L’appello del fratello della Schiavo a Beppino Englaro: tua figlia ha diritto di vivere
"Non ho alcun dubbio che mi sorella fosse assolutamente consapevole di tutto quello che succedeva attorno a lei e che abbia sofferto» « L e parole 'rimuovere il sondino dell’alimentazione' sembrano preludere a un’azione innocua. Non è così. Io e i miei genitori abbiamo visto morire Terri lentamente, di un’agonia atroce, le labbra spaccate dalla mancanza d’acqua, il corpo devastato dall’inedia».
La notizia della sentenza su Eluana, che è arrivata in questi giorni anche nella sede della Terri Schiavo Foundation, a Saint Petersburg in Florida, ha scosso il fratello della donna, Bobby Schindler. Che, con la sorella minore Suzanne, dal 2005 è mobilitato sul fronte dei diritti delle persone che versano nelle condizioni di Terri. E che lancia un appello a Beppino Englaro: «Eluana ha il diritto di vivere».
Signor Schindler, lei e la sua famiglia siete a conoscenza di quello che sta succedendo in Italia in merito alla vicenda di Eluana Englaro? Sì, abbiamo saputo tutto qualche giorno fa e come abbiamo scritto sul sito e nella newsletter della fondazione dedicata a mia sorella, siamo convinti che la decisione del tribunale italiano indichi come l’'etica medica' americana, che ha voluto la morte della nostra cara Terri, si stia diffondendo come un virus nella comunità internazionale, arrivando a minacciare non soltanto le persone in stato vegetativo, ma anche quelle più deboli in senso lato: i disabili, gli anziani, le persone reputate in qualche modo 'imperfette' nella rigida concezione che questa stessa etica si è data. È una deriva spaventosa, che va fermata al più presto. Parliamo della vicenda di sua sorella. Provi a descrivere le sensazioni che ha provato quando è stata emessa la sentenza definitiva, e gli è stato staccato il sondino che la alimentava. Fin dall’inizio della vicenda di Terri, l’unico desiderio che io e i miei genitori abbiamo espresso è stato quello di portarla a casa con noi, di poterci prendere cura di lei. Purtroppo ci siamo scontrati con la decisione ostinata di un giudice della Florida, George Greer, che ha deciso invece che dovesse morire di fame e di sete. Voglio sottolineare questo punto, perché quel giudice decise proprio questo: che mia sorella morisse così, senza cibo e senza acqua, e con la sua famiglia accanto, senza che nessuno di noi potesse alzare un dito per salvarla. Ci veniva impedito persino di passarle qualche cubetto di ghiaccio sulle labbra, letteralmente crepate dalla mancanza d’acqua e sanguinanti. Mi vengono ancora i brividi quando penso che mia mamma e mio papà dovettero assistere a uno spettacolo che nessun genitore dovrebbe mai vedere: la loro amata figlia ammazzata in 14 giorni e in un modo orribile e inumano. C’è anche un’altra cosa. Prego. Quel giudice, che per cinque anni si occupò del caso di mia sorella in tribunale e che alla fine l’ha condannata, non la vide mai. Non andò neanche una volta a farle visita. Crede che sua sorella abbia sofferto? C’era qualche impercettibile movimento, o cambiamento d’espressione, che vi facesse capire che sentiva la vostra vicinanza, e le carezze?
Ce n’erano cento, mille. Terri era talmente viva! Ha saputo parlarci, a modo suo, anche nelle ultime ore della sua vita, quando soffriva in maniera atroce, e forse si chiedeva perché. Soprattutto con nostra madre: con lei aveva un rapporto privilegiato, quando la accarezzava e la teneva stretta, sembrava sorridere, aveva gli occhi pieni di luce. Personalmente, non ho mai nutrito il minimo dubbio che Terri fosse assolutamente consapevole di tutto quello che avveniva attorno a lei. E che abbia sofferto la stessa sofferenza di chiunque di noi fosse affamato a morte: un’agonia impensabile, un’esperienza fisica atroce. Nelle ultime ore della sua vita facevamo fatica persino a guardare quel corpo devastato dall’inedia, mia mamma svenne più volte. Questo va detto, perché le parole 'togliere il sondino' dell’alimentazione sembrano preludere a un’azione innocua. Non è così.
