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Luca era gay
Di Rassegna Stampa - 23/01/2009 - Attualitą - 874 visite - 0 commenti

Il padre assente, il primo innamoramento, l’Arcigay e il business delle crociere. Poi l’Aids, il buio, le mele buddiste e l’icona della Madonna. Ad agosto si è sposato. Con Teresa.

da Tempi.it

A tredici anni Luca si innamorò del suo compagno di banco. L’estate scorsa Luca si è sposato con Teresa, una bella ragazza, che quando dice qualcosa di importante ha il vezzo femminile di guardare all’insù. Luca è “quel” Luca, quello della canzone di Povia, quello del brano che il cantante dei bambini che fanno ooh porterà al prossimo festival di Sanremo. Il titolo è già di per sé assai significativo: “Luca era gay”. È bastato il verbo coniugato all’imperfetto per mandare su tutte le furie l’Arcigay che ha preventivamente – senza conoscere né il testo né le note della canzone – attaccato il cantautore, accusandolo di giocare con la vita altrui: «è un omofobo». In un comunicato l’associazione ha reso noto che «il Luca della canzone potrebbe essere quel Luca Di Tolve che dichiara di esser un ex gay guarito grazie alle teorie riparative di Joseph Nicolosi, cattolico integralista americano, le cui tesi sono state ampiamente confutate dalla comunità scientifica mondiale. Se Bonolis e il suo direttore musicale intendono mandare in scena uno spottone clerical reazionario contro la dignità delle persone omosessuali, sappiano fin d’ora che la nostra reazione sarà durissima, rumorosa e organizzata».

Per ora, oltre alle numerose pagine di siti internet che denigrano Luca e la sua scelta, la “reazione” si è materializzata nella proclamazione di una manifestazione davanti a un centro parrocchiale in provincia di Brescia. «Sabato 24 gennaio – racconta Luca a Tempi – ci sarà un momento di preghiera all’interno di uno dei locali della parrocchia. è il primo incontro di una serie, cui partecipano solo persone che credono che la fede li possa aiutare a rifiorire da una situazione personale indesiderata. Ripeto: un momento di preghiera, cui aderiscono liberamente delle persone. Eppure ci tocca subire delle contestazioni. Ma di che tolleranza parla l’Arcigay se uno non può nemmeno essere libero di trovarsi con persone consenzienti a pregare?». Luca lo sa bene di essere diventato un simbolo, «un personaggio, mio malgrado. Ma io non cerco pubblicità. Quel che faccio, lo faccio perché ci credo. Ci rimetto dei soldi e del tempo, non ci guadagno nulla. A queste contestazioni sono abituato, ma mi rincresce per quei ragazzi che vogliono iniziare il percorso con noi. Arrivano spesso da vicende difficili e un’accoglienza del genere non può certo metterli a loro agio». Luca non conosceva Povia. «Ho scoperto anch’io il titolo della canzone dalle pagine dei giornali. Gli ho telefonato e mi ha detto che non sono io quel Luca, che lui vuole raccontare una storia e basta». Però nella comunità gay si sa che Luca è lui. Luca il tabù, Luca lo scandalo, Luca che si è sposato ad agosto con Teresa.

Nomadismo sentimentale

«I miei genitori si separarono quando ero piccolo, mio padre se ne andò di casa. Rimasi da solo con mia madre, in un ambiente tutto femminile. Giocavo con le bambole, avevo mutato il tono della voce, mi sentivo molto rassicurato quando stavo con le donne e spaventato, anche se attratto, dalle figure maschili. Avevo tredici anni e nessun padre che mi spingesse a entrare nel “gruppo dei maschi” da cui, invece, venivo respinto perché avevo interessi diversi, perché non ero dei “loro”, perché non giocavo a pallone come tutti. Questo mondo che pure mi attraeva, al tempo stesso mi spaventava, mi lasciava ai margini, solo. A quell’età questa mia infelicità e, al contempo, la necessità, come tutti, d’affetto, si manifestò in pulsioni omosessuali. Così mi innamorai del mio compagno di banco, un tipo assai diverso da me, assai mascolino e virile.

Sbaglia chi crede che “gay si nasce”, non è vero quel che è stato propagandato da certi manifesti. La mia esperienza è comune a tutti gli omosessuali che ho conosciuto. T’innamori di un maschio perché è quello che vorresti essere. Ecco perché gli omosessuali si travestono da poliziotti, da militari, da machi: perché è quello che vorrebbero inconsciamente diventare, ma non possono essere. L’attrazione per il mio compagno non era corrisposta. Io stavo male, ero infelice, nascondevo i miei pensieri, non ne avevo fatto parola con nessuno. Finché i miei genitori mi portarono in un consultorio. Lì fu loro detto che ero gay, di non preoccuparsi, anzi di lasciarmi esprimere secondo la mia tendenza.

