McClellan accusa: «L'America fu ingannata sull'Iraq»
Il presidente Usa è accusato di aver fatto in modo che l'intervento militare fosse l'unica opzione
WASHINGTON — Una guerra «non necessaria» mossa in base a falsi pretesti, un «grave errore strategico » frutto di «una campagna di propaganda politica» diretta a «manipolare i mezzi d'informazione della pubblica opinione»: così Scott McClellan, per 8 anni al fianco del presidente Bush, e suo portavoce dal 2003 al 2006, descrive la guerra in Iraq in un libro bomba di memorie che potrebbe influire sulle elezioni, dal titolo Cosa è successo: dentro la Casa Bianca di Bush e la cultura dell'inganno di Washington. Bush, rivela l'ex fedelissimo pentito, decise d'invadere l'Iraq per imporgli la democrazia con la forza, trasformare il Medio Oriente, e assicurare alla regione una pace duratura, e perché vi vide un'opportunità per passare alla Storia, opportunità a suo parere concessa solo ai presidenti di guerra. Ma, sapendo che l'America non avrebbe accettato simili motivazioni, Bush addusse un'altra giustificazione, il possesso delle armi di sterminio da parte di Saddam Hussein, «ignorando l'intelligence che affermava il contrario ».
Bush «non mentì direttamente » afferma McClellan «ma colorò la verità» con insinuazioni disoneste e moniti eccessivi «gestendo la crisi in modo che l'intervento militare diventasse l'unica opzione». Se questa ricostruzione della guerra in Iraq è devastante, lo è ancora di più il ritratto che McClellan traccia del presidente e dei suoi due più fidati consiglieri, il vicepresidente Richard Cheney e l'allora direttrice del Consiglio della sicurezza nazionale «Condi» Rice. L'America si chiede, nota McClellan, «se il presidente sia solo intellettualmente distratto o se sia anche stupido».
La realtà è che «ha tutta l'intelligenza e l'abilità politica necessarie » osserva «ma si affida più all'istinto e alle sue convinzioni che all'analisi delle conseguenze, e a volte si persuade di ciò che gli fa più comodo al momento». Inoltre nella testa di Bush, prosegue McClellan, citando i suoi «non ricordo» in risposta alla domanda se avesse preso cocaina, «essere evasivo non significa mentire». Il presidente, infine, «è incapace di ammettere i propri errori e troppo ostinato per cambiare e migliorare». Difetti esasperati da Cheney, «uno stregone» deciso ad averla sempre vinta, e dalla Rice «che non lo contestò mai» e che si preoccupò soprattutto di proteggere la propria reputazione. Nelle 341 pagine di memorie non mancano quelle che evidenziano il lato migliore di Bush: l'ex portavoce lo descrive in lacrime a un incontro con un reduce dall'Iraq gravemente ferito, e commenta che «se avesse previsto i nostri 4 mila caduti e le decine di migliaia di vittime irachene non avrebbe fatto la guerra». Ma per il presidente e il suo erede in pectore, il candidato repubblicano John McCain, anche lui fautore del conflitto, il libro di McClellan è una pugnalata.
La Casa Bianca ha reagito con irritazione: «Sappiamo che l'esperienza di Scott a Washington non fu felice — ha dichiarato Dana Perino, l'attuale portavoce — è una cosa triste, non lo riconosciamo più. Il presidente non leggerà il libro, ha questioni più pressanti a cui pensare». L'ex guru elettorale di Bush, Karl Rove, accusato da McClellan di essere stato l'anima nera dell'amministrazione, ha commentato: «Scott sembra un blogger di estrema sinistra». McClellan appartiene a un'illustre dinastia politica texana, padre e madre figurano ancora tra i leader repubblicani. Nel libro spiega il perché della sua ribellione, qualcuno dice del suo tradimento: «Il presidente e i suoi consiglieri, in varie occasioni, mi nascosero la verità e mi spinsero a mentire ai media, nei cui confronti persi ogni credibilità».Corriere della sera, 29/5/2008