Super-uomini o esemplari umani difettosi? L’uomo moderno tra nichilismo ed estetismo
«Io vengo a contraddire come mai si è contraddetto, e non di meno sono l’opposto di uno spirito negatore. Io sono un lieto messaggero, quale mai si è visto… solo a partire da me ci sono di nuovo speranze».
Con Friedrich Nietzsche, che non a caso rappresenta uno dei pensatori più amati dai giovani d’oggi, si giungerà alla negazione della libertà del volere: l’io è soltanto un contenitore disordinato di impulsi e di motivazioni che riflette tutti i disagi e la crisi dell’epoca contemporanea.
L’esperienza tragica sulla quale verte la riflessione del filosofo non sfocerà mai in una soluzione positiva: la Chiesa è, per il pensatore della “morte di Dio”, un simbolo dell’illusione umana e di quei concetti consolatori e poco vitali che impoveriscono la vita.
Anche oggi il denominatore comune della mentalità dominante è il merito attribuito al totale disincanto: il fatto di non credere a niente è ritenuto un segno del coraggio e della forza dell’uomo. L’attenzione dello sguardo non è più così rivolta, com’era in epoca classica, all’esterno, ad Altro, ma si focalizza soltanto sul proprio singolo caso, concorre all’affermazione della propria persona. Nietzsche non maschera questo individualismo, anzi, lo esprime parafrasando il linguaggio del Vangelo ma invertendolo di segno: non bisogna amare il prossimo ma «imparare ad amare se stessi» (Così parlo Zarathustra).
Nonostante le sue contraddizioni e il nichilismo di fondo della sua posizione, Nietzsche rimane senza ombra di dubbio un personaggio fuori dal coro: la sua riflessione è profondamente sentita e rappresenta l’espressione della propria esperienza esistenziale,
Il vero dramma si verifica quando, a elevare a schema di pensiero le sue posizioni, sono coloro che aderiscono con entusiasmo alla teoria del superuomo, ma che non percepiscono con la stessa profondità la tensione tragica che ha spinto il filosofo a formulare tali riflessioni. Manca, nell’uomo postmoderno, la coscienza iniziale di ciò che viene da lui riportato e riproposto al mondo intorno a sé.
Emblema dell’auto - esaltazione è, ad esempio, Gabriele D’Annunzio, seguace e sostenitore della teoria dell’oltreuomo nietzschiano: istante, immediatezza ed esteriorità sono le parole chiave dell’esperienza estetica.
Egli coglie soprattutto l’idea del superuomo come affermazione di individualismo, di volontà di potenza. Il vero esteta diviene così colui che è in grado di maneggiare le folle e di distinguersi dalla massa. Il superuomo non possiede nessun legale, è superiore a tutto e a tutti, è padrone di sé e posto “al di là del bene e del male”. Tom Antongini, il segretario personale del poeta, racconta nel suo libro “Vita segreta di D’Annunzio”: «Quando D’Annunzio accenna a tutto quello che la gente fa o dice, usa queste frasi curiose ‘Voi che dite questo…Voi che fate questo…’ oppure ‘Come dite voi…Come fate voi…’. E, intendiamoci, non si rivolge, dicendo così, ai soli italiani, ma al mondo intero. Dal che si dovrebbe dedurre che egli consideri l’umanità come divisa in due sezioni: Gabriele D’Annunzio da una parte e il resto dall’altra. Prova, questa, di una sua persistente aderenza alle teorie di Nietzsche, che arriva al punto di dichiarare che un giorno la storia dell’umanità sarebbe stata divisa in due grandi periodi: quello prima e quello dopo di lui»1.
D’Annunzio coniò la famosa espressione «fare della propria vita come di un’opera d’arte» per indicare questa ricerca continua e quasi ossessiva di nuove sensazioni, spesso anche ai margini dello scandalo.
Il vero esteta deve inoltre essere appassionato di arte, la forma suprema del bello. Questo comporta però una perdita di spontaneità, un calcolo minuzioso per ricavare il massimo dalle situazioni, falsità, artificio e attenzione alla preparazione di luoghi e contesti.
Ritroviamo qui un altro concetto cardine della “filosofia estetica”: l’enorme disprezzo nei confronti della massa dalla quale D’Annunzio-esteta emerge, ma rispetto alla quale non si isola, anzi vive sempre al centro della scena per dimostrare di essere diverso e migliore.
