Quella sfida educativa che il Paese deve vincere
Tempo di fine scuola, tempo di prese di posizione del ministro della Pubblica Istruzione: è quasi un rito, che però assume un particolare rilievo quando il titolare del Dicastero è al suo esordio nel ruolo. Aggiungiamo subito che di questi tempi l’attesa è quasi palpitante, perché la scuola si rivela, una volta di più, un sensibile termometro delle difficoltà sociali. Del resto educare significa trasmettere valori e stili di vita, e quando non si riesce a tenere sotto controllo questi ambiti, i primi a risentirne sono, come è ovvio, i ragazzi.
Ha fatto dunque bene la ministro Gelmini a parlare da subito forte e chiaro: la sua proclamata decisione di «aggredire le iniquità del sistema, mediocre nell’erogazione dei compensi, mediocre nei risultati, mediocre nelle speranze» è quanto ci si attende.
Il ministro prende di petto la questione salariale e fa bene, purché non si trasformi in una demagogica ricerca del consenso, peggio, promettendo senza avere la forza di mantenere. Sono anni che si nota quanto gli insegnanti siano malpagati e giustamente il responsabile della Pubblica Istruzione ha richiamato il parallelo con i livelli salariali dei Paesi Ocse. In una società come la nostra, in cui il valore di una posizione e il suo prestigio si misurano anche dalla remunerazione che le viene attribuita, non affrontare questo tema significa mettere in difficoltà la stessa credibilità della funzione pedagogica.
Però bisogna anche essere onesti e dire che non si deve pagare una “uniforme”, un “grado”, come si direbbe “a prescindere”, cioè senza tenere conto della qualità e dell’impegno che i singoli mettono nell’assolvere al loro compito. Senza generalizzare e anzi riconoscendo il lavoro umile e appassionato di tanti, va ricordato che non mancano, né sono pochi, i casi di rifugio nell’insegnamento di gente con scarsa vocazione, i casi di assenteismo e lassismo, i casi di scuole dove di educazione e di preparazione non se ne acquisisce molta.
Il ministro ha giustamente detto che quel rigore nel misurare il merito che si pretende verso gli studenti (e la Gelmini ha fatto bene a tenere duro in tema di recupero dei debiti) va applicato anche verso i professori, che hanno il diritto ad essere trattati molto meglio, ma da cui si deve esigere un servizio all’altezza dei bisogni dell’istruzione in un mondo complicato come il nostro (per esempio con un aggiornamento continuo: questo è davvero un punto dolente, a cui è dovuta non in ultimo molta impreparazione dei nostri ragazzi).
E qui naturalmente cominciano i problemi, perché per dare in base al merito bisogna essere in grado di valutare e di farlo con tutte le garanzie di obiettività. Purtroppo su questo terreno in Italia siamo messi male. Nessuno si fida di essere sottoposto ad un esame, perché lo ritiene viziato in partenza, sicché si montano macchine complicatissime ed ipergarantiste che danno come risultato giudizi farraginosi e piatti. Così si finisce quasi sempre con il distribuire un po’ di benefici a pioggia.
Naturalmente tutti speriamo che questa volta non sia così, perché davvero non ce lo possiamo più permettere. La promozione del merito non è più solo un imperativo morale (e già sarebbe una cosa piuttosto importante), ma è ormai la condizione per far sopravvivere la competitività del Paese in un contesto di crisi generalizzata. Senza punte di eccellenza che trainano poi inevitabilmente con un sé un alto standard medio, non si salva quella posizione di primo piano che la fatica delle generazioni precedenti ha conquistato per l’Italia.
Il ministro ha parlato anche di bullismo ed ha promesso tolleranza zero. Sembrerebbe un’altra questione, ma invece stiamo sempre parlando della stessa cosa. Il bullismo è la ricerca di protagonismo da parte della noia di vivere, la creazione di prepotenza quando non si è più capaci di sviluppare potenza, la riduzione dell’esperienza alla ripetizione del videogioco alla moda perché cosa sia una vera, intensa esperienza di vita non lo si sa più.
Il ritrovare la dimensione della “serietà” dello studio, come il ministro ha detto citando con un po’ di civetteria Gramsci, è la premessa per ritrovare la serietà della vita, che è poi quello che dà senso allo studio e lo toglie dalla dimensione del “nozionismo”, che non è dato dall’imparare delle nozioni anche a memoria (è utile e a volte necessario), ma dall’imparare nozioni che non si sa più a cosa servano se non a rispondere alle regole di un gioco frusto che ci si ostina a chiamare scuola.
Tutti diciamo che così non si può andare avanti. Forse potremmo cominciare a darci tutti una mano per iniziare il cammino di un cambiamento.-
Paolo Pombeni
Il Messaggero 11 giugno 2008
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