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L'omicidio Calabresi, a seguito della strage di piazza Fontana.
Di Libertà e Persona - 11/12/2009 - Storia - 3927 visite - 0 commenti

In occasione dell'anniversario della strage di Piazza Fontana riportiamo alcuni nostri articoli sul commissario Calabresi, e una analisi di Dino Messina, del Corriere, sulle falsificazioni nei manuali scolastici:

1)Luigi Calabresi era un personaggio davvero particolare, che sulla foto ricordo della sua classe, a conclusione dell’anno scolastico 1957-58, aveva scritto di suo pugno alcuni versi di Trilussa: “Sarà, ma trovo strano/ che me possa guidà chi nun ce vede./ La cieca allora me pijò la mano/ e sussurrò: cammina. Era la fede”. Questo semplice aneddoto, insieme a tanti altri, dimostra che la scelta di fare il poliziotto, fu in lui dettata non solo dalla volontà di servire lo Stato, dalla passione per una professione difficile, ma anche dal desiderio di testimoniare la propria fede negli ambienti particolari e ostili della rivoluzione culturale e giovanile di allora.

Marco Pannella, rievocando la figura di Luigi, scrisse infatti che sembrava contento che le sue mansioni lo portassero a vivere accanto a radicali, anarchici, libertari, e che era sempre nei loro confronti amichevole e gentile: “ma non sapevo, concludeva Pannella, e a tutti lo aveva celato, stranamente, della sua scuola clericale, dei suoi rapporti con padre Virginio Rotondi, del suo essere antidivorzista”. Come commissario di polizia calabresi si sforzava di “evitare che ogni manifestazione andasse a finire secondo il copione consueto: provocazioni, violenze, cariche della polizia, feriti, forse morti”, e per questo “cercava di dialogare con i capi dei gruppi di manifestanti, di farsi accettare” come interlocutore attento e credibile (Giordano Brunettin, Luigi calabresi, Sacra Fraternitas Aurigarum, Roma).

Come tutti sappiamo, per ironia della sorte, o forse perché la sua testimonianza, consapevole, divenisse martirio, calabresi (nella foto) divenne per certuni, accecati dall’ideologia comunista, un malefico torturatore, un omicida, un uomo che approfittava barbaramente del suo potere. Venne insultato, deriso, vide il suo nome vilipeso sui giornali e sui muri, ma, come ricordò il suo amico Enzo Tortora, tenne sempre un comportamento degno, sopportando con grande forza d’animo. Ma chi era l’uomo Luigi? Nel 1966, in seguito alla sua nomina a funzionario di pubblica sicurezza, in occasione di una tavola rotonda organizzata da Epoca tra giovani che contestavano la rivoluzione nascente, ebbe ad esprimere la sua visione del mondo. Leggendola si capisce bene come Luigi vedesse in molti giovani suoi contemporanei, ribelli e violenti, non dei nemici, da perseguire, e da punire, ma anzitutto delle persone fragili, vuote, senza veri valori su cui fondare la propria vita e la propria personalità. “Nella mia professione, ebbe a dire, chissà quanti (giovani) ne avvicinerò, e saranno probabilmente i portatori delle crisi più laceranti e gravi…Vivono alla giornata, inseguono il divertimento, inteso però nel senso latino di devertere, uscire cioè dalla realtà. La realtà li terrorizza, perché li mette di fronte a delle responsabilità. Quindi cercano di stordirsi. Ho pratica di questi miei fratelli. Vedo la loro infelicità soprattutto in quel passaggio obbligato che è il rapporto tra i sessi”.

Spesso, aggiungeva, accade che tanti miei coetanei “hanno avuto l’amore fisico, ma la fusione delle anime non sanno neppure cosa sia. E’ questo che porta ai drammi che scoppiano poi nei matrimoni malriusciti; il senso della vita cristianamente vissuta si va perdendo, e nella società si aprono dei guasti sempre maggiori”. Per calabresi, la vita cristiana, con il suo senso del sacrificio, della croce, del peccato, della lotta tra bene e male, forma caratteri forti, soldi, capaci di affrontare l’amore e la vita, gioendo dei suoi doni. E tutto ciò, credeva, serve soprattutto nel momento in cui si affronta la propria crescita affettiva, in quella fase del fidanzamento in cui la rinuncia, l’autocontrollo, la padronanza dei propri istinto, permettono di edificare sulla roccia, perché “si impara ad essere buoni coniugi quando ancora non si è sposati”, in quanto il matrimonio “presuppone uno sforzo, un allenamento, una preparazione che non si improvvisa”.

Con questo argomentare calabresi dichiarava la propria avversione all’istituto del divorzio, che era per lui non la soluzione ma semmai l’incentivo a nuovi e sempre più numerosi fallimenti familiari. E aggiungeva: “ Ma anche da noi, quanti ragazzi hanno modo di ‘sentire’ davvero la famiglia? Questo sentimento si dissolve. E la colpa è qualche volta dei genitori che vogliono sembrare giovani e moderni”, vogliono fare gli amici e rinunciano alla fatica dell’ educazione, e del compito insito nell’autorità. Invece i “genitori dovrebbero prendere coscienza della tremenda responsabilità che si sono assunti procreando, cioè collaborando con Dio nella creazione. Non è vero che si educa e ci si educa nello stesso momento, come sostiene una certa pedagogia che io rifiuto. L’uccello sa già volare, quando insegna ai suoi piccoli come si dispiegano le ali. Così vorrò essere io coi miei figli, se la fortuna mi aiuterà”.