A questo proposito, la superiorità ostentata lo portò a far attendere Mussolini nella stanza degli ospiti (la Stanza del mascheraio), lasciandolo a contemplare, per due ore, la scritta collocata sopra allo specchio: «Al visitatore: Teco porti lo specchio di Narciso?/ Questo è piombato vetro, o mascheraio./ Aggiusta le tue maschere al tuo viso/ ma pensa che sei vetro contro acciaio»2.
La visione edonistica che lo scrittore ha del mondo si traduce nelle più svariate forme, ma singolare è l’aspetto della sostituzione Dio – uomo che viene manifestata con decisione in una sua particolare creazione. Infatti, all’interno del Vittoriale, l’enorme dimora in cui lo scrittore trascorre gli ultimi anni della sua vita, vi è la Stanza del Lebbroso, un luogo ascetico e mortuario, allestito per l’esposizione della sua salma (il che avviene nella notte fra l’1 e il 2 marzo 1938). Il Letto del lebbroso è chiamato da D’Annunzio, “Letto delle due età”, «quasi culla e quasi bara», sopra il quale possiamo osservare un dipinto di Guido Cadolin raffigurante San Francesco che abbraccia D’Annunzio lebbroso.
Perché il lebbroso, a cui la stanza s’intitola, è proprio lui, il poeta, che così si definisce rinnovando la credenza medievale secondo la quale il lebbroso è toccato da Dio, e quindi sacro.
Nella stanza vi è anche un San Sebastiano ligneo del XVI secolo: D’Annunzio ha scritto nella lingua d’oltralpe l’opera Le martyre de Saint Sébastien, ma, nonostante l’interesse dimostrato nei confronti di una tematica religiosa, non è mai stato credente.
Ironicamente, ma con molto realismo, Charles Péguy scriverà che «San Sebastiano è il patrono di tutti, tranne che di D’Annunzio»3.
Una vita spesa per raggiungere fama e successo e per imporre il proprio io al di sopra e al centro di tutto è un cammino volto al (calcolo del) godimento in ogni esperienza della vita: non esiste che il presente, ed il presente sganciato da passato e da futuro non comporta nessuna continuità e dunque nessuna responsabilità.
Una bellissima ed acuta testimonianza di ciò che questa tipologia di vita comporta ci è data dalla riflessione di un filosofo dell’800: S. A. Kierkegaard afferma che la forma a priori della vita estetica più raffinata è la disperazione dovuta alla consapevolezza del proprio stile di vita basato sul nulla dell’esistenza, sull’assenza di un suo valore intrinseco.
Scrive infatti: «L’esteta. Riguardo al godimento stai in un atteggiamento di orgoglio assolutamente aristocratico; quello per cui tu sei soddisfatto è l’assoluta insoddisfazione. Io non voglio ora unirmi alle critiche che sento spesso fare sul tuo conto, che sei insaziabile; preferisco dire: in un certo senso hai ragione; nulla di finito, infatti, nemmeno l’intero mondo può soddisfare l’animo umano, che sente il bisogno dell’eterno».
L’elemento commovente del pensiero del filosofo è la scoperta di una positività nella vita estetica: l’esteta, infatti, nel suo desiderio di numerose e sempre nuove sensazioni, cerca una risposta di senso assoluto, vuol dare un senso alla sua vita e per questo si impegna. Pensiamo, ad esempio, all’attivismo politico in D’Annunzio.
Cercando di possedere tutto, però, l’uomo che rifiuta Dio finisce per non scegliere niente: scegliere tutto equivale ad affermare che nulla ha realmente valore.
Qual è quindi lo stato d’animo che prevale nella persona che sceglie questo percorso di vita? Continuando a rivolgersi all’esteta, Kierkegaard afferma: «Non credere che io voglia entrare nei tuoi segreti, ma vorrei soltanto farti una domanda; rispondi una buona volta, sinceramente e senza tante digressioni: ridi veramente quando sei solo? […] Verrà un momento in cui si deve una buona volta cominciare a vivere. Allora è molto pericoloso essersi frammentati in modo tale da non potersi quasi più raccogliere e si corre il rischio, nella furia e nella fretta, di non poter prendere tutto con sé. E, come conclusione, invece di diventare una persona eccezionale, si diventa un esemplare umano difettoso»4.
L’uomo che si concentra unicamente su di sé e sulla propria affermazione alla fine si perde, si sente svuotato.
Cristo è per Kierkegaard l’unico interprete della “tragedia assoluta”, poiché ha assunto su di sé responsabilmente non il suo peccato, ma quello del “mondo intero”. La religione supera il tragico e la disperazione in quanto mette al centro Dio: la posizione dell’uomo di fede è liberante poiché non sono più le circostanze a decidere per lui e non è più il caso ad avere l’arbitrio di operare delle scelte.
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