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La barba di Solženicyn e la frammentazione dei diritti umani
Di Libertà e Persona - 20/06/2010 - Filosofia - 1627 visite - 0 commenti
di Maurizio Manzin(1)

Dovremo cominciare con una lunga citazione:

«Il concetto di diritti umani è vecchio di duecento anni, ma ha conosciuto il suo periodo di maggior gloria a partire dalla seconda metà degli anni Settanta del nostro secolo. Fu in quegli anni che Aleksandr Solženicyn venne espulso dal suo paese e la sua figura insolita, ornata di barba e di catene, ipnotizzò gli intellettuali occidentali, malati di desiderio per il grande destino che non era toccato a loro. Solo grazie a lui arrivarono a credere, con cinquant’anni di ritardo, all’esistenza di campi di concentramento nella Russia comunista, e persino i progressisti d’un tratto furono pronti ad ammettere che non era giusto imprigionare la gente per le sue idee. E trovarono anche una giustificazione eccellente per il loro nuovo atteggiamento: i comunisti russi avevano violato i diritti umani, proclamati solennemente dalla stessa Rivoluzione francese!
«Così, grazie a Solženicyn, i diritti umani trovarono nuovamente posto nel vocabolario dei nostri tempi; non conosco un solo politico che non parli dieci volte al giorno di “lotta per i diritti umani” o di “negazione dei diritti umani”. Tuttavia, poiché in Occidente non esiste la minaccia dei campi di concentramento e si può dire e scrivere ciò che si vuole, la lotta per i diritti umani, via via che ha guadagnato popolarità, si è svuotata di qualsiasi contenuto concreto, ed è infine diventata una specie di atteggiamento generale di tutti nei confronti di tutto, una sorta di energia che trasforma qualsiasi desiderio dell’uomo in diritto. Il mondo è diventato un diritto dell’uomo e tutto è diventato un diritto: il desiderio d’amore un diritto all’amore, il desiderio di riposo un diritto al riposo, il desiderio d’amicizia un diritto all’amicizia, il desiderio di guidare a velocità proibita un diritto a guidare a velocità proibita, il desiderio di felicità un diritto alla felicità, il desiderio di pubblicare un libro un diritto a pubblicare un libro, il desiderio di gridare in piazza di notte un diritto a gridare in piazza di notte».

Chi sta parlando è Milan Kundera (2), e gli intellettuali ai quali fa riferimento sono i protagonisti del Sessantotto francese: i teorici di quella “contestazione giovanile” che, con cadenza quasi quotidiana, celebrava il suo rito di cortei, di proteste e di scontri nelle vie di Parigi. Quei cortei, quelle proteste e quegli scontri avevano tutti delle solenni motivazioni (la “giustizia sociale”, il “diritto allo studio”, la “democrazia” ecc.) che i filosofi provvedevano ad irrobustire con le ideologie di Lenin e di Mao. Al fondo, tuttavia – come molti artisti in anni successivi hanno confessato – quella “contestazione” era animata da un desiderio ingenuo e, ai nostri occhi di oggi, quasi puerile: eternare il momento della giovinezza, imporne il ritmo caotico al mondo adulto della società e della politica, gridare a squarciagola (per convincersi, prima ancora che per convincere) che il tempo della propria giovinezza è unico, che è scolpito nella storia, che non è come quello della giovinezza dei nostri padri e nonni, perché, a differenza di quelli, lascerà nella storia un segno indelebile che lo separerà per sempre dal passato.
È la rivoluzione! Il sogno ricorrente di rendere il mondo giovane una volta e per sempre, sfuggendo in questa maniera, come individui, all’inesorabile trascorrere del tempo (quel tempo che rende del tutto relative le giovinezze individuali). La rivoluzione come stratagemma per spezzare il circolo dell’eterno ritorno: giovinezza, studio, lavoro, matrimonio, figli, maturità, vecchiaia, morte. I giovani contestatori che marciavano in corteo inalberando cartelli lottavano, in fondo, per la vita eterna, per sfuggire alla tragica noia delle ripetizioni (la noia c’entra moltissimo con il Sessantotto)(3), per salvarsi.
Ma torniamo ai nostri intellettuali e filosofi, che giovani non erano più (un fatto che accresceva in loro il terrore per l’eterno ritorno) e che speravano di trovare il vangelo della nuova rivoluzione nel Capitale di Marx o nel Libretto rosso di Mao Zedong. Quando essi scorsero «la figura insolita, ornata di barba e di catene» di Solženicyn sugli schermi della televisione, capirono (parlo degli intellettuali francesi: in Italia, la mia nazione, le cose andarono alquanto diversamente) di non poter più appellarsi alle utopie russa o cinese. Fu in questo momento, come spiega lo scrittore boemo, che essi intravvidero nella «lotta per i diritti umani» la madre di tutte le lotte, il meccanismo concettuale capace di farsi beffe della contraddizione hegelo-marxiana, poiché riusciva a suscitare rivendicazioni in qualsiasi punto del reale senza dover attendere la formazione del conflitto.
