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Lombroso, lo scienziato che aprì le porte al razzismo
Di Libertà e Persona - 30/04/2009 - Scienza - 1681 visite - 0 commenti

In preparazione del festival della scienza, Scienza sì, scientismo no, del 15 e 16 maggio, a Trento, vorremmo pubblicare degli articoli che anticipino il senso di alcuni interventi.

Il festival metterà in luce la grandezza della scienza, ma porrà all'attenzione degli ascoltatori anche ciò che spesso viene dimenticato: cioè il fatto che in nome della scienza si sono compiute spesso le più grandi aberrazioni della storia. Questo soprattutto perchè quando oggi si discute di vita, di manipolazione genetica, ecc., qualche furbetto (Odifreddi, Montalcini, Augias, Boncinelli, Fazio., Giorello...) la smetta di utilizzare, malamente e strumentalmente, il caso Galilei, per mettere a tacere chi si pone delle domande etiche.

Un fatto è certo: troppo numerosi sono stati gli sconfinamentei di scienziati fuori dal loro campo, per non ricordare ancora oggi quali siano i limiti teorici e morali entro cui la scienza deve e può operare.

La storia del razzismo che volle essere "scientifico" di Lombroso, può far riflettere proprio su questo.

"Cosa c’entrano i cammelli coi camalli? Niente, si dirà. Eppu­re, partendo anche dall’asso­nanza dei nomi, che verrebbe­ro dall’arabo hamal, Cesare Lombroso si spinse nel 1891 a teorizzare che tra gli animali e gli scaricatori di porto ci fos­se una sorta di parentela dovuta alla gibbosità. Al punto che, con Filippo Cougnet, firmò un saggio dal titolo irre­sistibile: Studi sui segni professionali dei facchini e sui lipomi delle Ottentot­te, cammelli e zebù. La folgorante idea, scrive Luigi Guar­nieri nel suo irridente L’atlante crimi­nale. Vita scriteriata di Cesare Lombro­so (Bur), gli viene «esaminando un pa­ziente, di professione brentatore, il qua­le ha sulle spalle, nel punto in cui ap­poggia il carico, una specie di cuscinet­to adiposo. Vuoi vedere, almanacca prontamente Lombroso, che la gobba dei cammelli e dei dromedari ha la stes­sa origine del cuscinetto del brentato­re? Subito esamina tutti i facchini di To­rino e scrive a legioni di veterinari per­ché studino a fondo gli animali da so­ma, in special modo gli asini. Non pago dell’imponente massa di dati raccolti, Lombroso indaga con grande scrupolo i misteri del cuscinetto adiposo delle Ottentotte», cioè le donne del popolo africano dei Khoikhoi.

C’è da riderne, adesso. Come c’è da sorridere a rileggere gran parte del­l’opera dell’antropologo veronese. Ba­sti ricordare, tra gli altri, lo studio su La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, dove sosteneva, in base all’esame del­le foto degli scheda­ri del capo della po­lizia parigina, Go­ron (il quale scoprì poi che per sbaglio aveva mandato al nostro le immagini di bottegaie in lista per una licenza...), che «le prostitute, come i delinquenti, presentano caratte­ri distintivi fisici, mentali e congeniti» e hanno l’alluce «prensile». O quello su Il ciclismo nel delitto, pubblicato su «Nuova Antologia», nel quale teorizza­va che «la passione del pedalare trasci­na alla truffa, al furto, alla grassazio­ne ».

 Non c’è opera lombrosiana in cui non sia possibile trovare, a voler essere maliziosi, spunti di comicità. A partire da certi titoli: «Sul vermis ipertrofico», «La ruga del cretino e l’anomalia del cuoio capelluto», «Fenomeni mediani­ci in una casa di Torino», «Sulla cortez­za dell’alluce negli epilettici e negli idio­ti », «Rapina di un tenente dipsoma­ne », «Il vestito dell’uomo preistorico», «Il cervello del brigante Tiburzio», «Perché i preti si vestono da donna»...

Nulla è più facile, un secolo dopo la sua morte avvenuta nel 1909, che ridur­re l’antropologo, criminologo e giuri­sta veronese a una macchietta. Un ciar­latano. Eppure, come scrisse Giorgio Ie­ranò, andrebbe riscoperta «la comples­sità di una figura che, nel bene e nel male, ha lasciato un segno nella cultura italiana». Se non altro perché «c’era del metodo nella follia di Lombroso. C’era l’illusione di poter offrire di ogni aspet­to, anche minuto, dell’universo una spiegazione scientifica, la ferma convin­zione di poter misurare quantitativa­mente ogni fenomeno. Lombroso era un utopista che credeva nella missione redentrice della scienza».