Ecco, personalmente auguro a Mario Calabresi, nel suo nuovo incarico, di essere degno di suo padre, del suo amore per la Verità e per il Bene, della sua carità e del senso di responsabilità con cui interpretava il suo lavoro, con la sua stessa purezza di cuore. Possono essere virtù fuori moda, difficili, ma certo rendono gustosa e vera la vita di ogni giorno. Il Foglio, 30 aprile 2009 ps l'omicidio di calabresi aprì le porte agli anni di piombo, e fu determinato soprattutto da una feroce campagna di stampa contro di lui, portata avanti da Lotta continua, di Adriano Sofri ,e da l'Espresso, su cui comparve un famoso appello contro calabresi, firmato da Scalfari, Dario Fo, Margherita Hack e tanti altri intellettuali di sinistra ancora oggi molto ascoltati e ben introdotti in tv, nei media, in politica...(F.A.)

2)Ricorre in questi giorni l’anniversario della morte del commissario Luigi calabresi, proditoriamente “giustiziato” da un commando composto da tre aderenti di Lotta Continua la mattina del 17 maggio 1972. Gli hanno sparato sotto casa mentre stava per salire in macchina e in quel preciso istante, nel grembo di Gemma Capra, la ventitreenne moglie di calabresi sussultava una nuova vita, quella del piccolo Luigi, quel terzo figlio che non avrebbe mai conosciuto suo padre. Luigi calabresi era un solerte servitore dello stato il cui nome per mesi era stato fatto oggetto di una campagna di stampa infamante da parte del quotidiano Lotta Continua; calabresi era stato giudicato responsabile della morte di un anarchico, Giuseppe Pinelli, fermato e interrogato dalla polizia in relazione alla strage di “piazza Fontana” del 12 dicembre 1969 - 16 morti-. Pinelli, dopo un fermo tre giorni, era precipitato da una finestra del commissariato perdendo la vita.

Forse, in quel momento Luigi calabresi cominciava a morire; tutto questo fu infatti sufficiente per orchestrare un violento atto di accusa nei confronti di un uomo che verrà definito “il commissario finestra”. Quest’ultimo conosceva Pinelli, gli dava del tu e il 12 dicembre recatosi alla sede anarchica di via Scaldasole gli disse: “ Vieni in questura è una formalità”. calabresi soffrì per la morte dell’anarchico, ma questo poco interessava ad una sinistra che aveva in cuore di trovare un colpevole dentro le istituzioni. Ma calabresi non centrava nulla; quando Pinelli precipitò non era in quella stanza, il fermato cadde per una malaugurata disgrazia. Poi, cominciò la demolizione dell’uomo, del commissario, del padre, del marito. La campagna diffamatoria contro il commissario vide protagonista Lotta Continua ma fu promossa dagli avvocati della signora Pinelli, dal quotidiano del P.S.I. Avanti!, il quotidiano del P.C.I. l’Unità e il suo settimanale Vie Nuove. Si disse che Pinelli fosse stato interrogato per 77 ore consecutive, che avesse ricevuto un colpo di karatè sul collo, che calabresi era un collaboratore della Cia, un torturatore. Follie smentite una per una dall’inchiesta del giudice D’Ambrosio che scagionò totalmente il commissario; ma questi purtroppo era già morto. Ecco, per ricreare il clima di quei giorni un breve assaggio di cosa scrissero ripetutamente -e impuniti- i redattori di Lotta Continua: “ Siamo stati troppo teneri con il commissario di P.S. Luigi calabresi. Egli si permette di continuare a vivere tranquillamente, di continuare a fare il suo mestiere di poliziotto, di continuare a perseguitare i compagni. Facendo questo, però, si è dovuto scoprire, il suo volto è diventato abituale e conosciuto per i militanti che hanno imparato ad odiarlo; la sua funzione di sicario è stata denunciata alle masse che hanno cominciato a conoscere i propri nemici di persona, con nome, cognome e indirizzo.”(…) “calabresi ha paura ed esistono validi motivi perché ne abbia sempre di più”(…). “Sappiamo che l’eliminazione di un poliziotto non libererà gli sfruttati; ma questo è sicuramente, un momento e una tappa fondamentale dell’assalto del proletariato contro lo Stato assassino.” calabresi querelò il giornale che ricevette sostegno e solidarietà da una variegata schiera di intellettuali che oggi ricoprono ruoli chiave sui quotidiani, nelle case editrici, in televisione.