Voglio spiegare meglio questo punto. L’intellettuale marxista è costretto a cercare continuamente nella realtà sociale degli interstizî dove infilare il piede di porco della contraddizione (per fare questo, come tutti gli gnostici, egli si avvale di coppie di opposti come: professori-studenti, genitori-figli, padroni-operai, maschio-femmina, povero-ricco ecc.), affaticandosi nel duro compito di mostrare ai protagonisti di queste coppie di essere davvero opposti ed irriducibili tra loro. La carica di dinamite che egli seppellisce sotto queste coppie per farle esplodere si chiama, da sempre, “uguaglianza”. Ora, immaginiamo che quell’intellettuale non debba più preoccuparsi di individuare sempre nuove coppie (le quali, inevitabilmente, si producono anche dopo le esplosioni: si pensi alla coppia ‘membro del partito-semplice cittadino’ generatasi, come nella Fattoria degli animali di Orwell, in tutti i paesi a regime comunista); immaginiamo che egli possa semplicemente fermarsi in un punto qualsiasi della realtà sociale piazzando la sua carica, non perché esista una coppia, ma solo perché in quel punto un individuo ha voglia di qualcosa, ha un «desiderio». In questa situazione, come dice Kundera, «il mondo è diventato un diritto dell’uomo e tutto è diventato un diritto»; è sufficiente, allora, sistemare la carica esplosiva dell’uguaglianza senza preoccuparsi di trovare un termine di riferimento a cui occorra essere uguali. Si deve essere uguali a se stessi, essere se stessi, e basta! Il “diritto ad essere se stessi” diventa il nuovo piede di porco, e lo si può usare ovunque, senza neppure l’ingombro di ideologie deperibili.
La concezione dei diritti umani che si fa strada dopo il Sessantotto segna il passaggio dalla modernità alla post-modernità (o tardo-modernità), alla possibilità di accettare – anzi, invocare – la “debolezza” che affligge il pensiero quando deve trovare un fondamento durevole per i sistemi e le ideologie (per le “visioni del mondo”)(4), nel nome di un’uguaglianza che non ha più bisogno di modelli o di teorie, poiché – neoplatonicamente – si consuma tutta nell’enade individuale.

Naturalmente il cammino che ha condotto i diritti umani a «svuotarsi di qualsiasi contenuto concreto» è stato lungo, ed iniziato ben prima del Sessantotto. A mio modo di vedere, esso è cominciato prima ancora del Quarantotto e sinanco dell’Ottantanove, poiché, come molti studiosi ritengono, le più antiche formulazioni di un concetto riconoscibile di “diritti umani” hanno origine nell’età medievale. È in quella loro origine che risiede un difetto fondamentale, il quale ha portato, oggi, allo svuotamento di cui si è fatto cenno. Più avanti mi soffermerò sul modello che ha sotterraneamente ispirato i primi teorici dei diritti umani (e che chiamerò “metafora di Zenone”), mentre in questo paragrafo traccerò uno schema molto sommario della parabola dei diritti umani nella storia occidentale (5).
Non concordo con l’opinione di coloro che ascrivono una sorgiva coscienza di questi diritti ai destinatari della Magna charta (1215). Le concessioni del re Giovanni si consumano tutte in un mondo ancora dominato dalla feudalità; anzi, poiché esse sono invocate proprio dai feudatari, disturbati per il potere crescente della monarchia, noi ricaviamo la conferma che in quel mondo non si è ancora affermato il principio dell’individualismo, autentico cardine di ogni teoria (moderna) dei diritti umani. La società anglo-normanna del XIII secolo si concepisce ancora per corpora, non per soggetti individuali, e i diritti sono rivendicati da questi corpora a titolo collettivo (6).
