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Quello che resta
Di Libertą e Persona - 18/12/2009 - Aborto - 1798 visite - 0 commenti

Amori vissuti e ormai finiti che ci legavano a parenti, amici, al coniuge, li hanno conosciuti tutti quanti, e sempre se n’è scritto. Amori troppo presto recisi o svaniti, di innamorati, di amici o anche di parenti, sono il rimpianto, il ricordo o il rimosso di quasi tutti, e sempre se n’è scritto.

Quello che resta dopo un aborto, che è anche il titolo del libro edito da Vitanuova per l’associazione “Il Dono onlus”  è invece un qualcosa in parte ancora sconosciuto o soffocato o rimosso, un grumo di amore e morte invivibile per troppe donne, e forse per gli stessi uomini, familiari o cerchie complici di amici.

Le non mamme parlano fra sé e sé, senza schermi e senza infingimenti nella prima parte del libro, dove non entra il giornalista, non la legge, non il comandamento né la consuetudine, ma l’anima nuda e sola di chi ha abortito. Le cronache delle varie storie sono fra loro tutte annodate dallo stesso filo conduttore: l’amore per il non bambino vive tenacemente sospeso in una specie di limbo, nel limbo degli embrioni e dei feti morti spontaneamente o fatti apposta morire. Dunque il limbo, appena sfrattato dalla dottrina cristiana cattolica ma tuttora leggibile nella prima cantica della Commedia di Dante, c’è eccome. Se si potessero ascoltare, oltre a quelli delle non mamme, anche i monologhi segreti di molti non padri, perfino di non nonni, non zii o di tanti cari amici, che hanno o non hanno consigliato l’aborto, si sentirebbe l’eco del battito di un non bambino che vive non in cielo né in terra da qualche parte, ma nel limbo annidato dentro nell’anima della sua mamma, del suo papà, di tutta la sua cerchia familiare e di amici.

Dall’insieme delle storie raccolte nel libro salta agli occhi lo stesso identico contrasto: da una parte c’è la non mamma che dice le sue ragioni, si tortura e si pente o tenta di dimenticare etc., e così il non papà e via di seguito, tutti quanti hanno ragioni importanti da svendere, dall’altra parte stanno silenziosi e impotenti l’embrione e il feto, indifesi di fronte a tanta aggressività e faciloneria dei grandi. Pena di aborto volontario: è l’unica pena di morte inflitta senza la minima difesa, e senza che nessuno guardi una volta in faccia il condannato a morte. Se c’è la nemesi storica, i processi a parti invertite si dovrebbero prima o poi celebrare, col non bambino divenuto adulto forte e magnifico avvocato di se stesso, e i vari non mamme, non papà con la cerchia di familiari e amici divenuti vecchi, brutti e rimbambiti, come già sognava nella Lettera ad un bambino mai nato Oriana Fallaci.

 Ma il processo a parti invertite si dovrebbe tenere secondo la giustizia del limbo dei non bimbi, e non nei tribunali della cosiddetta gente civile. Jo resta incinta del suo ex una sera, dopo una lunga separazione. La mamma parla subito al bambino, gli dice di non preoccuparsi ma intanto immagina di far tornare indietro il tempo, per cancellare tutto. Gli studi da finire e la dipendenza prolungata dai suoi sono già un problema, ma a metterla k.o. ci pensa la reazione molto violenta dell’ex. La mamma si sente sola. Si abbandona al clima indolore e ovattato di un consultorio, dove tutti sono gentili e sussurrano che l’aborto è un tantino spiacevole ma non immorale. Manca una settimana alla scadenza dei 90 giorni: Jo ha l’idea chiarissima che l’aborto è omicidio, che la sua coscienza non perdonerà e che solo Dio può perdonare. Il tempo passa troppo in fretta, la scadenza, l’ansia, il panico e l’aborto. Poi il vuoto, la coscienza, i sensi di colpa, perché Jo ha barattato la vita che voleva per sé con un delitto. La vita secondo tutti i suoi sogni ora Jo ce l’ha, marito, 4 figli, una casa, un lavoro che le piace, la felicità immeritata.

