Telegraph. Non è propriamente corretto, infatti, sostenere che l’Inghilterra abbia scoperto la propria identità solo a seguito della Riforma. In realtà, l’industria e la cultura inglese sono fiorite sotto l’influenza di Roma, e avrebbero continuato a progredire anche se Enrico VII fosse rimasto cattolico. Come, del resto, è accaduto in Germania dove città rimaste fedeli a Roma hanno prosperato come quelle passate alla confessione protestante.

Per comprendere quanto profonda sia la radice cattolica della terra di San Giorgio è sufficiente pensare all’Abbazia di Westminster, luogo simbolo delle antichissime origini cristiane del Paese, la cui soglia è stata varcata per la prima volta da un Successore di Pietro, proprio il 17 settembre 2010. Il nome ufficiale è Collegiate Church of Saint Peter in Westminster, proprio perché al Principe degli Apostoli essa è dedicata. Il riferimento petrino e lo stretto legame con Roma stanno infatti all’origine della chiesa. L’abbazia di Westminster fu costruita tra il 1045 e il 1050 per disposizione di re-santo Edoardo il Confessore, in adempimento di un voto da lui fatto mentre si trovava ancora in esilio in Normandia: se Dio avesse aiutato la sua famiglia a riavere il trono d'Inghilterra, egli avrebbe compiuto un pellegrinaggio a Roma. Una volta diventato re, però, non essendogli possibile lasciare il Paese, gli fu concessa un’apposita dispensa papale, ed il Pontefice commutò il voto nell’impegno a costruire un monastero dedicato a San Pietro. Fu quindi individuato un luogo in cui già si venerava il Successore di Cristo presso Thorney Island, isola del Tamigi, dove nel 616 era stato eretto un piccolo santuario in memoria dell’apparizione di San Pietro ad un pescatore. Da allora ogni anno, tra l’altro, in ricordo dell’accaduto, il 29 giugno i pescatori del Tamigi portano in dono a San Pietro un salmone, che viene ricevuto dall’abate di Westminster.

Fu intorno al 970 che San Dunstano, con l’aiuto di re Edgardo, fece costruire un convento di monaci benedettini cui fu affidata la cura del santuario. Nel 1045 re Edoardo, grazie anche ad una consistente donazione di terreni, diede inizio alla realizzazione della grandiosa chiesa romanica che oggi ammiriamo, consacrata il 28 dicembre del 1065. Per i primi 500 anni della sua storia, quindi, l’Abbazia di Westminter è stata fedele ai predecessori di Benedetto XVI, ed è per questo che l’ingresso del Pontefice in quello storico luogo di culto, dedicato proprio a San Pietro, ha assunto un altissimo valore simbolico, riconfermando quale sia il vero “foundactional act” della fede religiosa inglese. Si è persino avuta l’impressione che il Papa avesse forse più titolo a stare in quella chiesa dell’arcivescovo di Canterbury, il quale – per amor di verità – ha dimostrato al Santo Padre un tale grado di rispetto da far quasi trapelare un riconoscimento di fatto della supremazia della Sede di Pietro, pur se negata sotto il profilo dottrinale. Tutto ciò non deve far dimenticare, comunque, che per secoli l’Inghilterra ha conosciuto una profonda e radicale deriva anticattolica, fatta di odio, persecuzioni e campagne finalizzate ad estirpare dalla società l’antica fede. Chi conosce bene l’attuale situazione in Gran Bretagna sa, però, che i residui dell’antico antipapismo sono oramai ridotti ai minimi termini, e non trovano molto spazio nei media.

Oggi il testimone dell’odio contro la Chiesa di Roma è passato nelle mani delle lobby laiciste. Atei, umanisti, massoni, secularist, assai più ricchi e potenti, rappresentano un nemico comune di tutta la cristianità in Gran Bretagna. Anche per questo mi ha particolarmente colpito vedere riuniti per la comune celebrazione dei Vesperi a Westminster Abbey tutti i rappresentanti delle diverse comunità cristiante della Gran Bretagna. E ancora di più mi ha toccato l’immagine del Successore di Pietro e dell’Arcivescovo anglicano di Canterbury che insieme veneravano la tomba di Sant’Edoardo il Confessore, mentre il coro cantava: «Congregavit nos in unum Christi amor». Perché tutto ciò accadesse ci voleva davvero Benedetto XVI. culturacattolica.it

 
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