La I Guerra mondiale è la prima guerra industrializzata della storia e porta con sé, più che mai, le cosiddette nevrosi di guerra. Nelle nevrosi di guerra i medici trovano ben poco di nuovo o inedito oltre alla gran quantità e alla nuova terminologia che si crea: “nevrosi del sepolto vivo”, “simpatia isterica per il nemico” … in generale le nevrosi isteriche si verificano dopo un trauma da esplosione, con i sintomi di paralisi, spasmi, mutismo, cecità e analoghi.
La nevrosi è un effetto psichico non tanto della guerra in generale, quanto della guerra industrializzata in particolare: prima il più comune disagio psicologico era la semplice “nostalgia di casa”. Molti ufficiali si oppongono a che la nevrosi, il trauma da esplosione, sia considerata una vera e propria malattia: il riconoscimento ufficiale della nevrosi di guerra finirebbe per creare un alone di presunta inadeguatezza psichica nei confronti dell’evento bellico, e molti soldati potrebbero cercare di trarne vantaggio; essi pretendono che la “nevrosi” sia una ridefinizione del comportamento tradizionalmente schedato sotto il titolo di “codardia”, “mancanza di disciplina”, oppure di disturbi neurologici di causa ignota.
Ma molti sono costretti a capitolare ed a riconoscere la nevrosi come “legittima malattia di guerra”, osservando come un grosso calibro caduto vicino, o un fuoco di sbarramento prolungato danneggino il sistema nervoso del soldato ed il suo autocontrollo, generando scatti improvvisi, pianti isterici, sordità, rifiuto di avanzare… Simmel afferma che i sintomi nevrotici di mutismo, molto diffusi, derivano dall’ostilità dei soldati verso le autorità che impongono ordini sovente suicidi e il silenzio; piuttosto che offendere o colpire i suoi ufficiali, il soldato mutila il proprio linguaggio o perde addirittura la facoltà di parola. Se la nevrosi è funzionale ai soldati in quanto li toglie dal fronte, è funzionale anche alle autorità, che la riconoscono per motivi politici: essa permette di isolare l’individuo, di gestire sintomi individuali piuttosto che trovarsi di fronte a casi di ammutinamento; l’ambiguità della nevrosi e il fatto che comprenda un arco molto vasto di comportamenti devianti, fino all’indisciplina e alla ribellione, fanno sì che anche il dissenso politico e la ribellione alla guerra, siano bollati talora come malattie mentali, il deviante sia isolato e trattato in un contesto medico anziché giudiziario. La nevrosi è sentita dunque dalle autorità come un’utile “ambigua categoria ai fini di rimozione di potenziali fonti di dissenso dalla prima linea”. Il compito terapeutico è quello di indurre il paziente a recuperare il suo ruolo militare ufficiale, e sovente le terapie non comprendono alcuna parte propriamente medica... I metodi della terapia disciplinare sono molti ed essenzialmente gli stessi in tutti gli eserciti: dolore somministrato con apparati elettrici, comandi urlati, isolamento, restrizioni alimentari con la promessa di un alleviamento della pena in cambio dell’abbandonare il sintomo. Il metodo Kaufmann consiste in potenti scariche elettriche ed ottiene molte guarigioni, sebbene i critici insistano sulla frequenza delle ricadute, dei successivi suicidi e della morte durante la stessa terapia. Lewis Yealland è il più fervido propugnatore britannico della terapia disciplinare elettrica, ed anch’egli ottiene guarigioni, ad es. del mutismo. Costui tortura anche i pazienti applicando sulla lingua sigarette accese e molle arroventate. L’apparato elettrico appare lo strumento idoneo a verificare il grado di fissità del sintomo ed a determinare in che misura il paziente sia irrimediabilmente arroccato nella difesa della propria sopravvivenza. Gli analisti, in parte legati alla psicanalisi, criticano non tanto l’efficacia, quanto la crudeltà del trattamento disciplinare. .. La nevrosi, anche ad un livello minimo, è profondamente diffusa ed è molto legata all’immobilismo della guerra.