È vero, tuttavia, che fra XII e XIV secolo si producono degli avvenimenti che preludono, con molto anticipo, al formarsi di un concetto di “libertà” che spingerà verso la rivendicazione di diritti in capo al soggetto individuale. Si tratta di una libertà intesa come assenza di vincoli all’autonomia dell’individuo, un concetto fisico di libertà, che si alimenterà delle teorie di Galileo, di Newton e di Hobbes (7), ma che nel Due-Trecento è presagito nei conflitti socio-religiosi a sfondo ereticale. La frammentazione progressiva della societas christianorum europea mostra, in effetti, due caratteristiche che trovo pienamente congruenti con la sedimentazione di concetti che fungeranno in seguito da solido fondamento alla teoria dei diritti. La prima riguarda (uso per la seconda volta questo termine) l’afflato gnostico di molti movimenti ereticali, in diversa misura convinti della separazione radicale fra Dio e mondo. O, con altre parole, tra regno della perfetta identità di sé a sé (Dio) e condizione umana, segnata dalla disuguaglianza, dal conflitto e dal peccato. Richiamerò queste osservazioni quando parlerò della “metafora di Zenone”. La seconda caratteristica riguarda la lotta contro l’autorità (anzi: contro l’auctoritas), cioè contro quei corpora sociali, come la Chiesa cattolica o la nobiltà feudale, che pretendevano attribuirsi un’unità (identità di sé a sé) avente dignità maggiore di quella dei suoi singoli componenti. Molti di questi movimenti, come ad esempio gli Albigesi, i Dolciniani o più tardi gli Anabattisti (che ne costituirono le espressioni più radicali e paradigmatiche), realizzarono delle vere e proprie sommosse rivoluzionarie, che gli stessi marxisti hanno sempre considerato, mutatis mutandis, antesignane della rivoluzione proletaria. In molti casi – quelli più estremi – queste sommosse mostrarono un carattere di assoluta opposizione al mondo, inteso come materia e carnalità, nutrendosi di utopie spiritualistiche: gli insorti criticavano i nobili o la Chiesa proprio per il loro attaccamento a realtà materiali, quali il potere o la ricchezza. Come vedremo, questa radicata avversione per la condizione carnale dell’esistenza, ritenuta la responsabile principale della formazione dei poteri che ledono le libertà individuali, si sostiene su una metafisica dualista. E il dualismo ha un ruolo fondamentale nella genesi delle teorie dei diritti e nell’evoluzione che li porterà a «svuotarsi di qualsiasi contenuto concreto».
Ma è soprattutto la grande stagione della scuola moderna del diritto naturale ad elaborare un corpo teorico capace di supportare le aspirazioni ai diritti individuali, laicizzando e secolarizzando le dottrine della scolastica (vi sono, ad esempio, precisi riferimenti ai diritti naturali-razionali di libertà in Ockham (8) e Francisco de Vitoria (9)). Autori come Grozio o Locke opereranno la saldatura del razionalismo e volontarismo medievali con la concezione politica contrattualistica, che impone l’individualismo alle antiche filosofie del diritto naturale. I diritti umani, che ancora non hanno questo nome, si legano indissolubilmente, in questa fase, alla volontà che il sovrano esprime mediante le norme giuridiche positive. Essi diventano una faccenda che riguarda esclusivamente le leggi e la politica (non più la religione, poiché l’opzione religiosa diventa essa stessa un contenuto, e non già il presupposto, dei diritti umani), l’esito di una volontà negoziale sancita dal contratto sociale. Un oggetto di contrattazione, insomma, fra lo stato e i cittadini.
Nel Settecento la coscienza dei diritti umani acquista la forma di un’astrazione filosofica, si generalizza, s’incorpora in Dichiarazioni (quella francese del 1789) e Costituzioni (quella nordamericana del 1787), diviene carta e inchiostro. È la fase della positivizzazione dei diritti umani, che si farà strada con molti sussulti e disordini sociali nel corso di tutto il secolo successivo, separandosi definitivamente dalla sua matrice giusnaturalistica (che sopravviverà solo in modo residuale).
Nella fase ottocentesca i diritti umani si trasformano, sotto le penne dei giuristi (soprattutto di quelli tedeschi), in “diritto soggettivo”: un’autolimitazione del potere dello stato, il quale cede parte del suo terreno all’individuo. L’originaria dimensione privatistica dei diritti trapassa, in questo modo, al macroindividuo – il Leviathan – personificato dallo stato stesso, sottomettendosi ad una sorta di patto leonino che finirà con il trasferire i diritti in un’orbita pubblicistica e, infine, costituzionalistica. È di questo periodo la socializzazione dei diritti umani, che, come ha scritto Norberto Bobbio, comporterà anche la loro de-universalizzazione, in misura direttamente proporzionale alla loro effettiva concretizzazione (10). I diritti dell’uomo (anzi, del cittadino) si materializzano, infatti, nella legislazione sociale e nelle guarentigie a protezione delle classi più deboli, originate dalla crescente industrializzazione dei processi di produzione dei beni; ma, allo stesso tempo, cessano di essere intesi come un’ascrizione dovuta alla condizione umana in generale (i diritti dell’uomo), cioè universalmente nel tempo e nello spazio – come li avevano intesi i philosophes dell’illuminismo –, precisandosi in tutele particolari regolate dal potere pubblico mediante le leggi.
La parabola dei diritti umani è efficacemente rappresentata sul piano linguistico dalla trasformazione dell’aggettivo qualificativo: da diritti “dell’uomo e del cittadino” essi diventano diritti civili; poi, nel corso del XIX secolo, diritti sociali e politici; si opacizzano nel corso del Novecento, afflitto dai totalitarismi, per ricomparire dopo il Sessantotto come «una sorta di energia che trasforma qualsiasi desiderio dell’uomo in diritto» (Kundera).