Ecco il primo passo: se invece fossero stati aiutati a comprendere che il mio disagio nasceva dalla mancanza di una figura maschile di riferimento oggi, forse, saremmo qui a raccontare un’altra storia. Invece, e questo accade ancor con più frequenza oggi, di fronte all’omosessualità si ragiona secondo una falsa categoria di libertà che non aiuta ad affrontare il problema, ma lo rimuove, lo elimina, lasciandolo, di fatto, irrisolto. Mio padre e mia madre, due cattolici per tradizione, non praticanti, non accettarono il giudizio dei medici ma erano disorientati, non sapevano bene che fare, come comportarsi. Io quel giorno, che ero rimasto fuori dalla porta, ma avevo sentito cosa veniva detto loro, iniziai a incuriosirmi. Omosessualità, e che cos’è? Erano gli anni di film come Il vizietto, La patata bollente, anni in cui iniziava a manifestarsi una certa cultura gay. Ne ero sollevato: non sono solo, ci sono altri come me.

Me ne andai di casa a diciotto anni ed entrai in un mondo colorato, affascinante, ricco di persone estroverse, simpatiche e disinvolte. Iniziai a frequentare un ragazzo con qualche anno più di me, a girare per discoteche e festini. Divenni ballerino in una discoteca per omosessuali. Le prime volte era bellissimo: gente accogliente e divertente sempre dedita al godimento della vita, allegra. Ma c’è anche l’altro lato della medaglia: questi locali sono dei veri e propri labirinti di sesso, dove ai piani superiori o inferiori puoi soddisfare tutte le tue più recondite perversioni. Gli omosessuali vivono un frenetico nomadismo sentimentale, non esistono relazioni stabili e vere. è comprensibile: l’omosessuale, come chiunque altro, cerca altro da sé. Se nell’altro trova solo qualcosa a sé simile, il rapporto non può che essere effimero e compulsivo. Ma dopo la consumazione, quel che rimane è solo una grande sensazione di vuoto, di insoddisfazione, di tristezza. Mi fanno sorridere le rivendicazioni di coloro che chiedono il matrimonio omosessuale: non può esistere stabilità e fedeltà nel mondo gay perché quel che cerchi non può resistere a lungo. Anche là dove è stato introdotto il matrimonio fra persone dello stesso sesso, quanti effettivamente si sono sposati? E quante di queste relazioni sono durate? Pochissime, forse nessuna.

Le casse dell’associazione

I primi tempi ero molto contento di questa mia vita. Eppure, la sera, quando rincasavo, sentivo come un’ombra di tristezza. Mi sentivo solo, mi mancava qualcosa di vero. E quando guardavo negli occhi i miei compagni vedevo la stessa ombra. Però nessuno lo ammetteva, nessuno lo diceva. Riconoscerlo è uno strappo doloroso. Significa ammettere che il bene che professi è solo complicità, che la cultura che sostieni è basata solo sulla superficialità e il piacere. Non si può avere una relazione con qualcun altro, se non si sa chi si è. Il sesso è il motore di tutto. Anche dei soldi, ovvio. Negli anni Novanta andavo spesso a Miami: facevo il ballerino nelle discoteche più in, ma ero un po’ stanco di quella vita. Avevo studiato da accompagnatore turistico e pensai di far fruttare quelle mie conoscenze. Mi rivolsi all’Arcigay prospettando loro l’idea delle crociere per soli omosessuali. All’inizio la loro reazione mi stupì: mi dissero “ok, ma devi rimanere nell’ambito della politica di sinistra”. Politica? Sinceramente mi importava ben poco. Però avevo bisogno del logo dell’Arcigay per far funzionare gli affari. Alla fine capirono che il business fruttava bene e mi concessero il logo. Per anni ho versato quote consistenti dei miei guadagni all’associazione. E quando dico consistenti, intendo proprio “consistenti”. Ero anche diventato membro dell’Iglta (International gay & lesbian travel association) e frequentavo negli Stati Uniti i loro corsi di marketing. Vi si spiega che “più sesso regali, più fai soldi”. Per cui si consiglia di organizzare gli spazi con le docce in comune e di lasciare sempre degli ambienti con zone oscure in cui sia più facile appartarsi. La cosa funzionava. La mia Malu group (avevo sullo stemma un delfino e delle palme) andava alla grande. Ero un convinto sostenitore dell’associazione ed ero tra coloro che più si erano spesi – la vicenda mi portò una certa notorietà – per organizzare il Gay Pride di Napoli. Continuavo la mia vita dissipata tra i party della città, frequentavo persone importanti della Milano bene, avevo contatti nel mondo dell’alta moda. Eppure ero sempre più insoddisfatto. Se il sesso è tutto, quando finisce quello, finisce tutto.

