Dicono che i giovani di oggi soffrono di scarsa autostima: molti sono intasati di paure, intristiti dalla sfiducia, minati dallo sconforto. E allora giù corsi e ricorsi sull’importanza dell’autostima, per insegnanti ed alunni. Come se stare un po’ bene con se stessi fosse una questione di tecniche o di metodi; come se l’autostima dovesse risolversi in una forma di orgoglio umano, in una sorta di auto-convincimento a base di mantra consolatori e di auto-affermazioni della propria bravura. Non so quale fosse l’autostima dei santi, di quelli che non avevano nessun dubbio di non andare in paradiso, e di quelli che invece sino all’ultimo, nonostante una vita meravigliosa, temevano di non meritare la corona eterna. Certamente posavano la loro fiducia su qualcosa di più grande di quella che noi, oggi, chiamano, appunto, autostima. Perché avere una alta considerazione naturalistica di se stessi, mi sembra un’illusione puerile, piuttosto che una marcia in più. Se penso alla mia infanzia, ricordo qualcosa che è servito certamente a farmi maturare, a far sì che mi sentissi non dico utile, e neppure buono, ma vivo, quello sì. Mio padre mi aveva insegnato a fare piccole rinunce, i famosi fioretti, e li ricompensava con qualche soldo, da versare per i poveri bambini dell’Etiopia, ad un anziano frate, che vedevo girare, come fra Galdino, a fare la questua, senza calze, magro magro, con un sorriso stampato sempre sulla bocca, sempre nuovo e profondo. Lui non aveva forse idea dell’autostima come viene definita oggi nei manuali ad hoc, ma certamente era sereno, in pace con Dio e con se stesso. Con quei soldi, mi diceva mio padre, aiuti un bambino povero per una intera settimana. Probabilmente, con tre o quattro fioretti, credevo di salvare un paese intero; forse mi sarò anche un po’ montato la testa, ma certo venivo educato alla bellezza del bene, al sacrificio, al senso della carità.
Tutti antidoti fortissimi alla tentazione nichilista presente nell’uomo: la tentazione di ritenere questa vita un “trito scialo di fatti, vano, più che crudele” (Montale). Non sospettavo, intendo, facendo qualcosa per gli altri, che essi fossero solo “incidenti congelati”, espressioni fantasiose del caso, come un celebre scienziato odierno definisce gli esseri umani. Non ritenevo insomma che tutto fosse vano, l’amore del buon frate, il mio piccolo contributo, e l’amore immenso, sino alla morte di croce, di Cristo, per me, per lui e per i poveri bambini etiopi. Così, con una piccola rinuncia, dicendo no a me stesso, mi “trovavo”, afferravo qualcosa di profondo, gioivo, costruivo, anche così, ne sono sicuro, non la mia “autostima”, ma la mia fiducia, vera perché non fondata su di me, ma su di un Altro. L’elemosina ai poveri, in verità, è sempre stato un dovere dei cristiani, sin dai primi secoli. I padri cappadoci ritenevano addirittura che l’elemosina fosse più importante del digiuno e della preghiera. Gregorio di Nazianzo scriveva che “solo la carità copre la moltitudine dei peccati”, e san Tommaso avrebbe affermato che la misericordia ci rende simili a Dio.
E’ bellissimo riscoprire come questa idea di Dio, che è di conseguenza una idea nobile di uomo, generasse casse comuni, depositi della pietà, “per nutrire e seppellire i poveri, per soccorrere i giovani e le ragazze che non hanno né soldi né genitori”. I vescovi avevano addirittura dei registri su cui venivano scritti i nomi dei poveri, i “poveri immatricolati”, da aggiornare e da controllare di continuo. Era tanto alacre e tanto contagiosa questa carità che Giuliano l’Apostata , in una lettera ad Arsace, sacerdote addetto al culto della Gran madre, nel 362, confidava di ritenere che i cristiani andassero combattuti sul loro stesso terreno, imitandoli nella sobrietà e nella benevolenza verso pellegrini, poveri e infermi. Carità, misericordia, elemosina, ci ricordano sempre cosa è l’uomo, la compassione che Dio stesso ha avuto per lui, quindi il suo scopo, la sua grandezza, il suo destino eterno. Quando Martin Lutero, col suo profondo pessimismo antropologico, con la sua cupa visione di Dio e dell’uomo, giunse a Roma, capitale mondiale della carità, degli ospedali, delle confraternite, nel gennaio 1511, rimase meravigliato per la qualità degli ospedali romani: “Gli ospedali in Italia sono ben provveduti, hanno splendide sedi, forniscono cibi e bevande ottime, il personale è assai diligente, i medici dottissimi” (Discorsi conviviali). Eppure il suo pensiero deprezzò nell’uomo proprio la capacità di operare il bene, con conseguenze storiche significative. Scriveva recentemente sul Timone Mario Arturo Iannaccone: “Secondo gli storici il periodo peggiore per i poveri giunge all’inizio dell’età moderna…la riforma protestante non attribuirà alcun valore meritorio alle opere di carità e di conseguenza saranno soprattutto i poveri degli stati protestanti a trovarsi più esposti alle ricorrenti carestie, alla fame, alla solitudine alla miseria…i poveri furono colpevolizzati e la povertà fu giudicata un segno della mancanza della grazia di Dio”…
Che la scarsa “autostima” dell’uomo di oggi derivi dal pessimismo antropologico di Lutero, di Machiavelli, di Hobbes, di Darwin, dei teorici dell’ “incidente congelato”, di coloro insomma che hanno tolto all’uomo la possibilità di essere grande, anche tramite la misericordia? Siamo certi che la soluzione sia il ricorso ad un’altra visione non realistica dell’uomo, implicita in molte teorie dell’autostima, secondo la quale egli è capace di fare il bene senza l’aiuto di Dio e della grazia? Non è forse già fallita anch’essa?