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La rivoluzione televisiva di Sarkò
Di Umberto Folena - 07/01/2009 - Attualità - 1107 visite - 0 commenti
Ma che ci combina Sarkozy. Confermandosi leader di una destra non meramente conservativa ma capace di spunti creativi, ha tolto la pubblicità dalla televisione pubblica francese. All’inizio soltanto dalle 20 alle 6 del mattino; entro tre anni a tutte le ore. France 2, 3, 4 e 5 come la Bbc inglese, dunque. E come la Rai d’antan, quella in cui la pubblicità era limitata al Carosello, ossia era costretta ad obbedire alla tv facendo da ospite: un piccolo spettacolo di due minuti e mezzo in cui l’annuncio era confinato nei pochi secondi finali. Erano i tempi in cui la tv dettava le regole e la pubblicità obbediva. Esattamente il contrario di quanto accade oggi. Ed è per questo che, buona o cattiva, profetica o sciagurata che ci possa apparire, la decisione di Sarkò è rivoluzionaria. Una rivoluzione oggettiva. Pensiamo soltanto all’Auditel. Da sistema di rivelazione degli ascolti televisivi al fine di stabilire le tariffe pubblicitarie, da anni è di fatto il bollettino di guerra che ogni mattina decreta vincitori e vinti, determinando vita e morte dei programmi, e fortuna e sventura di registi, giornalisti, conduttori e showgirl. Auditel come giudice di una gara tra concorrenti che ogni sera propongono la stessa minestra; fiction contro fiction, show contro show. Senza pubblicità, la rincorsa a catturare più spettatori possibili avrebbe ancora senso? E pensiamo alla qualità, tanto sbandierata quanto trascurata. Senza la “pagella” dell’Auditel (promosso, bocciato, rimandato), chi fa tv pubblica potrebbe davvero pensare agli interessi del pubblico, non a quelli degli inserzionisti. Perché la tv commerciale (Rai compresa) è fatta non di programmi che per andare in onda hanno bisogno degli spot, ma di spot che per andare in onda hanno bisogno dei programmi. Non a caso ieri un alto dirigente televisivo poteva affermare che «la pubblicità fa ormai parte della televisione, a volte è fatta meglio della tv stessa, oggi è anche vista in termini culturali, è un tutt’uno. La tv che ne è priva è una tv monca». Insomma, la televisione sarebbe anche bella, se non ci fossero tutti quei programmi che interrompono gli spot… La pubblicità, e i suoi inserzionisti, perderanno un poco del loro potere. È poi molto probabile che la tv pubblica francese dovrà dimagrire, perché difficilmente la nuova tassa del 3 per cento sul fatturato pubblicitario delle tv private potrà colmare, da sola, la voragine dei 250 milioni annui degli spot scomparsi. Di sicuro, se Sanremo fosse in Francia – questione di pochi chilometri – la tv pubblica transalpina non potrebbe costruire un baraccone infinito, con ospiti ricoperti d’oro, come da noi. Sanremò dovrebbe dimagrire energicamente, come auspichiamo da un quarto di secolo; oppure migrare su France 1 o M6. Ma è una rivoluzione buona o cattiva? Impossibile dirlo oggi. Aspetteremo, attenti e curiosi di fronte a questo esperimento audace. Senza farci distrarre né dal giubilo dei paladini del servizio pubblico puro e duro, né dai piagnistei dei telemandarini, che se anche l’Italia seguisse l’esempio francese dovrebbero adattarsi a guadagnare cifre meno abnormi. Aspetteremo, curiosi ad esempio di scoprire se una parte dei mancati investimenti pubblicitari nella tv pubblica finiranno ai giornali. Oggi, Rai e Mediaset si pappano il 55 per cento della torta degli investimenti, contro il 33 delle tv americane e il 24 di quelle tedesche. Curiosità interessata? Sì, nell’interesse della stampa ed anche, forse, della stessa democrazia.
 
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