Gli amici morivano da soli

 Arrivarono gli anni Novanta e arrivò l’Aids. Vedevo gli amici morire, soprattutto vedevo quanto fossero fragili le relazioni fra noi. Quando uno si ammalava, il compagno fuggiva. Ne ha uccisi più la solitudine che il virus. Molti si rifugiarono nella droga, alcuni si suicidarono. Morì anche un mio amico, aveva solo ventisei anni. Mi feci controllare e risultai sieropositivo. Sono letteralmente impazzito. La malattia mi ha costretto a mollare tutto: l’appartamento in centro, il lavoro, i soldi. Eppure oggi dico che la mia malattia è stata la mia grazia, perché mi ha costretto a riportare a galla domande che il vagabondare di quegli anni avevano sopito ma non spento. Così ho cercato risposte nel buddismo e questa esperienza mi ha aiutato soprattutto a staccarmi da quel mondo tutto materiale in cui ero immerso. Un giorno, mentre ero nel tempio buddista assorto in preghiera, alzai gli occhi. Davanti a me stavano delle mele e una pergamena, perché è questo il loro modo di pregare. Fu un lampo, fu un pensiero e mi ritornarono in mente le immagini della Madonna che mia madre teneva in casa. Perché devo stare qui, inginocchiato davanti a delle mele, quando ho in me un’icona della Madonna? Tornai a casa, ero depresso e mi chiedevo perché quel Dio che bestemmiavo non potesse benedirmi. Mi aggrappai al rosario, iniziando a recitare preghiere di cui non ricordavo nemmeno le parole. Era un periodo molto confuso, però ero convinto di aver trovato qualcosa in cui poter confidare. Non uscivo mai di casa, se non per andare a Messa. Mi confessai, incominciai a lavorare come commesso, io che fino a poco tempo prima impartivo ordini a due segretarie.

Va bene gay, ma mica sarai cattolico?

Un giorno trovai tra le carte di un amico degli appunti su un tale Joseph Nicolosi, uno psicologo cattolico americano celebre per la sua teoria riparativa. In breve: è un percorso psicologico che aiuta a recuperare le relazioni maschili che sono andate perdute. All’inizio mi arrabbiai. È duro accettare la distruzione della propria identità, è difficile smontare la propria intimità. È arduo perdonare gli altri e se stessi. Però ero curioso, ero alla ricerca di una salvezza, anche immeritata. Per me, dopo anni che seguo questo percorso, è stata una grazia. L’aspetto più bello è stato scoprire che, man mano che instauravo rapporti di amicizia con degli uomini, le mie pulsioni omosessuali sparivano. Cioè, man mano che le mie relazioni diventavano vere, sincere, non superficiali, io imparavo a non sentirmi costantemente inferiore agli altri maschi. Ho imparato a non idealizzare gli altri uomini, ho imparato a sdrammatizzare (gli omosessuali non ne sono capaci). Ho ricominciato a dormire di notte, letteralmente. La prima volta che mi sono ritrovato a fare delle allusioni pesanti su una collega è stata per me una situazione incredibile, assurda, gioiosa. Ho chiesto appuntamento a una ragazza. Siamo usciti e lei ha subito messo in chiaro che era a favore della pillola abortiva. Io le ho detto delle mie esperienze omosessuali, ma questo non l’ha affatto sconvolta. Quando però ho aggiunto che ero cattolico, e quindi contrario alla pillola, mi ha mollato.

La schiavitù dei sorrisetti

Ma come? – dicevo nelle mie preghiere – dopo tutto il cammino che mi hai fatto fare, ora mi deludi così? Durante un pellegrinaggio a Medjugorje conobbi Teresa. Diventammo amici. Mi divertivo con lei, mi piaceva, ci siamo fidanzati. Non sapevo come... insomma, alla fine gliel’ho detto. Quel che mi ha risposto dice tutto di lei: “Luca, quel che sei stato non è più. Importa quel che sei ora”. Dopo un anno di fidanzamento ci siamo sposati. Oggi siamo alla guida del Gruppo Lot: aiutiamo gli omosessuali a rifiorire. Non siamo psicologi, non è il nostro lavoro. Per quel che è stata la mia esperienza posso dire solo che il lavoro psicologico e questi gruppi di preghiera hanno avuto per me pari importanza. Ma sono due binari paralleli, possono non intersecarsi. Vivo in affitto, non ho più le belle automobili di un tempo, non mi interessa farmi pubblicità. Chiedo solo di poter affermare quello che credo. Io stesso ne sono la prova vivente. Il problema dell’omosessualità non riguarda il sesso, riguarda la propria umanità. Ero schiavo dei sorrisetti e delle mistificazioni. Oggi sono un uomo vero, un uomo libero».

 
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