Certo, spiega l’antropologo Duccio Canestrini, che insegna a Trento e a Lucca e per celebrare il centenario del­la scomparsa ha allestito una conferen­za- spettacolo (Lombroso illuminato. Delinquenti si nasce o si diventa?) al de­butto domani sera a Torino al Circolo dei lettori, era un uomo pieno di con­traddizioni: «Socialista, criminalizza di fatto i miserabili. Ebreo, pone le basi del razzismo scientifico. Razionalista, partecipa a sedute spiritiche nel corso delle quali una medium gli fa incontra­re persino la mamma defunta e spiega il paranormale con l’esistenza di una 'quarta dimensione'. Le sue teorie, affa­scinanti e spesso assurde, ebbero un successo internazionale, condizionan­do sia la giurisprudenza, sia la frenolo­gia».

Con Verdi e Garibaldi, fu probabil­mente uno degli italiani più famosi del XIX secolo. Le sue opere erano tradotte e pubblicate in tutto il mondo, dal­l’America alla Russia, dall’Argentina (dove lo studioso lombrosiano Corne­lio Moyano Gacitúa arrivò a rovesciare certe analisi contro i nostri immigrati: «La scienza ci insegna che insieme col carattere intraprendente, intelligente, libero, inventivo e artistico degli italia­ni c’è il residuo della sua alta criminali­tà di sangue») fino al Giappone. I con­vegni scientifici di tutto il pianeta se lo contendevano. Vittorio Emanuele III sa­lutava in lui «l’onore d’Italia».

 I sociali­sti lo omaggiavano regalandogli un bu­sto di Caligola. Émile Zola lo elogiava come «un grande e potente ingegno». Il governo francese gli consegnava la Legion d’Onore. Gli scienziati, i medici e i prefetti si facevano in quattro per ar­ricchire la sua stupefacente collezione di crani, cervelli, maschere funerarie, foto segnaletiche, dettagli di tatuaggi di criminali e prostitute e deviati di ogni genere, oggi raccolti al «Museo Lombroso» di Torino. Lo scrittore Bram Stoker lo tirava in ballo scrivendo Dracula. Il filosofo Hippolyte Adolphe Taine gli si inchinava: «Il vostro meto­do è l’unico che possa portare a nozio­ni precise e a conclusioni esatte».

E questo cercava Cesare Lombroso, misurando crani e confrontando orec­chie e calcolando pelosità in un avvitar­si di definizioni «scientifiche» avventa­te: l’esattezza. Capire il perché delle co­se. Così da migliorare la società. «Il tra­guardo che spero di raggiungere com­pletando le mie ricerche», dice in un’edizione de L’uomo delinquente del 1876, «è quello di dare ai giudici e ai pe­riti legali il mezzo per prevenire i delit­ti, individuando i potenziali soggetti a rischio e le circostanze che ne scatena­no l’animosità. Accertando rigorosa­mente fatti determinati, senza azzarda­re su di essi dei sentimenti personali che sarebbero ridicoli» . Il guaio è che proprio quel «rigore scientifico» appare oggi sospeso tra il ridicolo e lo spaventoso. Il consiglio da­to al Pellegrosario di Mogliano Veneto di curare la pellagra con «piccole dosi di arsenico».

 Il marchio sugli africani: «Del tetro colore della pelle, il povero Negro ne va tinto più o meno in tutta la superficie, e in certe provincie, anche interne, del corpo, come il cervello e il velo pendulo». Il giudizio sulla donna che tende «non tanto a distruggere il nemico quanto a infliggergli il massi­mo dolore, a martoriarlo a sorso a sor­so e a paralizzarlo con la sofferenza». La ricerca «sul cretinismo in Lombar­dia » dove descrive una «nuova specie di uomini bruti che barbugliano, gru­gniscono, s’accosciano su immondo strame gettato sul terreno». Le parole sull’anarchico Ravachol: «Ciò che ci col­pisce nella fisionomia è la brutalità. La faccia si distingue per la esagerazione degli archi sopracciliari, pel naso devia­to molto verso destra, le orecchie ad an­sa». La teoria che «il mancinismo e l’ambidestrismo sensorii sono un po’ più frequenti nei pazzi». Un disastro, col senno di poi. Gravi­do di conseguenze pesanti. Eppure a quell’uomo incapace di trovare il ban­dolo della matassa e liquidato da Lev Nikolaevic Tolstoj (che in base alla brut­tezza lui aveva classificato «di aspetto cretinoso o degenerato») come un «vecchietto ingenuo e limitato», una cosa gliela dobbiamo riconoscere. Non si stancò mai di cercare. A che prezzo, però...

Corriere della Sera, Gian Antonio Stella, 28 aprile 2009

 
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