Quando, con le offensive tedesche del 1918, la guerra torna ad essere di movimento, per quanto il fuoco sia sempre intenso e soverchiante, l’incidenza della nevrosi di guerra crolla clamorosamente. Risulta evidente che la tensione nervosa sia più alta tra i soldati che devono rimanere inattivi sotto il bombardamento, in un’attesa forzata durante la quale la mente fantastica sulle possibilità che la granata abbia effetto o non lo abbia; la sensazione di impotenza e di fragilità diviene molto più forte nel soldato che attende piuttosto che in quello che attacca. Un soldato nota che spesso i militari seguono una successione regolare di paura iniziale, insensibilità ed infine terrore ossessionante, e questo a causa del pericolo prolungato in posizione statica. La guerra crea una diffusa regressione nella magia, nell’animismo, nella nevrosi, e le nevrosi godono spesso di una gran longevità, perdurando anche in tempo di tempo di pace. Molti medici, anche analisti, diagnosticano che alla fine della guerra le nevrosi scompariranno, in quanto scomparirà il loro scopo, la fuga da una situazione intollerabile. Freud, non più alla sua prima cantonata, sostiene che con la cessazione della guerra sono scomparsi anche la maggior parte dei disturbi nevrotici che la guerra ha provocato. In realtà ci si accorge presto che le cose non stanno così e che gli ospedali, ma anche le case, le osterie, la politica, sono pieni di veterani nevrotici, soggetti ancora ad attitudini e scatti bizzarri, a forti depressioni ed euforie, a violenze illogiche. Robert Graves scrive che chiunque abbia passato un certo periodo sulle trincee soffre di una “instabilità di nervi” che se non è divenuta patologica in guerra, potrà divenirlo anche dopo qualche anno, in tempo di pace. Numerosi soldati mai ricoverati durante la guerra crollano dopo la fine delle ostilità. Il veterano instabile di nervi è spesso una persona violenta che agisce nella politica ma senza coordinate precise, così che si dice che la rivoluzione rossa in Germania nel 1919, condotta anche da ex militari, fallisce per l’instabilità di nervi di costoro, piuttosto che per la repressione governativa.
La violenza dei veterani deriva evidentemente dalla loro esperienza di guerra, dall’aggressività repressa, dall’odio per le autorità, e talora per la patria, che li hanno costretti al ruolo di vittime. Il fatto che molti crollino o peggiorino a livello nervoso dopo il ritorno in patria, anche dopo anni, è indicativo della delusione che i veterani provano nel loro impatto col vecchio mondo civile. Quanti infatti, nella sofferenza delle trincee, hanno idealizzato la patria e hanno tenuto sotto controllo le proprie ansie in vista del ritorno, non sanno più frenare le proprie ansie e controllare i nervi dopo l’impatto deludente con la patria stessa. Delusione che è generata ad esempio dalla disoccupazione, dalla povertà, dalla scarsa considerazione ricevuta, dal sogno ideologico infrantosi … numerosi sono i reduci tornati normali o quasi che cadono poi in psicosi permanenti e schizofrenia, in una rottura definitiva con la realtà. Altri tentano di seguire il consiglio più diffuso per i reduci: dimenticare. Ma di fatto la rimozione dell’esperienza di guerra procrastina il ricordo della stessa e finisce per trasformarlo in ossessione.
La Grande Guerra fu dunque un’esperienza modernizzante in cui coloro che si aspettavano di trovarvi l’alternativa al mondo industriale-borghese-classista si accorsero invece che esiste soltanto un mondo, quello industriale, in cui la produzione e la distruzione tecnologica sono immagini speculari l’una dell’altra. Coloro che erano partiti sacrificando il proprio io personale in nome di un ideale comunitario o nazionale, o per pura ideologia, nell’euforia dell’agosto 1914, sarebbero tornati nel proprio paese e avrebbero incontrato persone arricchitesi grazie alla guerra stessa, civili indifferenti, uomini insomma che avevano rinunciato ad ogni ideale di sacrificio per la patria. “I non combattenti che sembravano usciti molto bene dalla guerra”, in termini di egoistico arricchimento personale, scatenavano le ire dei veterani, magari mutilati, ansiosi, costretti a mendicare, guardati con indifferenza, che ora rinfacciavano alla patria, il suo debito di sangue e di dolore nei loro confronti e nei confronti dei loro camerati uccisi. Il senso di ingiustizia subita dai veterani derivava anche dal fatto che loro si erano sacrificati per il bene comune mentre i civili non avevano ricambiato col sacrificio, ma anzi, pur avendo magari elevato il loro status sociale, facevano ora diminuire quello del reduce. Così la caratteristica dei veterani fu essenzialmente la violenza, che si manifestò soprattutto nel 1919 con ammutinamenti e ribellioni, e soprattutto come rancore nei confronti dei civili, di coloro che non avevano sacrificato nulla.