Qualcuno sostiene che la vita di un’essere umano ridotto allo stato vegetativo non è più vita, non è degna di essere vissuta. Cosa ne pensa? Terri aveva avuto un trauma cerebrale profondo, ma non stava morendo. Non era affetta da un male inguaribile, non necessitava di medicine, non era malata, non c’erano dei macchinari che la tenevano in vita. Terri aveva solo bisogno di cibo e acqua per vivere, e della compassione degli altri, della compassione di cui ha bisogno una persona sana che non può mangiare e bere da sola. Non possiamo giustificare che a una persona sia tolto cibo e acqua perché qualcuno nella società ha deciso che così è più 'conveniente'. Più conveniente per chi? Quanto alla parola 'vegetativo', mi sono sempre rifiutato di usarla parlando delle condizioni di mia sorella. Mi sembra che utilizzare quel termine sia già un modo di togliere umanità alle persone come mia sorella, ed Eluana. Nel marzo 2004 Gioome vanni Paolo II ha detto: 'Un uomo, anche se malato gravemente o disabile in tutte le sue funzioni, è sempre e sarà sempre un uomo'. Credo a queste parole profondamente. Cosa si sente di dire al padre di Eluana, Beppino Englaro? Nessuno come me e i miei genitori conosce la sofferenza di quest’uomo, la profondità delle ferite che incidenti come quelli accaduti a Terri ed Eluana causano nel cuore di chi le ama. Eppure io credo che proprio queste ferite ci chiamano ad essere strumenti. Strumenti d’amore, di speranza. Strumenti di Dio. Se amiamo e ci battiamo per quelli che sono più deboli e fragili, abbiamo la grande occasione di amare e lottare per Dio stesso. Eluana ha diritto di vivere, e diritto che suo padre speri e lotti per lei. Io e i miei genitori pregheremo per lui.
«I miei genitori dovettero assistere a uno spettacolo orribile: la loro amata figlia ammazzata in un modo inumano in 14 giorni» Avvenire, 18 luglio.
SU ELUANA
La vicenda di Eluana Englaro va affrontata con estrema delicatezza e di fronte ad essa ci si deve astenere da qualsiasi giudizio, mostrando vicinanza concreta ai soggetti coinvolti ed ai loro cari, non disgiunta dalla preghiera. Alcune riflessioni sul dibattito in corso.
1)Eluana è una persona viva. Nel dicembre 2006, la Corte d’Appello di Milano aveva stabilito che “ in base alla vigente normativa Eluana è viva…”. Questo punto non è stato impugnato. La stessa Cassazione, nell’ottobre 2007, ha scritto che Eluana è una persona, eguale a qualsiasi altra. Lo ha fatto con espressioni splendide, anche se poi contraddette dalle conclusioni della decisione.
2)Eluana non è morente. Lo prova la definizione di “stato vegetativo permanente”: durevole per il tempo in cui durerà la menomazione.
3)Non è in corso un accanimento terapeutico. La Cassazione ha stabilito che la somministrazione di cibo e di bevande per via naso gastrica non è accanimento terapeutico. La rimozione del sondino farà morire Eluana di fame e di sete.