Cosa intendiamo con “opacizzazione” dei diritti umani nel corso del Novecento?
Si tratta, per utilizzare un’analogia, di uno stadio di sostanziale indistinzione in cui diventa arduo intendersi in modo univoco sul significato del termine “diritti umani”: potremmo paragonarlo a un’eclissi solare. Chiunque è stato testimone di un fenomeno di questo tipo ricorderà certamente quello stato di sospensione, di attesa, attraverso il quale percepiamo emotivamente la natura circostante, sorpresa dall’improvviso oscuramento dell’eclissi. Le cose intorno a noi non sprofondano propriamente nel buio, ma ingrigiscono in modo uniforme; gli stessi rumori si attenuano: uccelli o cani eventualmente presenti taceranno improvvisamente, e per alcuni interminabili minuti nulla si proporrà più singolarmente alla nostra percezione ed attenzione, nulla interromperà la silente attesa del transito della luna sul disco solare. Ecco: potremmo dire che il passaggio della luna dei diritti sociali e politici sul sole dei diritti dell’uomo in quanto uomo è responsabile del loro sostanziale obnubilamento nel corso del XX secolo.
La luce dei diritti umani non attrae più, dopo i conflitti sociali dell’Ottocento, gli intellettuali europei. Essi pagano in tal modo, con questa loro stanchezza verso l’idea dei diritti umani, un secolo di faticose lotte e divisioni fra i sostenitori dei diritti civili (i liberali) e quelli dei diritti sociali (i socialisti, a loro volta contrapposti fra rivoluzionari e riformisti), cioè fra i sostenitori di teorie dello stato fra loro diverse e confliggenti: stato di diritto, stato sociale, stato comunista. L’Ottocento è l’epoca dell’epopea dello stato, ma è anche un lungo periodo di contrapposizioni che estenueranno la politica europea, consegnandola alle tragiche esperienze totalitarie. Potremmo dire che i diritti umani, alle soglie del Novecento, appaiono ormai frammentati e totalmente riassorbiti dal diritto positivo, di cui seguono fedelmente le sorti. Negata ogni normatività al “metagiuridico” (per opera del costituzionalista Hans Kelsen), di essi sparirà traccia nei gulag e nei lager.

Processato a Norimberga, il giuspositivismo legalista verrà posto crudamente di fronte alla necessità di liberarsi del suo carattere statualistico. In generale, si potrebbe dire che ovunque i diritti siano stati svincolati dalla loro natura extra-legale e metafisica (tale per cui essi costituiscono dei “valori” predeterminati alla positivizzazione) e ridotti a guarentigie sancite da norme giuridiche, cioè a comandi formalizzati, essi hanno contribuito a rivelare la struttura aporetica dello stato moderno. Nato come mera forza (pubblica) per arginare la forza (privata), lo stato appare, in quanto tale, concettualmente antitetico ai diritti dell’uomo in quanto uomo. Si potrebbe obiettare che la sorte dei diritti umani nelle nazioni processate a Norimberga (o di quelle esse pure totalitarie, ma ad oggi non ancora processate) costituisce una situazione estrema, legata a fattori peculiari e non imputabile al giuspositivismo legalistico stricto sensu: di una patologia, insomma, e non di una fisiologia del sistema-stato. Ma è pur vero che di una questione dei diritti umani si torna a parlare in Europa, nel Novecento, solo dopo la fine della seconda guerra mondiale. Il primo conflitto mondiale, che pure non era stato meno traumatico, non aveva risvegliato nelle coscienze una percezione di diritti individuali negati, anzi, in verità proprio nessuno aveva menzionato diritti che non fossero quelli “nazionali”. Ed è un fatto che la composizione di un conflitto che verteva su diritti “nazionali”, malamente tentata a Versailles, precondizionerà lo scoppio del conflitto successivo. Come dire: la prevalenza dei diritti “nazionali” su quelli umani ha prodotto una concatenazione di avvenimenti i quali sono culminati nei totalitarismi e nella ferocia contro l’umano.
Questo spiegherebbe la de-nazionalizzazione (e dunque, in qualche misura, la de-positivizzazione) dei diritti dell’uomo sancita dalla Dichiarazione universale votata alle Nazioni Unite nel 1948 – due anni dopo Norimberga – la quale ha fornito il modello per tutte le dichiarazioni successive. Con questa risoluzione, la materia dei diritti era avviata a un processo destinato a vincolare le legislazioni nazionali e a porla al riparo del diritto internazionale (11): internazionalizzazione dei diritti umani significa, infatti, che norme giuridiche sovraordinate rispetto alle singole entità statuali dettano precisi limiti al potere legislativo degli stati, secondo un’idea che sarebbe certamente piaciuta al Kant de La pace perpetua(12). In buona sostanza, il positivismo giuridico legalista attenuava il suo accento statualistico, affidando la protezione dei diritti a un soggetto maggiore di lui: alla “comunità internazionale” – qualsiasi cosa essa sia. Possiamo dire che questo affidamento li ha effettivamente sottratti alla frammentazione e all’oscuramento?

