Guareschi era soprattutto un uomo libero. Odiato dai politici di destra e di sinistra. I figli di Guareschi hanno voluto ricordarne le opere e la memoria
Giovannino Guareschi è nato cento anni fa, il primo maggio. Ha venduto venti milioni di copie all’estero. Nessuno più di lui. Guareschi era soprattutto un uomo libero. Odiato dai politici di destra e di sinistra. I figli di Guareschi hanno voluto ricordarne le opere e la memoria con “Il club dei ventitrè” che ha la sua sede a Roncole Verdi. Chi è iscritto riceve periodicamente un giornale, il Fogliaccio, dedicato a Giovannino. Nell’ultimo numero i figli raccontano la sua vita. Guareschi passò due anni nei lager tedeschi per essersi rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò. Per ricompensa i governi democristiani lo condannarono due volte. La seconda per aver pubblicato due lettere attribuite a De Gasperi che ne ipotizzavano il coinvolgimento in una richiesta di bombardamenti americani per demoralizzare i collaboratori dei tedeschi. Guareschi fu condannato a 409 giorni di carcere per non aver voluto ricorrere in appello.
Dal Fogliaccio numero 53, aprile 2008:
“Poi una domenica pomeriggio ricevette la visita di una persona che doveva consegnargli dei documenti: le fotocopie di due lettere di De Gasperi che pubblicò il 20 e il 27 gennaio 1954 con un duro commento. Nei primi giorni di febbraio De Gasperi querela nostro padre. Viene istruito il processo e, dopo due rinvii, il 13 e il 14 aprile hanno luogo la seconda e la terza udienza e il 15 aprile viene condannato a dodici mesi per diffamazione. Non ricorre in appello e il 26 maggio entra nel carcere di San Francesco di Parma, dal quale uscirà il 4 luglio 1955 (409 giorni) in libertà vigilata. Il 26 gennaio 1956 termina la libertà vigilata. Il nostro commento: nostro padre, querelato da De Gasperi con ampia facoltà di prova, consegnò al Tribunale le lettere accompagnate da una perizia calligrafica che ne attestava l’autenticità e che non venne tenuta in considerazione. Nel procedimento l’ampia facoltà di prova, in pratica, gli fu negata perché non gli furono concessi né le nuove perizie né l’ascolto di testimoni a suo favore. Sulla base delle testimonianze a favore di De Gasperi, del suo alibi morale e del suo giuramento che le lettere erano false, il Tribunale decise di aver raggiunto la “prova storica” del falso, condannandolo a un anno di carcere per diffamazione. La sentenza metteva in evidenza il fatto che, anche nel caso di una perizia grafica favorevole all’imputato, “una semplice affermazione del perito non avrebbe potuto far diventare credibile e certo ciò che obiettivamente è risultato impossibile e inverosimile”. Offeso per questa palese ingiustizia che gli aveva impedito di difendersi decise di non ricorrere in appello. Il giorno prima della scadenza del termine per la presentazione del ricorso nostro padre era nel suo studio nella casa di via Righi a Milano dove aveva terminato il lavoro settimanale del giornale e stava per portarlo in tipografia alla Rizzoli, a due passi da casa. Nostra madre che, come la solito, lo aveva seguito a Milano, saliva nel suo studio dicendogli che giù c’era Mario Scelba (presidente del Consiglio e ministro degli Interni ad interim) che desiderava parlargli. “Digli che non posso scendere perché devo finire il giornale” le disse, e così nostra madre riferiva a Scelba il quale, dopo una lunga inutile attesa di un paio d’ore, se ne andava furioso. I nostri genitori ritornano alle Roncole dove incontrano, con un paio d’ore di ritardo, Pòlden Sgavetta, il falegname di famiglia con il quale avevano un appuntamento a casa sua per il pranzo. Nostro padre spiega a Pòlden la ragione del ritardo concludendo:” Io ho continuato a camminare avanti e indietro nello studio per due ore e ho fumato due pacchetti di sigarette, ma quel… se ne è andato con le pive nel sacco. Perché” conclude “Scelba avrebbe voluto convincermi a ricorrere in appello perché sicuramente era pronta una assoluzione per insufficienza di prove”. Assoluzione che, per uno che ha la coda di paglia, poteva andare bene ma per lui, che era convinto come lo siamo noi di avere ragione in quanto le lettere erano autentiche, sarebbe stata infamante perché avrebbe lasciato su di lui l’ombra del dubbio…
Quando andavamo ai colloqui quindicinali (in carcere ndr) lui sorridente ci diceva che andava tutto bene, che tutti erano gentili con lui. Anche noi fingevamo di non avere problemi. A casa? A scuola? Tutto bene. Era una specie di gioco delle parti. Quando andavamo via, nostra madre spesso si chiudeva nella sua stanza a piangere. Mai però si sarebbe fatta vedere in lacrime da noi, per non renderci più tristi di quanto già eravamo”. I figli di Guareschi
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