4)Confronto con casi simili. Chi salva una persona che sta cercando di suicidarsi, non commette “violenza privata”. Anzi riceve giustamente pubblici riconoscimenti. Non c’è quindi un diritto di autodeterminazione riguardo alla vita e alla morte, come è riconosciuto del resto, dalla Cassazione. A chi potrebbe obiettare che, nell’esempio proposto, non c’è un problema di cura e di consenso informato del paziente, offro un altro esempio: se l’aspirante suicida, prima di ingoiare la sostanza letale, lasciasse un messaggio in cui dicesse: “Se qualcuno mi trovasse ancora in vita, ma privo di coscienza, dispongo che non mi si curi”; che dovrà fare il medico accorso che trova l’uomo in coma e quel suo messaggio? Dovrebbe forse lasciar morire la persona in questione? Ma allora dove sta il rispetto dell’autodeterminazione, che in questo caso riguarderebbe anche le cure? Il vero giudizio, allora, che potrebbe condurre la ragazza a morte, riguarderebbe il valore della sua vita, non il rispetto della sua (presunta) volontà. Difatti, il decreto della Corte d’Appello sottolinea, a proposito di Eluana, “il venir meno dell’essenza umana” ed il carattere di “esseri umani pienamente vegetativi” di coloro per i quali non sarà più possibile un’attività psichica. Ciò, peraltro, contrasta con l’affermazione della Cassazione (16/10/2007) per la quale “Chi versa in stato vegetativo è, a tutti gli effetti, persona in senso pieno, che deve essere rispettata e tutelata nei suoi diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita”.
5)L’articolo 32 della Costituzione. La Corte d’Appello scarica sul genitore-tutore la responsabilità di decidere la morte di Eluana. La radice di ciò sta in un’errata interpretazione dell’art. 32 della Costituzione (“Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per obbligo della legge”). Si deve infatti armonizzare il diritto alla salute con il diritto a non essere sottoposti a trattamenti disumani o degradanti (art. 5 Dichiarazione Universale Diritti dell’Uomo). Ma dare da mangiare e da bere, senza che sia necessario usare violenza, è un trattamento sanitario disumano o degradante o è invece l’espressione del più elementare atteggiamento di solidarietà umana?
6)La volontà (presunta) di Eluana. Si dice che Eluana avesse manifestato – in circostanze ovviamente precedenti all’incidente che l’ha immobilizzata – la considerazione che, qualora si fosse trovata in situazione analoga a quella in cui oggi versa, avrebbe preferito interrompere i trattamenti che la tenevano in vita. Che da frasi pronunciate in occasioni diverse, per di più estrapolate dal contesto in cui furono declamate, possa desumersi una volontà attuale di Eluana in ordine all’interruzione dell’alimentazione, mi pare francamente troppo. Perché non può essere un dubbio legittimo che un soggetto, al mutare delle proprie condizioni, muti pure il parere manifestato un tempo (corollario pure questo della libertà individuale che fonda l’autodeterminazione)? Basta entrare in ospedale e vedere come molti si riattaccano alla vita, pur contro ogni speranza, in condizione deplorate poche ore prima. Perché ci si dimentica, in questi casi vitali, del c.d. principio di precauzione?
7)Il principio d’eguaglianza e la dignità umana. Tutte le persone sono eguali in dignità e questa è inerente all’essere umano, non è una qualità che si aggiunge all’esistenza, nel senso che può esserci o meno. Il diritto alla vita è la prima ineliminabile espressione della dignità umana. Ogni vita vale allo stesso modo, quale che sia la condizione in cui si trova. La dignità umana non dipende da ciò che pensa qualcuno, fosse anche la stessa persona titolare del diritto alla vita. Per cui, il più grave errore compiuto nella vicenda giudiziaria di Eluana è stato portare l’indagine decisiva su ciò che la ragazza pensava della dignità umana. In tal modo la dignità diventa un dato variabile e soggettivo. Così si rischia di minare le fondamenta di una civiltà, a scapito dei più deboli Pino Morandini
LOTTIAMO PER ELUANA, MA IL TESTAMENTO BIOLOGICO PER LEGGE NON E' LA SOLUZIONE
Mentre ci auguriamo ancora che Eluana sia lasciata vivere fino alla sua morte naturale, quella giusta, per natura, non calcolata, né procurata da mani d’uomo, non decisa da giudici che autorizzano il tutore a porle fine, non possiamo astenerci dal commentare le voci ormai corali, che inneggiano alla necessità di una legge sul testamento biologico nel nostro paese a risoluzione dei problemi che riguardano le modalità di un morire inattuale perché futuro. Già in precedenti occasioni abbiamo avuto modo di dissentire su questa necessità. Anche oggi vogliamo farlo. Non è ragionevole programmare oggi come sarà la nostra morte un giorno, semplicemente perché non possiamo prevederla nei tempi e nei modi. Alla radice di ogni discussione sul tema sta questo: non potrà mai esistere una legge che assicuri il malato da indebite violenze –l’accanimento, ma anche e soprattutto l’abbandono terapeutico - se il clima culturale e la formazione della classe medica sono quelle attuali: una legge non compie un rapporto umano; semmai stabilisce regole dentro le quali il rapporto dovrà giocarsi, ma in mancanza di un rapporto le regole diventano solo pericolose, abilitano a una distanza, sancita per legge, che in termini di assistenza potrebbe significare una valutazione clinica inappropriata e basata più sull’esistenza di un documento che sulle condizioni cliniche oggettive del malato. (O’Neill D.,Lancet. 2001 Dec 8;358(9297):1921-2).