Prima di tentare una risposta a questa domanda, sarà opportuno soffermarci ancora per un momento sul rapporto fra diritti umani e positivismo giuridico. Ho, infatti, appena insinuato che l’internazionalizzazione dei diritti ha semplicemente spostato la loro fonte dalla volontà statuale a quella della “comunità internazionale”, la quale si esprime pur sempre con atti di carattere normativo, quali dichiarazioni, risoluzioni, ecc. (talvolta addirittura assistite da forze di “polizia internazionale”). Ebbene, una sorte per molti versi analoga subiscono, a mio avviso, i diritti “inviolabili”, “imprescrittibili”, “fondamentali” ecc. difesi dalle carte costituzionali. La costituzionalizzazione dei diritti umani, che in età contemporanea prende il «posto di Dio, della Natura, della Ragione»(13), rischia, infatti, di riconsegnare la materia dei diritti – come in ogni forma di positivismo giuridico legalista – al contenuto di norme vigenti, sia pure di rango superiore, cioè alla volontà di un legislatore, rinnovando un’ambiguità (quella propria del volontarismo) che gli autori della scolastica avevano pervicacemente scandagliato. Tradotta in termini conformi al nostro problema, essa suonerebbe così: i diritti dell’uomo ‘valgono’ in quanto sanciti dalla Costituzione, o la Costituzione li sancisce proprio perché essi sono ‘validi’ in base a un ordine (metafisico, di “valori”) che antecede la loro positivizzazione costituzionale? Nel primo caso, qualsiasi mutamento degli orientamenti o delle condizioni sociali e politiche che hanno prodotto la Costituzione potrebbe variarne i contenuti normativi, senza con ciò alterarne la validità (visto che essa risponde a un requisito formale: la positività). Nel secondo caso, la stessa esistenza di una Costituzione formale o materiale non sarebbe condizionante nei confronti dell’esistenza di “valori” ispiratori dei diritti umani, per se stessi predeterminati a ogni atto normativo. Ma come ‘conoscere’ normativamente qualcosa che si pone ‘prima’, e dunque anche ‘fuori’, delle norme positive? Per farlo, il positivismo giuridico legalista dovrebbe rinnegare se stesso, aprendosi all’odiato “metagiuridico”. Da qui l’ambiguo oscillare delle teorie costituzionalistiche sui diritti umani, e il loro irrompere in campi della conoscenza (quali la sociologia, la filosofia, l’etica, l’antropologia ecc.) dotati di statuti epistemici e metodologie assai diversi fra loro e non sempre (anzi, quasi mai) coerentemente assimilabili.
I diritti umani dunque, rispolverati all’indomani della seconda guerra mondiale nella forma di diritti internazionalizzati e costituzionalizzati, «trovarono nuovamente posto nel vocabolario dei nostri tempi» il giorno in cui la barba di Solženicyn costrinse gli intellettuali europei – «e persino i progressisti» – a riconoscere l’efferatezza dell’utopia socialcomunista. Le immagini dei carri armati sovietici che invadevano la Repubblica Cecoslovacca nel 1968 (mettiamoci nei panni di Kundera e degli altri intellettuali dell’Europa Centrale e Orientale che pativano quell’invasione nella loro carne) privavano i marciatori parigini di ogni patente d’eroismo, dal momento che essi vivevano in una nazione dove «non esiste la minaccia dei campi di concentramento e si può dire e scrivere ciò che si vuole». Per cosa mai si battevano con i cortei, le proteste e gli scontri? Ecco la grande novità: potevano dire che si battevano per i diritti umani!

Siamo, così, tornati al punto di partenza delle nostre considerazioni: alla riscoperta dei diritti umani dopo il Sessantotto, che dobbiamo ora collegare al tema della frammentazione. Come mai «tutto è diventato un diritto»? Lo è diventato, in primo luogo, perché il modo d’intendere la libertà è stato portato alle sue estreme conseguenze. Se libertà significa non patire vincoli, qualunque vincolo al mio desiderio di determinarmi autonomamente (in senso letterale: nel senso, cioè, che io sono l’unica fonte del nomos che mi riguarda; sono auto-nomo) è un vincolo che le norme giuridiche devono scongiurare, prevedendolo e sanzionandolo. Il mio volere, rimasto unico signore dopo la crisi della statualità (ricordate gli slogan del Sessantotto contro lo stato? in favore della “fantasia”?), ha diritto di potersi esprimersi e diritto di realizzare i suoi obiettivi. Se lo stato ha una funzione, se la Costituzione ha una funzione, se la “comunità internazionale” ha una funzione, essa consiste nel garantire l’esercizio delle libere volizioni. Tutti potendo volere, saremo tutti finalmente eguali. Ma l’uguaglianza, si sa, è criterio sostanziale e non soltanto formale: sicché stato, Costituzione e “comunità internazionale” debbono, anche, predisporre gli strumenti affinché il mio desiderio non rimanga inappagato. Essi debbono tutelare il mio diritto ad essere liberamente me stesso, nel modo in cui decido di esserlo: se voglio essere un laureato devono consentirmi di frequentare l’università e laurearmi; se voglio avere un lavoro, una famiglia o un figlio devono consentirmi di ottenerli (e, naturalmente, di sbarazzarmene qualora cambiassi idea), e così via.
