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Riflessioni di un medico sul testamento biologico.
Di Renzo Puccetti - 18/12/2009 - Eutanasia - 1234 visite - 0 commenti
Il testamento biologico reca in sé il potenziale per una pericolosa apertura all’eutanasia. La spinta verso il riconoscimento di esso nasce proprio nell’ambito della cultura e delle organizzazioni eutanasiche; Luis Kutner ne presenta la prima stesura nel 1967 per conto della Euthanasia Society of America.

La collocazione ed il ruolo che si intende attribuire a tali documenti è essenziale, perché da essi dipende l’eventuale deriva in senso eutanasico e lo stesso stravolgimento del ruolo dei medici, così come è stato concepito per almeno venticinque secoli. Tra i maggiori sostenitori di un impiego allargato delle dichiarazioni anticipate si contano medici di indiscusso valore; è dunque sorprendente la tendenza di questi a glissare sui fatti di cui gli oltre cinquemila studi pubblicati sull’argomento sono espressione difficilmente eludibile.

La prospettiva ricorrente è quella ideale ed immaginifica che intende il testamento biologico come uno strumento idoneo alla tutela dell’autonomia del paziente. Che l’American Academy of Neurology dichiari “Non abbiamo individuato alcuna prova che le direttive anticipate migliorino la qualità di vita in alcuna patologia”, che i pazienti colpiti da infarto in possesso del testamento biologico ricevano cure al di sotto degli standards, che metà dei medici, due terzi del personale infermieristico e la quasi totalità dei paramedici addetti all’emergenza confonda ogni tipo di testamento biologico con un ordine di non rianimare, tutto questo rimane assolutamente estraneo al dibattito in corso, non solo a livello politico, ma persino al livello di confronto bioetica.

È una superficialità sospetta quella con cui si omette di informare il paziente che il proprio testamento biologico può tradursi in un danno per la sua saluta e per la sua stessa vita. È intellettualmente onesto vantare di un intervento sanitario virtù indimostrate? È sensato pretendere l’obbligatorietà per la redazione del testamento biologico, o la obbligatorietà per il medico di attenervisi, a prescindere dal contenuto? Compito precipuo del Servizio Sanitario Pubblico è quello di vigilare per una corretta allocazione delle risorse, evitando il finanziamento di iniziative inappropriate sotto il profilo dei costi e dei benefici. Un esercizio della ragione purificato dal furore ideologico dovrebbe indurre a prendere atto che il testamento biologico intrinsecamente non è in grado di garantire il principio di autonomia del paziente; più correttamente esso può rivestire un ruolo nell’ambito della valutazione anamnestica dei pazienti non più competenti in cui la migliore condotta clinica risulti incerta.

È su questa base che il testamento biologico presunto e coattivo introdotto per via giudiziaria è una mostruosità scientifica, prima ancora che giuridica. Invocare un “diritto mite” per sostenere la falsa prospettiva del testamento biologico come consenso informato particolare è operazione che si situa sulla stessa scia di violenza ideologica di certa giurisprudenza. La realtà è semplice, largamente dimostrata e intelligibile per chiunque abbia ancora qualche interesse a quei particolari così desueti e scomodi che sono i fatti: il testamento biologico fa delle false promesse illudendo le persone di poter gestire il futuro. Se nelle decisioni di fine-vita il principio di autonomia è invocabile solo surrettiziamente, allora è solo il principio di beneficialità che può essere applicato. L’inconcludenza del testamento biologico nel risolvere i dubbi dovrebbe quindi indurre a trasferire il principio giuridico “in dubio pro reo” all’ambito clinico attraverso un chiaro e netto “in dubio pro vita”.
 
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