Soprattutto immeritata sente “la redenzione che viene unicamente dalla Misericordia divina”, che ha incredibilmente concesso a Jo il miracolo del perdono e della cancellazione della colpa. Bijoux diventa immediatamente protettiva nei confronti del suo bambino, ma non si aspetta niente dal suo compagno con cui ha rotto dopo 9 mesi di convivenza, poco prima di fare il test. E infatti durante la visita dal ginecologo dove chiunque dovrebbe in teoria ammorbidirsi al vedere il fagiolino che cresce, il futuro papà parla solo di IVG, così come nei due consultori dove la coppia va per chiedere consigli, ma dove nessuno aiuta la mamma a convertire il suo compagno alla paternità. “Ma è possibile che nessuno riesca a gioire della mia gravidanza?” si chiede Bijoux, e fa il Natale da sola. Il 27 dicembre il futuro papà mette in chiaro al telefono che non darà mai una famiglia a suo figlio, ma verrà qualche volta a prenderselo, com’è nel suo diritto di padre.

Il 29 ritelefona per sapere. L’ultimo giorno utile per l’aborto è il 3 gennaio, ma eventualmente sono tutti pronti a pagare a Bijoux la trasferta a Londra, purché si sbrighi a risolvere il problema. L’ultima notte insieme della mamma con suo figlio è interminabile e indimenticabile. La mattina dell’aborto Bijoux spera che non si senta il battito, invece “c’è eccome se c’è”. Ma lei si lascia andare “come se stessi guardando quello che succede da una finestra”. Al risveglio Bijoux sente il bisogno di avere il compagno lì accanto, proprio lui che ha tanto insistito perché si sbarazzassero del fastidio.

E’ proprio lui che la riaccompagna a casa dai genitori, e che sparisce per il mese e mezzo successivo. Bijoux soffre di senso di vuoto e di soffocamento, non dorme la notte, desidera la morte: “Il dopo IGV è un qualcosa che non ti abbandonerà mai, è una cicatrice indelebile dentro di te. Anche se non lo merito, io oggi so di avere un angelo in cielo. Ringrazio tutti quelli che leggono la mia storia, che ho scritto per portare un messaggio importante proprio a voi, perché purtroppo io non ho la possibilità di rimediare a ciò che ho fatto”.

 Mitata 2004 dà il risultato del test per primo al suo papà, tutto contento perché diventerà nonno. Anche la madre di Mitata sorride felice, e si preoccupa che la figlia stia bene. Mitata telefona al papà del suo bambino con tutte le più dolci espressioni di questo mondo, ma lui risponde seccamente “ne riparliamo, stiamo insieme solo da 6 mesi, stai ancora studiando, non abbiamo una casa”.

 Più implacabili si mostrano i futuri suoceri, contrari perché il loro figliolo non è pronto, gli è morta la precedente fidanzata solo 6 mesi prima, ed è ancora scosso. 21 marzo, primavera: la mamma parla al suo fiorellino che sta per sbocciare e non provoca nausee, di sicuro un maschio che si chiama Tommaso, mentre in casa tutti sono premurosi con lei, pure lo zio Francesco rientrato dal Brasile. Chissà che emozione fare gli esami di maturità col pancione! Negli sms il futuro papà incomincia a parlare di “mio figlio”, buon segno. 23 marzo, il futuro papà accarezza il pancione di mamma: “Cavolo qui dentro c’è mio figlio, anzi nostro figlio”. 24 marzo, i nonni paterni continuano a minacciare che loro due non ce la faranno mai e che si pentiremo amaramente. 27 marzo, il futuro papà piange sempre, e la mamma si sente sperduta e sola. 28-29 marzo, piange anche la mamma e nessuno più in casa le dice cose carine.