Quarantaquattro redazioni di riviste politiche e culturali- tra cui alcune cattoliche- espressero solidarietà al quotidiano dell’estrema sinistra. Dario Fo scrisse una piece teatrale dal titolo Morte accidentale di un anarchico in cui calabresi era il dottor cavalcioni, che faceva mettere gli interrogati a cavalcioni di una finestra. Così l’incolpevole commissario fu condannato a morte e ai suoi funerali e sui giornali comparvero soltanto quattro “necrologi di privati”. Per il resto, a parte i ricordi dovuti dalle istituzioni, nulla: stampa e cultura ebbero paura; per viltà e “colpevole connivenza” mantennero un basso profilo. In fondo quel commissario manesco se l’era cercata. L’epoca, il clima sociale, la speranza nella mente di molti d’ essere prossimi ad una sorta di rivoluzione contro lo stato borghese e i suoi sgherri, impedirono di vedere. Quella di calabresi, lasciato solo, fu una morte annunciata, una sorta di angosciante caduta libera in cui lui e la sua famiglia precipitarono dal giorno della morte di Pinelli sino al tragico epilogo. Scritte sui muri, telefonate, minacce, vignette, articoli, simposi, dipinsero l’uomo calabresi come un cancro che andava espunto dal tessuto della vita. I fatti e il tempo hanno chiarito ogni cosa. Il commissario è stato una vittima innocente e la sua famiglia ha pagato per decenni la perdita di un padre e di un marito.

Alla vedova Gemma, va però detto un grande grazie per come ha saputo coltivare il rispetto e lo spirito di giustizia nel cuore dei propri figli. La testimonianza più vibrante di questo sentire la cogliamo nel bel libro del secondogenito, Mario calabresi, “Spingendo la notte più in là,” edito da Mondatori e uscito nelle librerie da poco. Questo testo racconta la storia di una famiglia raccordandola al percorso di altre vittime del terrorismo e dei difficili anni di chi è sopravvissuto alla tragedia. Rivivono in queste pagine le vicende dell’agente Antonio Custra, ammazzato per strada da terroristi rossi, di Emilio Alessandrini, medico anch’esso trucidato. Un comune filo lega le vicende dei parenti delle vittime. calabresi ha cercato in questo equilibrato e meditato lavoro di evidenziarlo. Mi pare di poter dire che come il monotono scandire di un basso, lo sfondo di queste vicende sia il dolore, un dolore sordo, prolungato, estenuante, spesso dimenticato. E ciò risulta sconcertante se lo paragoniamo, per converso, all’ostentata presenza, “all’ubiqua” frequentazione di tv, case editrici, giornali, da parte dei protagonisti in negativo di quella nefasta stagione; uomini e donne, che sopravvissuti al carcere, oggi rivendicano una verginità inaccettabile, quasi il pudore non esistesse. Pinelli e calabresi si conoscevano; un giorno l’anarchico regalò al commissario l’antologia di Spoon River. Pinelli e calabresi accomunati dal destino, tanto che Gemma calabresi ricordava ai propri piccoli come anche i figlioletti di Pinelli fossero senza Papà. Vittime innocenti di una stagione di irrazionalità ed odio calcolato (M.L.).

 

3)"...L’unico dei libri (di testo scolastici, ndr) analizzati a parlare di Calabresi è il terzo volume della "Storia del mondo moderno e contemporaneo" di Adriano Prosperi e Paolo Viola, edito dalla Einaudi Scuola. Questo digesto, tra i più accreditati per il prestigio degli autori, presenta così la morte dell’anarchico Pinelli: «Giuseppe Pinelli (1944-1969), durante un interrogatorio in questura cadde da una finestra e morì. La sinistra ha sempre ritenuto che sia stato spinto dai poliziotti». Notare che gli autori riportano la versione di una generica sinistra, non le conclusioni dell’inchiesta di Gerardo D’Ambrosio, magistrato di sinistra che parlò di probabile «malore attivo».
Gli stessi Prosperi e Viola arrivano quindi al caso del «commissario Luigi Calabresi (1937-1972), secondo l’estrema sinistra responsabile della morte di Pinelli». E poi al processo contro gli ex di Lotta Continua Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani, accusati dell’omicidio Calabresi e condannati, dopo vari gradi di giudizio: «Il processo, fondato su una sola testimonianza — quella del pentito Leonardo Marino — sollevò molte perplessità in una parte consistente dell’opinione pubblica». L’unico dei sette manuali da noi analizzati a ricordare assieme le vittime Giuseppe Pinelli e Luigi Calabresi lo fa seguendo la vulgata di sinistra" (Dino Messina, Corriere, 11 dicembre).

Si noti: Prosperi, accanitissimo censore della Chiesa, diventa molto indulgente e manipolante, quando si tratta di difendere i comunisti e  gli assassini. Mente in vari modi: fornendo una sola versione, come fosse quella vera, la verisione della sinistra; omettendo informazioni essenziali (Marino non era uno qualsiasi, ma un intimo di Sofri e Bompressi; il processo a Sofri è stato fatto e  rifatto più volte dalla magistratura italiana, che lo ha sempre, sempre condannato e ritenuto colpevole; "parte consistente dell'opinione pubblica": quale? quella di sinistra!). E' la solita storia: il Prosperi che scrive su Repubblica difende l'amico  Sofri,  a cui lo legano le stesse idee politiche e la collaborazione allo stesso giornale!

 
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