E’ quanto viene ipotizzato da questo studio dell'Università Johns Hopkins di Baltimora e della Scuola di medicina Monte Sinai di New York. Dalla ricerca, svolta mediante interviste a 241 medici su casi ipotetici di malati, risulta che i medici intervistati sono meno propensi a praticare terapie sia complesse, come l’appoggio in terapia intensiva, che più semplici, come la trasfusione di sangue, quando curano pazienti che hanno sottoscritto direttive anticipate in occasione di interventi cardiopolmonari, rispetto ad altri che non le hanno sottoscritte. "Queste decisioni andrebbero prese" spiega Mary Catherine Beach, ricercatrice, "solo dopo aver discusso a lungo insieme al paziente gli scopi della terapia, per poter compiere scelte più specifiche e rispondenti al volere del paziente stesso. "M.C.Beach, The effect of Do-Not-Resuscitate Orders on Physician Decision Making, J.Am.Geriatr.Soc. 2002;50:2057-61) E poi di cosa stiamo parlando? Di un bisogno vero della persona o di un bisogno indotto dall’ideologia dell’autodeterminazione? Nei paesi che hanno introdotto il testamento biologico per legge la percentuale di adesioni è rispettivamente del 15% della popolazione in America, del 8-10% in Germania. Dopo più di 15 anni negli USA ha un testamento biologico solo la popolazione senile, perché i giovani non pensano alla morte. “In questo caso, pertanto, il testamento biologico è sostanzialmente fallito, non ha risposto alle aspettative”. (Howard Doyle, Albert Einstein College of Medicine di New York, incontro del 27 luglio 2006 in Commissione Sanità del Senato). Il Codice Deontologico 2006 contiene già indicazioni adeguate per affrontare queste tematiche e ribadisce come al centro ci sia sempre il rapporto fiduciale tra medico e paziente. Sta in buona misura al medico la libertà di riconoscere la dignità oggettiva del malato e non burocratizzare il rapporto limitandolo all’atto tecnico. Nel relativismo etico che costituisce la nostra epoca, noi vogliamo continuare a fare i medici determinati solo dal motivo per cui avevamo iniziato il nostro lavoro: essere interessati, coinvolti con il nostro paziente, in ogni scelta. Occorre educare i giovani medici a questo, formare a questo dentro l’aspetto tecnico, perché chi si ha davanti è un uomo che va assistito secondo la nostra specifica competenza, tutta da imparare e costruire ogni giorno. Una legge non crea questa coscienza, semmai esprime la mentalità da cui deriva e la consolida. E nemmeno sconfiggeremo il relativismo etico con una legge, questo è fuori di dubbio. Potremo forse solo ritardarne gli effetti devastanti sulla società e sulla nostra professione. In ogni caso, se una legge dovesse avere attuazione, non staremo con le mani in mano e sapremo trovare spazio su punti irrinunciabili: per noi e per i nostri pazienti.
Editoriale a cura di C. Isimbaldi