Lo spostamento dei diritti da una concezione contrattualistica che fa perno sullo stato (quella moderna), ad una in cui l’individuo si erge come assoluto perché soltanto così è veramente libero (quella post-moderna), produce inevitabilmente la trasformazione dell’oggetto di diritto da mezzo a fine. Così, ad esempio, secondo una mentalità ancora molto diffusa e di sicura origine sessantottina, il diritto allo studio diventa diritto a ottenere la laurea indipendentemente dalle qualità personali e dall’impegno: proprio quella «trasformazione dei desideri in diritti» di cui parla Milan Kundera nel suo libro.
La concezione pulsionistica dei diritti umani è pienamente congruente con la fase ultima del processo di secolarizzazione della conoscenza. Provo a ripercorrerne le tappe utilizzando lo schema fornito da Francesco Cavalla (14). Prima tappa, il razionalismo: fra tarda scolastica e nascente modernità si affaccia l’idea per la quale la conoscenza consiste nella rappresentazione oggettiva del mondo, cioè nella descrizione che un soggetto (Cartesio direbbe res cogitans) fa di un oggetto (Cartesio direbbe res extensa). La conoscenza risulta dunque essere il frutto di una corrispondenza fra pensiero e mondo. Seconda tappa, l’idealismo: succede che sia venuta meno la fiducia di poter trovare un criterio atto a garantire la corrispondenza, per cui la ragione si volge alla mera descrizione di se stessa e dei propri processi. La conoscenza diventa una collezione di tutte le rappresentazioni del mondo che sono state prodotte nel tempo (lo storicismo). Terza tappa, Nietzsche: perché perdere tempo a collezionare tutte queste rappresentazioni? Andiamo alla fonte, alla volontà del soggetto, lasciandola libera di rappresentare il mondo a suo piacimento! Quarta tappa, la post-modernità: siamo al culmine del soggettivismo, la ragione «rinuncia ad assegnare ai concetti la capacità di riferirsi a una realtà più estesa di quella che forma la situazione di ciascun soggetto» (15).
La situazione, si badi, e non il soggetto. Di questo, del soggetto, non si vuole in alcun modo esibire un principio atto a giustificarne la definizione. Ma se l’uomo è il titolare dei diritti umani, una volta che non sia più consentito attribuire forza di verità («capacità di riferirsi a una realtà più estesa») a qualsivoglia concettualizzazione dell’uomo, a chi si dovranno riferire quei diritti e in che modo potranno esser detti “umani”?(16) Ricordiamolo ancora una volta: nell’era post-moderna non è ammessa alcuna descrizione oggettiva che si pretenda ultimativa, alcun fondamento durevole per il pensiero. Essi non sono ammissibili, semplicemente perché non esistono.
Osserviamo questo passaggio più da vicino: una volta accertato che qualsiasi corrispondenza fra pensiero (linguaggio) e mondo è frutto di una scelta, consaputa o meno, dell’individuo, allora bisogna ammettere che tale corrispondenza, oggettivamente, non esiste. Noi, infatti, non la troviamo mai, perché dovunque la cerchiamo troviamo solo uno specchio che riflette il nostro volto: dunque essa non c’è. Se stessimo alla conclusione del Tractatus di Wittgenstein, a questo punto potremmo soltanto tacere(17). (Verrebbe da dire: non la troviamo, e dobbiamo tacere, solo sinché continuiamo a pensare alla conoscenza come ad un rapporto di corrispondenza fra soggetto e oggetto. Ma se cambiassimo prospettiva?).
Dileguata, grazie a questa sorta di prestidigitazione logica, ogni confidenza nell’esistenza di un fondamento – di un Principio –, non rimane allora che considerare di volta in volta la situazione. Se essa ha un fondamento, questi non sosterrà alcuna «realtà più estesa», e durerà sin quando avrà la forza per farlo (o sin quando gli sarà dato questo potere). La frammentazione dei diritti umani è dunque, piuttosto che un fenomeno di ordine sociologico o psico-sociologico, l’ovvia conseguenza di uno scetticismo diffuso. Il frutto di una precisa rinuncia della ragione a cercare i fondamenti e a confrontarsi con l’“”, dopo la delusione oggettivistica.