La ginecologa chiede se la mamma lo vuole sì o no ‘sto figlio, e allunga un numero di telefono per chiedere notizie sull’aborto in ospedale. 30 marzo, l’ospedale dice che l’aborto è una cosuccia da nulla. Mitata è confusa. 4 aprile, all’assistente sociale Mitata dice di essere stanca di avere tutta la responsabilità sulle sue spalle, di amare tantissimo Tommy, ma di non volere tenerlo. L’assistente indaga “ma tu lo sai cosa stai per fare? No, non lo sai, altrimenti non lo faresti”. 5 aprile, Mitata fa il conto alla rovescia dei 6 giorni che mancano all’intervento, intanto riceve sms assurdi dal fidanzatino. 1 aprile, la mamma non vuole uccidere il suo piccolo Tommy. 11 aprile, tra poco Tommy sarà morto, Mitata vuole scappare dal suo letto d’ospedale, sua madre piange. Il 12 aprile, “il sole ha smesso di splendere”. “Il dolore va buttato fuori, preso in mano e modellato, i figli non nati saranno orgogliosi delle loro mamme che non li dimenticano, una persona da sola non ce la fa a guardare agli errori commessi senza dar loro un significato”: questa la lezione di Mitata 2004, che a pag. 43 del libro dedica una poesia da brivido e piena d’amore al suo angelo. Francesco Pio, un chicco di riso: la sera del test di gravidanza, mamma e papà ballano stretti stretti con le lacrime di gioia che scendono sui visi.

 Il ginecologo vede un paio di ematomi nell’utero, due minacce di aborto spontaneo prima dell’insediamento. All’improvviso, un giorno, la mamma si accorge di una macchiolina di sangue, e via di corsa in ospedale: per fortuna sembra un falso allarme. Il ginecologo vuol fare una translucenza nucale e una villocentesi, perché la mamma a 39 anni è considerata matura. Il verdetto è che la testa di Francesco Pio ha troppo liquido, mancano i reni e altre grosse anomalie non permetteranno neppure di arrivare alla nascita.

Durante l’indagine ginecologo e dottoressa bisbigliano di malformazioni, ma la mamma è ancora sicurissima che Francesco Pio sia perfetto. Arrivano i risultati del DNA: l’infermiera non li dà al telefono e dice di ritelefonare 4 giorni dopo, ma dopo 4 giorni l’infermiera dice che non può dir niente al telefono, che bisogna parlare direttamente col primario, e il primario dice che il bambino è malato. Il giorno dopo mamma e papà disperati e piangenti ricevono nel corridoio dell’ospedale l’ultima mazzata: sindrome di down, mancanza di organi vitali e cardiopatia., per di più “lei signora ha oltrepassato il limite per il raschiamento”.

Il ginecologo consiglia di prendere una decisione immediata, per non partorire di lì a poco un bimbo morto. La mamma è di ghiaccio, il papà è preoccupato per la moglie, per eventuali complicazioni per lei. La dottoressa di turno dice che il raschiamento non si può fare, troppo avanti, bisogna fare un parto, al che la mamma tira fuori una rabbia incredibile e urla che se le cose stanno così se ne va via subito. Una seconda dottoressa dice che farà lei il raschiamento, ma non subito, perché l’anestesista di turno è obiettore.

L’indomani, dopo l’intervento ben riuscito, il dottore dimette la signora perché fisicamente sta bene, ma nessuno all’ospedale pensa di chiederle se si sente bene moralmente. A casa c’è tutto il conforto dei genitori e del marito, “ hai fatto la cosa più giusta”, ma le cose col tempo peggiorano: rabbia, senso di fallimento, sensi di colpa, frustrazione, vuoto, smarrimento senza fine, dolore tagliente come lama arroventata, voglia di rimozione a tutti i costi, e tante tante lacrime. Poi finalmente la scoperta del sito dove si può parlare di aborto con un fine bellissimo: “l’elogio della vita” .

La mamma infelice ora ha ricominciato a parlare al suo Francesco Pio, il miracolo della sua vita, lo ringrazia per averle regalato la più forte ragione di vita al mondo e tutto l’amore, e finalmente è tornata a sorridere. Nella prima parte del testo c’è ancora la storia di “Cucciolo, il più bel regalo che avessi mai sperato di ricevere, e i regali non si rifiutano”, e di “Morire per paura di vivere, una testimonianza per chi in preda al panico, alla confusione e alla solitudine si trova a scegliere la strada più facile da percorrere, la più immediata, ma l’unica che non porta da nessuna parte”, e di “La mia storia, un angelo arrivato nella notte più bella del dicembre 2002 ma che non riesco a far entrare nel mio cuore, non riesco a convincermi, e con 3000 euro l’angelo di 3 mesi e mezzo non c’è più”.