Così i gruppi di veterani si organizzarono intorno a richieste di risarcimento e ricompensa, sentiti come un riconoscimento per l’ingiustizia subita e come questione morale. Il veterano- scrisse un soldato- “è furibondo nei confronti della marcia società borghese, furibondo nei confronti degli imboscati, con tutto ciò che rimane in patria, dietro il fronte”, ed anche se non ha coloriture politiche particolari- se non un vago “socialismo militaresco”- è facilmente arruolabile in eventi violenti, rivoluzionari e camerateschi (come saranno la rivoluzione comunista in Russia, il biennio rosso in Italia e Germania, il fascismo e il nazionalsocialismo; del resto sia Hitler che Mussolini erano stati volontari e reduci): “Quella gente - scrive Wilhelm Heinz, un veterano che sarebbe poi diventato un SA nazista - ci raccontava che la guerra era finita. Ci scappava da ridere. Noi stessi siamo la guerra: la sua fiamma arde forte in noi. Essa avviluppa tutto il nostro essere e ci affascina con l’impellente richiamo alla distruzione. Noi obbedimmo… prendemmo a marciare sui campi di battaglia del mondo post-bellico, proprio come eravamo scesi in battaglia sul fronte occidentale”.
Il mondo dei reduci si sarebbe ristretto alla frequentazione reciproca fra veterani, che in un certo senso avrebbero fatto del fronte la loro patria e degli ex camerati i compatrioti, ritirandosi della patria reale e dai suoi abitanti, i civili. Schonwercker scriveva: “Il fronte è diventato la nostra patria”, e parate, cerimonie e commemorazioni furono i modi per tenerla in vita; saranno le nuove cerimonie religiose delle masse del dopoguerra, ancora più nazionalizzate e secolarizzate, divenute ormai devote allo Stato, alla Classe o alla Razza. Si può ben capire, in conclusione, che la I guerra mondiale non fu l’evento “positivo”, seguito, inspiegabilmente, da eventi negativi, che la storiografia di regime ha spesso presentato, con la stessa retorica con cui veniva descritto il Risorgimento, quanto la madre, oltre ogni altra considerazione, dei totalitarismi novecenteschi. Masse di diseredati, di reduci, di mutilati, di nevrotici, di schizofrenici, di uomini che la guerra aveva impoverito ed abbruttito, che le industrie belliche avevano strappato alla campagna, per alienarli nella vita di fabbrica, che avrebbero trasformato l’esperienza della guerra in esperienza assoluta, la politica in “religione civile”, la violenza in ideale: queste furono le masse che appoggiarono i dittatori del novecento, spesso senza neppure conoscere il programma, le idee, i riferimenti di coloro che si apprestavano a seguire.
Apparvero sulla scena masse disordinate, disarticolate, incapaci di un progetto che non fosse la distruzione fine a se stessa, il prolungamento dell’odio bellico in tempo di pace (Lenin aveva spiegato ai suoi che occorreva porre fine alla guerra con la Germania, per poter dar vita ad una “guerra civile”, e così accadrà anche altrove). Queste masse, secondo Maurizio Blondet (che in NoGlobal, Ares, le vede riemergere nel movimento del ’68 e nell’attuale movimento no-global), compaiono talora sulla scena della storia come locuste, magari controllate da poteri più forti, per realizzare la loro ansia distruttrice ed essere poi accantonate da abili manovratori: nella Russia del 1917 ad es. tolstoiani, pacifisti, nichilisti, praticanti di yoga, vegetariani, terroristi e anarchici si gettarono nelle strade, preparando la vittoria bolscevica. Ma una volta andato al potere, Lenin si sbarazzò di queste masse informi, accantonandole oppure, addirittura, sterminandole.
“Una simile emersione esplosiva delle locuste umane precedette anche l’avvento del Terzo Reich, a riprova del fatto che l’ideologia è, per la locusta antropologica, intercambiabile. Nei giorni dell’agonia di Weimar si vide a Berlino, tra saccheggiatori bolscevichi, anarchici attentatori, corpi franchi, reduci e teppisti armati, una strana genia: “indiani metropolitani” col viso dipinto e penne sul capo a modo dei pellerossa, predicatori di licenze sodomitiche per la gioventù, progenitori di hippies e di punk in stracci colorati. Uno di questi gruppi si chiamava Wandervogel, Uccelli Migratori: cultori della natura, nudisti, sodomiti…Pochi mesi dopo questi variopinti personaggi, smesso l’orecchino al lobo, le penne sui capelli e le facce dipinte, sarebbero riapparsi - inquadrati, stivalati, in camicia bruna - nei battaglioni delle SA… Interrogati questi ribelli “liberati” sul perché si fossero messi al servizio di Hitler, rispondevano: ‘Ma è uno di noi’ ”.