Invero, ciò a cui la ragione rinuncia in questo modo è la sua stessa identità, così come è stata pensata a partire dai Greci.

Siamo giunti alle battute conclusive di questa riflessione sul tema dei diritti umani dopo il Sessantotto. È il momento in cui si devono tirare le fila dei ragionamenti, e mi accorgo di dover ancora dar conto di qualche parola che ho abbandonato all’inizio senza spiegazioni. Mi riferisco, in particolare, a termini come “gnosticismo”, “neoplatonismo”, “metafora di Zenone”. Posso ora confessare di aver seminato quei termini sul mio cammino come le briciole di Pollicino, perché alla fine potessero aiutarmi a ritrovare la strada di casa. E la mia casa è quella della metafisica.
Nessuna lettura delle diverse dichiarazioni sui diritti dell’uomo di cui disponiamo può omettere di notare che l’enunciazione dei diritti (quali “libertà”, “proprietà” o altro) fa capo invariabilmente all’individuo. Egli è davvero il quid novum che consente di distinguere le rivendicazioni dei corpora nella Magna charta dalla Déclaration de droits de l’homme e du citoyen. Si tratta di un’invenzione della modernità, la quale ha preso a prestito un aggettivo quale “individuus” (i.e. indivisibile, non scindibile) per conferirgli la dignità di un sostantivo. In quanto indivisibile, il soggetto umano assume sembianze divine: è – sulla scorta delle dottrine neoplatoniche filtrate in occidente nel periodo medievale – unico, perfetto, privo di qualsiasi scissura nella quale infilare il piede di porco della contraddizione. Simile alla sfera di Parmenide raccontataci attraverso l’interpretatio di Zenone e degli Eleati(18), l’individuo non patisce discontinuità: nulla può frangerlo, dunque nulla lo minaccia. È autonomo in senso proprio, giacché non dipende da nulla che stia fuori di sé (se fosse ‘causato’ da qualcosa fuori di sé, ne conserverebbe traccia, così perdendo la sua uniforme continuità): tutte caratteristiche che ricordano l’“Uno” dei neoplatonici.
Bastando a se stesso, l’individuo è condannato alla solitudine dell’unicità: come potrebbe riconoscere gli altri? (Ecco un problema che ha lungamente assillato Rousseau)(19). La molteplicità, la differenza, diventano così dei disvalori, qualcosa da cui rifuggire; il mondo, che si presenta sempre nella molteplicità e varietà delle forme, è una giungla disseminata di pericoli (proprio come lo “stato di natura” di Hobbes), uno spazio vuoto in cui gli individui si scontrano incessantemente, simili alle tumultuose molecole di ossigeno nell’esperimento di Bénard citato da Prigogine(20). Questo mondo, paragonato all’assoluta unicità dell’individuo atomistico, rappresenta il ‘male’, il ‘peccato’, qualcosa da abbandonare all’artificio (e lo stato è, appunto, homo artificialis). Allo stesso modo i neoplatonici diffidavano del mondo considerandolo artificiale (nel senso di demiurgico), mentre gli gnostici lo condannavano senza appello in quanto materia opposta alla purezza dello spirito.
Potrà sembrare curioso che la frammentazione dei diritti prodottasi nella seconda metà del Novecento riproponga motivi che si sarebbero creduti estinti con la modernità (soprattutto con la modernità scientifica), e che concetti “rivoluzionari” come libertà ed eguaglianza possano essere ricondotti alla metafora della sfera parmenidea, alle discussioni dei neoplatonici sul rapporto fra Uno e mondo, o alle fiorite cosmologie gnostiche. Di certo tutte queste dottrine hanno avuto un peso nella formazione del pensiero moderno, che non sta a me argomentare in questa sede(21), ma che trova ampio riscontro nella letteratura storica e filosofica.
Per ciò che mi riguarda, volevo soltanto ricordare a chi ormai l’avesse dimenticata (per la caduta del muro di Berlino, la “fine della storia” o qualche altro motivo) la barba di Solženicyn. Poiché se è vero – come ha scritto Hölderlin e come ha ribadito Heidegger – che «là dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva »(22), allora sarà possibile trarre ispirazione dalla sua «figura insolita» non già per rimpiangere la nobilità del perseguitato politico, inventandosi il ruolo di «difensori dei diritti umani» (come avvenne dopo il Sessantotto), ma per volgersi dai dritti e dalla loro rivendicazione, al diritto ed al suo fondamento.



Dedico questo articolo alla memoria di Giorgio Just, fratello d’arme e di pensiero, scomparso improvvisamente a Trieste il 5 luglio 2008.

(1) Articolo pubblicato su «Persona y Derecho», 58, 2008, pp. 455-472.