Twister nel Dono rifiutato racconta della “paura infinita di non essere una buona mamma, della paura di ingrassare e del dolore del parto” nonostante il sostegno della suocera con un’esperienza di aborto volontario alle spalle che inutilmente le consiglia di “non pensare ad altre vie se non quella dove c’è tuo figlio, perché l’aborto è una cosa più innaturale per una donna, ed è anche la cosa più dolorosa, che ti segna per sempre”. Lallaby ne Il giorno della memoria parla della sua prima e bellissima bambina e della vergogna di sentirsi rimproverare la distrazione della seconda gravidanza inaspettata nell’ospedale dove fa il medico e dove abortisce.

Holangelo scrive una Lettera al mio bambino mai nato dall’ospedale a due passi da casa, dove è così facile abortire, dopo aver visto “le due lineette, maledizione, che facevano la differenza fra la tua presenza e assenza, tra la vita che scorre normale e un bivio imprevisto, assurdo che ti costringe a dover affrontare una terribile scelta, tenerti o buttarti via”. Nella nostra storia Giuly racconta un parto eugenetico dolorosamente concordato col marito, e Stellacadente l’aborto eugenetico a causa di un citomegalovirus contratto da una nipote ne I 15 giorni più duri della mia vita, al contrario Memole nell’Inizio dal fondo confessa due aborti fatti non sa nemmeno lei perché, nonostante i genitori e il secondo padre che avrebbero benvolentieri cresciuto il bimbo.

Chiude la serie delle testimonianze Kikkaspin che racconta “Come ho perso mio figlio: non capivo più niente ed ero fuori da ogni grazia perché G., dopo il lavaggio del cervello da parte della sua famiglia, mi minacciava di lasciarmi se l’avessi tenuto, e di portarmelo via se l’avessi avuto perché lui guadagnava di più, e al consultorio scenate napoletane …sei deficiente, saresti una pessima madre, non puoi crescere un bambino né ora né mai… così G. prende il foglio e mi trascina sotto shock all’ospedale”. Due testimonianze particolari sono quelle di un non papà in “Mio figlio, che il Signore ci ha regalato dopo qualche mese che mi sono innamorato, ma la mia futura suocera con la faccia triste e l’espressione glaciale mi insegna che i bambini non generati intenzionalmente non sono mandati da Dio” e quella di uno stupro in Quando il tempo passa e…di Sunta81, un’atleta che si allena regolarmente nella corsa ma che una sera cambia sentiero: inutile cercare nel brano maledizioni, odio, rifiuto, proclamazioni di diritto all’aborto.
 Nonostante la violenza subita, Sunta81 prova pena e amore per il “piccolo mio, tu non ti meriti solo dolore”, per il quale sognava una vita serena con mamma e papà. Invece c’è un ex ragazzo che non se la sente di crescere un bambino nato così sfortunato.

 Firmano il primo capitolo della seconda parte del libro gli psicologi e psicoterapeuti Dario Casadei e Pier Luigi Righetti e il ginecologo Tiziano Maggino, che presentano contributi relativi all’aborto volontario, con l’esclusione della casistica legata agli aborti spontanei, a quelli terapeutici ed eugenetici. Vengono elencate le cause che hanno determinato il dilagare del movimento aborzionista: “La vita si è fortemente secolarizzata…e in questa visione l’embrione umano diventa ben piccola cosa. Lo stile di vita è diventato ostinatamente edonista. La scienza ha oggi la capacità di anticipare alla gestante la notizia di eventuali errori. Si è creata una sorta di assuefazione alla violenza, ai crimini di guerra, all’inesorabile catena di criminalità quotidiana”.

Gli autori centrano l’essenza del problema quando insistono sul concetto della piena autonomia del piccolo essere apparso nel ventre materno, il semino di una piccola quercia che non ha chiesto all’inizio nulla alla madre ma che richiede “terreno adatto, calore su misura, soccorsi alimentari adeguati in unico processo di formazione senza salti di qualità”.