Analogamente accadde in Italia, dove il mito nazionalista prese forza intorno alla figura di D’Annunzio, il poeta amante della magia, degli amuleti, della religiosità indiana. Costui partì, col suo seguito, per Fiume, “dopo una cerimonia negromantica in un cimitero di Venezia…Lui e dei suoi amici anarchici scrissero la Costituzione che dichiarava la musica essere il principio centrale dello Stato. La marina (formata da disertori e sindacalisti anarchici milanesi) si chiamò Uscocchi, in memoria dei pirati da tempo scomparsi…Artisti, bohemien, avventurieri, anarchici (D’Annunzio corrispondeva con Malatesta), fuggitivi e rifugiati apolidi, omosessuali, dandy militari (l’uniforme nera con teschio e tibie, più tardi rubata dalle SS), e strambi riformatori di ogni tipo (compresi Buddisti, Teosofisti e Vedantisti) iniziarono ad arrivare in massa a Fiume. La festa non finiva mai. Ogni mattina D’Annunzio leggeva una poesia e proclami dal suo balcone: ogni sera un concerto, poi fuochi d’artificio”. Queste locuste, questo Quinto Stato, come Blondet lo chiama, sono i calcinacci rimasti dopo la distruzione del vecchio mondo, dei vecchi ideali e della vecchia Fede.
Al novecento rimane, come dicevano gli scapigliati, “l’eredità del dubbio e dell’ignoto”, e la follia irrazionale è la conseguenza di questa eredità: “quando un gran numero di persone sono afflitte dal dubbio, dall’angoscia, dalla noia, dalla mancanza di uno scopo, o qualunque sia il termine da applicare a una condizione di insicurezza mentale, i loro tentativi di fornire spiegazioni soddisfacenti della condizione umana assumono un ritmo frenetico. E’ in una tale situazione di crisi che inizia la lotta per l’irrazionale” (“Il sistema occulto”, James Webb), e che l’irrazionale può divenire religione. Alla luce di quanto detto è dunque una semplificazione della “storiografia scolastica” la distinzione netta tra fascisti e antifascisti, in Italia, tra nazisti e comunisti in Germania, tra comunisti e altri movimenti in Russia.
Figli del loro tempo, di incertezze, di decadenza, di ideologie, molti si trovarono spesso ad arruolarsi in questo o quel movimento violento, nello squadrismo fascista o nelle guardie rosse comuniste, nelle Sa naziste o negli Spartachisti comunisti, senza altra convinzione che quella che occorresse cambiare lo stato attuale di cose, rovesciarlo. I moventi furono ancora l’odio, lo scontento, le nevrosi, l’ideologia di un mondo nuovo, per cui la salvezza per l’uomo, per la sua vita, la risposta a tutto, sarebbe venuta dalla rifondazione dell’Impero Romano, dalla Nazione, per i fascisti, dalla fusione tra socialismo, nazionalismo e razzismo, per i nazisti, dalla creazione di nuovi rapporti economici, materiali, per i comunisti. Solo così, alla luce del messianismo tipico di ogni ideologia - quello, più moderato, fascista, quello nazista secondo cui sarebbe nato il Reich millenario, o quello comunista per cui si sarebbe realizzata la giustizia sociale sulla terra -, si possono capire apparenti paradossi, controsensi, di questo periodo storico.
Si può capire perché il socialista radicale Mussolini, uomo di punta della sinistra, sia poi divenuto capo di un partito di destra, e sia stato appoggiato da tanti ex socialisti, sindacalisti e anarchici (per fare un esempio, due grandi gerarchi come Farinacci e Arpinati provenivano l’uno dall’Unione Socialista Italiana, l’altro dal mondo dell’individualismo anarchico); perché Hitler, che fu il nemico giurato della sinistra, avesse anch’egli radici socialiste e avesse accanto a sé, tra i suoi gerarchi e tra i più alti ufficiali delle Sa, alcuni grandissimi ammiratori e lettori di Marx, che costituivano la cosiddetta sinistra del partito; perché Lenin, il capo del comunismo russo, stimasse Mussolini come l’uomo che i socialisti italiani si erano scioccamente lasciati sfuggire; perché, per concludere con un ultimo esempio, tanti ex fascisti, magari con incarichi di rilievo, sarebbero, dopo la fine della seconda guerra, da un’ideologia all’altra, dalla destra alla sinistra, senza grande difficoltà e col la stessa, granitica convinzione (basti ricordare il passato fascista di Curzio Malaparte, Davide Lajolo, Scalfari, Bocca, Ingrao, Giuseppe D’Alema, Lajolo e tanti altri).