Ritorno sull’ultimo libro di Eugenio Scalfari, “L’uomo che non credeva in Dio”. Commentavo, la volta scorsa, i capitoli in cui il giornalista parla della sua malinconia giovanile, e riparto dunque da lì. Ad un certo punto Scalfari ci racconta la sua passione per Cartesio, per Spinoza, e l’educazione paterna. Suo padre, dice, era di un moderato “laicismo massonico”, e fu al seguito di D’Annunzio nell’impresa fiumana, in quell’avventura di intellettuali, interventisti delusi, borghesi in cerca di emozioni da contrapporre alla noia esistenziale, al timore di essere fiori che non sbocceranno mai. In casa Scalfari D’Annunzio viene declamato ad alta voce, proposto come un modello, un santo laico, per così dire, della religione risorgimentale, nazionalista e supermista. Non è difficile che la prosopopea del poeta vate, lo scintillio delle sue parole, il suo protagonismo egocentrico, abbiano affascinato il giovane Eugenio, triste, ma in ricerca, come ognuno di noi, di una realizzazione personale. C’è un modo solo per essere grandi, insegnava il vate: celebrare se stessi, ottenere potere, fama e onore. Per farlo, aveva iniziato con i suoi articoli sulla “Cronaca bizantina”, raccontando e romanzando il proprio io e le proprie imprese. Non era forse stata la carta stampata ad alimentare in lui il seme, sempre più tenace, dell’orgoglio e dell’esaltazione sfrenata dell’io? Scrivere per migliaia di persone, spiegare, vedere scritto il proprio nome e sentirlo sulla bocca di tanti…
Il quotidiano è, dalla rivoluzione francese in poi, cioè dalla sua origine, dal giornalista Marat al giornalista Mussolini, il luogo preferito dei rivoluzionari e degli egocentrici (il che è lo stesso). Anche il giovane Eugenio, come D’Annunzio, esordisce scrivendo, e lo fa sui giornaletti del regime: è fascista, e lo rimarrà, per undici anni, con slanci impetuosi. Niente di strano, per carità: occorre sempre una fede, per vivere, e nell’Italia secolarizzata di allora in tanti la trovarono nel duce, prima, e talora nel comunismo, poi. Forse a quell’epoca, con quei modelli, Scalfari si buscò la malattia che lui stesso descrive: l’attrazione per il demone della politica, e, correlata, quella per il giornalismo. Una passione, quest’ultima, che Scalfari, con grande onestà e saggezza, descrive come qualcosa che dà “una sorta di ebrezza, un senso di potenza” molto forte: “io lo ho provato quel senso di potenza e non rappresenta un’eccezione ma piuttosto la regola”. Quando dal pulpito del quotidiano giudichi ogni cosa, da buon tuttologo, e ti poni al di sopra del potere stesso, per auto-investitura, è inevitabile che “ti appassioni all’ebbrezza del potere”. Allora, con la penna in mano, “aspiri ad essere il più bravo... Il più aggressivo. Il più irriducibile”. Ricordate i giacobini? I Desmoulins, i Marat, e tutti quei personaggi feroci che innalzeranno le ghigliottine: quanti avevano cominciato come giornalisti “irriducibili”? Non odio dell’iniquità e desiderio di giustizia, sovente, ma la vecchia, atea, dannunziana, fascista, “volontà di potenza”: “la volontà di potenza e l’affetto per il potere rappresentano l’elemento che meglio caratterizza la nostra specie”, scrive Scalfari. Del resto, cosa ci stiamo a fare, qui, sulla terra, se non per affermare il nostro io, il desiderio di potere terreno, se un senso e un Dio ultraterreno non esistono? Col tempo Scalfari, da funzionario di banca, diventerà cofondatore di due influenti giornali, Repubblica ed Espresso. Accanto a lui personalità di quel mondo borghese, illuminato, liberal radicale, che certo non amava l’Italia cattolica e democristiana: l’anticlericale Ernesto Rossi, il repubblicano Ugo La Malfa, azionisti, Adolfo Tino, futuro presidente di Mediobanca, Adriano Olivetti…e Raffaele Mattioli, il dominus della banca Comit, che Andreotti ebbe a definire un “anticlericale in servizio permanete effettivo”. Proprio Mattioli, che fu interventista e fiumano anch’egli, appare, nella descrizione che ne fa Giancarlo Galli, ne “Il banchiere eretico”, come un rappresentante esemplare di quel mondo che si riconosceva e che continuerà a riconoscersi in Repubblica. Mattioli era vicino, da una parte ai partiti della destra liberale, laica e capitalista, dall’altra era amico di Palmiro Togliatti, pronto a finanziare la sinistra, e le sue iniziative culturali, perché le considerava “l’unico baluardo filosofico contro l’invadente clericume”.
Anche Mattioli conosceva bene “la brama per il potere”, sebbene la esercitasse, da banchiere, con discrezione. Un po’ come Scalfari, di cui Perna, autore di “Eugenio Scalfari, una vita per il potere”, racconta che già nel 1942 aveva scritto un articolo intitolato “Volontà di potenza”, sulle magnifiche sorti dell’impero e della razza italiani. Mattioli è morto, non prima di aver perso molta della sua influenza, Mussolini è finito come sappiamo, nella casa-museo di D’Annunzio rimane l’eco di un io ipertofico, e triste, e l’impero italiano non è mai nato. Ecco perché Scalfari, nutrito dall’ego cartesiano, che si autofonda, dall’io di D’Annunzio, che si fa Dio, dal relativismo gnoseologico ed etico, che assolutizza l’io come unico metro di giudizio, e dall’ebbrezza egotica del potere giornalistico, finisce nel suo libro per dannare con rabbia l’ “io”, per volerne la distruzione, per definirlo “gabbia”, “capriccioso dittatore”, o “prigioniero”. L’io come brama insaziabile di potere, l’io relativista, che non si relaziona con la Verità, perché ha sè come centro e come scopo, insomma, l’io che si fa Dio, è veramente la più grande schiavitù che un uomo possa infliggersi.