Sono stati per primi gli psicoterapeuti statunitensi a indagare i sintomi del malessere da IVG nelle storie cliniche descritte fra il 1989-90, data di inizio anche in Italia degli studi sul dopo aborto. Galimberti nel 1994 inserisce nel suo dizionario di spicologia la voce:”…è frequente che il ricordo di aborti provocati in epoca lontana e superati apparentemente senza difficoltà, ricompaia carico di sensi di colpa in occasioni di episodi depressivi…

Attualmente si indicano tre quadri ben definiti: la psicosi post-aborto, lo stress post-aborto e la sindrome post-abortiva. L’aborto è una mina che vaga nel mare della psiche, cui si possono opporre meccanismi di rimozione, resistenza e di difesa oppure il recupero della percezione cosciente con l’elaborazione del lutto. Aspetti psicologici della maternità sono il desiderio di gravidanza e il desiderio di maternità, vissuti in modo unico e irripetibile, ma non privi di atteggiamenti ansiogeni che portano a imboccare la strada della maturazione, una marcia in più per raggiungere l’obiettivo, o quella della regressione, un aumento del bisogno di affetto e di protezione per avere il coraggio di proseguire. SPA sta per sindrome post abortiva ed è considerata un evento traumatico per la prima volta così descritto dall’American Psychiatric Association: produce un marcato stress, sopprime gli elementi di identificazione col bambino e nega la gravidanza, negando la parte del sé che si era identificata col bambino.

Nella tabella compilata dall’Harvard Medical School, grazie al coordinamento a partire dal 1987 di Worden, questo il quadro clinico determinato da SPA: disturbi fobico-ansiosi, disturbi nella comunicazione, nella alimentazione, del pensiero, dell’affettività, neurovegetativi, sessuali, del sonno, che si presentano attraverso nuove gravidanze, sterilità secondaria, aborti spontanei, isterectomia e perdite affettive. Aumentano i fattori di rischio psicopatologico quando l’IVG è compiuto a scadenza dei termini legali, in età adolescenziale e preclimaterica, nei periodi successivi alla morte di un figlio o alla morte naturale di un feto, oppure dopo l’improvvisa scomparsa dell’infertilità, o da ultimo nei casi di gravi situazioni conflittuali individuali, di coppia, familiari o ambientali.

Dopo un’ampia descizione delle metodiche non invasive dell’IVG, Casadei, Righetti e Maggino propongono di avviare protocolli psicologici di intervento per il superamento delle problematiche che portano all’aborto volontario, insieme all’applicazione di un maggiore e più completo consenso informato sui rischi medico-chirurgici ma anche sulle complicanze psico-cliniche post intervento. Successivamente gli autori affrontano le implicazioni de L’aborto nel vissuto famigliare, dove approfondiscono i temi della memoria prenatale di bambini in grado di riconoscere i tentativi di aborto messi in atto dalla madre, della tragedia devastante della morte del bambino non voluto e della estrema lentezza e complessità dell’elaborazione del lutto, dato che “non esistono sofferenze di serie A e sofferenze di serie B, ma la sofferenza è sofferenza e va affrontata in modo globale”.

L’aborto come evento nella vita di coppia viene esaminato dalle psicoterapeute e psichiatre Diletta Pieri e Claudia Ravaldi, che riassumono l’elaborazione del lutto post aborto nella forte metafora di Ortega Y Gasset: “Peary racconta che, nel suo viaggio al polo, una volta, per un giorno intero, viaggiò verso nord, facendo correre vivacemente i suoi cani da slitta. La sera controllò le sue bussole, per determinare la sua latitudine, ma con sua grande sorpresa si accorse di essere molto più a sud del mattino precedente. Per tutta la giornata aveva viaggiato faticosamente verso nord camminando sulla superficie di un enorme iceberg trascinato a sud dalla corrente oceanica”.

