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Una riflessione sulla morte, dopo Welby.
Di Francesco Agnoli - 23/12/2006 - Bioetica - 1710 visite - 0 commenti
E' già stato osservato: accanimento terapeutico e eutanasia sono due differenti espressioni dell'odierno rifiuto della morte, di quella morte naturale che viene come un ladro di notte, e di cui non conosciamo né giorno né ora. Quella "sorella morte" misteriosa e terribile, che secondo un anonimo medievale ci rende tutti uguali, parifica con la sua falce "papa collo imperadori, cardinali e gran signori", e che alla fine mette ognuno di noi di fronte alla Misericordia e alla Giustizia di Dio. Forse sono proprio queste due parole, questi due concetti, misericordia e giustizia, che abbiamo perso, perché l'uno ci sfugge, nel nostro non riconoscerci più come figli, e l'altro lo abbiamo dimenticato, nel nostro esserci eretti a fonti stesse ed autori della legge (per cui ci è inconcepibile l'idea di essere un giorno giudicati). Ma se non siamo più figli, creature, esseri cui la vita è stata donata, non possiamo credere che qualcosa, la vita, ci venga presa, per esserci poi ridata, sotto forma diversa. Se non siamo più figli, come ha scritto Alessandro Pertosa, "dinanzi alla richiesta di senso gettata nell’aldilà, l’umanità non riceve alcuna risposta. La morte finisce quindi per unire la solida certezza del noto con l’assoluta incertezza del senza-risposta, l’aldilà". Così con accanimento terapeutico ed eutanasia cerchiamo di togliere alla morte la sua storia, il suo tempo, separandola nettamente dalla vita, come se vita e morte non fossero legate, come se non esistesse un tempo, una durata, nella quale si trapassa dall'aldiquà all'aldilà, dai "muri di questo mondo", come diceva J.R. Tolkien, al luogo che "solo amore e luce ha per confine". La conseguenza inevitabile è il terrore della morte, una sorta di horror vacui, una paura di cadere in un abisso di nulla, quel nulla dal quale in fondo ci sentiamo derivare. Per questo oggi, come ha scritto Philippe Ariès, “la morte è divenuta tabù, una cosa innominabile […] Una volta si raccontava ai bambini che nascevano sotto un cavolo, però essi assistevano alla grande scena degli addii, nella camera e al capezzale del morente […] oggi i bambini vengono iniziati, fin dalla più tenera età, alla fisiologia dell’amore e della nascita, ma, quando non vedono più il nonno e chiedono il perché, in Francia si risponde loro che è partito per un paese molto lontano, e in Inghilterra che riposa in un bel giardino dove cresce il caprifoglio. Non sono più i bambini a nascere sotto un cavolo, ma i morti a scomparire tra i fiori” (P. Ariès, "Storia della morte in Occidente dal Medioevo ai giorni nostri", Rizzoli, Milano). Nell'epoca attuale siamo di fronte al ribaltamento totale di una lunga storia, quella della riflessione cristiana sulla morte: penso a testi come "L'apparecchio alla morte", di Alfonso Maria de Liguori, in cui il famoso avvocato e santo napoletano, l'autore del celebre canto popolare "Tu scendi dalle stelle", introduce il lettore a familiarizzare con la morte, a comprendere l'importanza del tempo che ci è dato, a meditare sulla perseveranza nel bene e sulla rassegnazione, come virtù somma, come espressione di fiducia, di fondamentale ottimismo e abbandono alla Provvidenza. Ma la "colpa" non è solo dei tempi moderni: questa percezione della morte è cambiata anche nella Chiesa, al punto che non di rado mi torna alla mente una riflessione di don Giussani, quando diceva che non è solo l'uomo che ha abbandonato la Chiesa, ma anche la Chiesa che si è vergognata di Cristo, e del suo insegnamento. Penso al nuovo rito del funerale, così privo di solennità, rispetto a quello antico; penso al desueto canto del Dies irae, in cui il "giorno dell'ira" e il giorno della misericordia vengono accostati l'uno all'altro con incredibile potenza espressiva; penso alla formula del mercoledì delle ceneri, così eloquente, "ricordati uomo che sei polvere e che in polvere ritornerai", espunta per non infastidire, per non urtare; oppure alle antiche rogazioni, eliminate anch'esse, in cui il fedele chiedeva a Dio che gli evitasse la morte improvvisa. A subitanea ac improvisa morte libera nos Domine: liberaci Signore, dalla morte che il mondo considera migliore, la morte immediata, improvvisa, quella che non ci lascia accogliere con consapevolezza il momento più importante della vita. Anche per Foscolo, l'ateo Foscolo, come per il mondo pagano stesso, il modo di morire dice della grandezza di un uomo: "uom, se' tu grande o vil? Muori e il saprai….".
 
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