(2) M. Kundera, L’immortalità, tr. it. Adelphi, Milano, 2007, pp. 151s. Dove compaiano un’espressione o una parola virgolettate prive di attribuzione, esse vanno riferite a questa fonte.
(3) Penso, naturalmente, all’esordio de L’essere e il nulla di J.P. Sartre, dove l’A. svolge l’analisi della proposizione «Io mi annoio» – archetipo letterario-filosofico di molte altre, meno nobilmente erudite, noie.
(4)I filosofi del diritto italiani che fra i primi e più acutamente hanno trattato nelle loro opere il rapporto fra post-modernità e diritto sono, a mio avviso, Francesco D’Agostino (dal suo Diritto e secolarizzazione, Giuffrè, Milano, 1982, sino ai più recenti Filosofia del diritto, Giappichelli, Torino, 2000 e Lezioni di teoria del diritto, Giappichelli, Torino, 2006) e Bruno Montanari (del quale si v. a titolo esemplare le curatele: La possibilità impazzita. Esodo dalla modernità, Giappichelli, Torino, 2005; L’Europa e la cultura del postmoderno, Ceradi-Luiss, Roma, 2001; Spicchi di Novecento, Giappichelli, Torino, 1998). Entrambi, com’è noto, formatisi alla scuola prestigiosa di Sergio Cotta.
(5) Indicare una bibliografia (o una metabibliografia) sulla storia dei diritti umani non rientra in alcun modo fra le finalità di questo breve saggio. Al lettore italiano che desiderasse accostarsi per la prima volta all’argomento consiglierei, per la sua concisione, il saggio di A. Facchi, Breve storia dei diritti umani, Il Mulino, Bologna, 2007.
(6) Si veda su ciò, magistralmente, P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Laterza, Bari-Roma, 1995.
(7) Ho trattato quest’argomento in M. Manzin, Libertà e liberazione: due paradigmi a confronto in «Diritto&Questioni Pubbliche», 6, 2006, pp.101-111 (il testo è disponibile online alla pagina ).
(8) La tesi è di Michel Villey, Le droit et les droits de l’homme, PUF, Paris, 1983, pp. 123s.
(9) Cfr. Francisco de Vitoria, Relectio de Indis (ca. 1532) = A. Lamacchia (a c. di), La questione degli Indios, Levante, Bari, 1996.
(10) N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1997, p. 23.
(11) Si tratta, naturalmente, di un processo ancora in atto, rafforzato dall’entrata in vigore (1976) dei Patti internazionali sui diritti umani siglati nel 1966.
(12) I. Kant, Zum ewigen Frieden (1795).
(13) Facchi, op. cit., p.134
(14)F. Cavalla, L’obiettività dell’informazione nella cultura politica contemporanea, in Id. (a cura di), Temi e problemi di filosofia del diritto, Cedam, Padova, 1997, pp. 8-13. Spero mi sarà perdonata la brutalità della sintesi.
(15) Cavalla, op. cit., p. 11
(16) S’invocano infatti, oggi, diritti per gli animali, per la terra ecc. (cfr. in prop. A. Mannucci e M. Tallacchini, a c. di, Per un codice degli animali. Commentario critico della legislazione vigente, Giuffrè, Milano, 2001; M. Tallacchini, a c. di, Etiche della terra. Antologia di scritti ambientali, Vita e Pensiero, Milano, 1998; Ead., Diritto per la natura. Ecologia e filosofia del diritto, Giappichelli, Torino, 1996).
(17) «Wovon man nicht sprechen kann, darüber muss man schweigen» (è la nota proposizione 7 del Tractatus logico-philosophicus di L. Wittgenstein).
(18) Come oggi si ammette (penso, in particolare, agli studi di Luigi Ruggiu), gli Eleati forzarono le parole di Parmenide, attribuendo al suo Poema sulla natura un carattere monistico che esso non necessariamente aveva. Per questo motivo nomino la metafora parmenidea della sfera (intesa come perfetta identità dell’essere a se stesso) attribuendola a Zenone di Elea.
(19) Il tema dell’unicité attraversa numerose opere del Ginevrino, mantenendo tuttavia la sua formulazione più radicale nel Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes (1755).
(20) L’esperimento di Henri Bénard sulla convezione termica è ricordato in G. Nicolis & I. Prigogine, Exploring complexity. An introduction, Freeman, N.Y., 1989.
(21) Ho dedicato un’estesa riflessione al sostrato neoplatonico del concetto moderno di sistema giuridico nel mio saggio più recente: Ordo iuris. La nascita del pensiero sistematico, FrancoAngeli, Milano, 2008.
(22) Il celebre distico di Patmos deve alla citazione di M. Heidegger (Die Frage nach der Technik, 1954) un’imprevedibile estensione metafisica. Trovo che ad essa siano pienamente coerenti le conclusioni suggerite in questo articolo.
 
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