Se il nostro iceberg ci porta nella direzione sbagliata, il peso e la distanza da affrontare nella rielaborazione del lutto aumenteranno considerevolmente. I padri di fronte all’aborto: interessante il capitolo redatto da Paolo Ferliga, psicoterapeuta e professore di filosofia e storia, perché l’analisi psicologica sulle responsabilità e sui vissuti della figura paterna di fronte all’IVG è quasi del tutto assente nella letteratura scientifica mondiale. Nulla del genere s’è finora scritto in Italia a parte l’eccezione di Claudio Risé, che negli ultimi suoi libri ha il coraggio di dire quanto cruciale sia l’aborto per la psiche maschile e la società nel suo insieme: “Negli ultimi 35 anni è stato impedito di nascere a milioni di bambini. I nati sono dei survivors come la psicologia anglosassone chiama i sopravvissuti alla violenza e all’abuso. E dei sopravvissuti hanno le insicurezza, la bassa autostima, ed un rapporto incerto con la vita. Dopo la legalizzazione dell’aborto la sofferenza ed uccisione dei bambini diventa normale, si fa norma. Allora il bambino violentato va nell’inconscio, e diventa perversione individuale, od ossessione collettiva”.

La reazione più comune assunta dagli uomini di fronte alla notizia dell’arrivo di un figlio è stata recentemente definita da Giuliano Ferrra il “voltarsi dall’altra parte”, e scaricare da codardi sulla madre tutte le responsabilità, ma diventa nefandezza criminale quando il padre spinge la mamma ad abortire. L’irresponsabilità e l’infanticidio praticati dal padre sono magistralmente delineati da Goethe che fa dire a Margherita divenuta pazza dopo l’abbandono e la fuga di Faust : “Mio figlio l’ho affogato…non era stato dato a te e a me? Anche a te…”.

A Faust, che tale responsabilità non si era assunto, non resta che maledire il giorno in cui è nato e fuggire con il diavolo. L’esperienza degli uomini di fronte all’aborto si può eccezionalmente leggere in Fatherhood Aborted, paternità abortiva, di Guy Condon e David Hazard, che sulla base di molte testimonianze maschili, delinea una sindrome post abortiva dei padri mancati. In Italia è sempre merito di Risé con la pubblicazione del Documento per il padre, promosso nel 2001 insieme ad altri docenti universitari, se negli ultimi anni si è notevolmente amplificata l’importanza di ri-dare, fin dall’inizio della vita, la parola anche al padre.

Completano il libro Quello che resta i capitoli dedicati dalla succitata Claudia Ravaldi a L’aborto come perdita: il lutto e la sua elaborazione, e da Elena Vergani, medico chirurgo, specializzata in neuropsichiatria, docente universitaria e primario, a Le madri: conservare l’amore sulla terra.

 Le future mamme si meriterebbero, secondo Vergani, “una globale attenzione alla qualità di vita della donna, e dei suoi contesti relazionali con l’utilizzo degli strumenti specifici della psicologia della salute”. Il che significa, tradotto nel linguaggio comune di tutti i giorni, che nell’immaginario collettivo femminile c’è questo sogno tanto accarezzato e nitido quanto inconfessabile: quando la goccia di vita si fa sentire, la futura mamma si immagina di essere forte e sicura abbastanza per diventare una buona e brava mamma, e si immagina che tutti facciano salti di gioia e che le dicano sì sarai una mamma bellissima e meravigliosa, e si immagina che il futuro papà faccia salti di gioia, che si dia subito da fare per comprare un castello meraviglioso per le sue due creature, che regali un dolce riposo da regina alla sua donna incinta, che la stracolmi di attenzioni, che prepari tutto il corredo per il meraviglioso bambino in arrivo…e la futura mamma si immagina che sua madre e futura nonna faccia salti di gioia e le assicuri tutto l’aiuto e di più, e si immagina che suo padre e futuro nonno faccia salti di gioia e pensi ai giochi divertenti col nipotino in arrivo, e si immagina che i fratelli facciano salti di gioia e promettano un aiuto se serve.. e che gli amici facciano salti di gioia …e che il datore di lavoro faccia salti di gioia e offra tutte le opportunità e le garanzie possibili e immaginabili e un aumento di stipendio da subito dato che ce ne vogliono tanti, e che ginecologo, pediatra, sala parto, nidi, asili, scuole, la città tutta e la società intera e il mondo globale siano a misura dell’amore di una mamma per quel bambino in arrivo ….. se anche solo una briciola di questa inconfessabile immaginazione collettiva corrispondesse alla realtà delle primissime ore vissute da una futura mamma, quante non mamme avrebbero rinunciato a far rinsecchire la loro goccia di vita? ( di Maria Luisa Tezza)

vedi: http://il-dono.org/

 

 
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