Bioetica. L’assalto dei paesi emergenti , Cina, Brasile...
Di Rassegna Stampa (del 28/04/2008 @ 18:18:36, in Bioetica, linkato 1339 volte)
Una novità di questi ultimi tempi è che l’ambito nel quale si registrano i cambiamenti scientifici e maturano le sfide etiche non è più delimitabile al solo Occidente. La portata dei mutamenti in campo bioetico – sia sul versante della ricerca, sia su quello delle applicazioni e, di riflesso, sul versante del dibattito morale, culturale, politico – investe ormai la Cina, l’India, la Corea del Sud, il Brasile, il Sudafrica, il mondo intero. A Newlands, un quartiere borghese di Città del Capo, la Cape Fertility Clinic realizza ogni anno oltre cinquecento fecondazioni in vitro, di cui un centinaio grazie a donazioni esterne. In un recente reportage, il quotidiano di Parigi “Le Figaro” ha riferito che proprio il Sudafrica sta diventando una meta internazionale ricercata da coppie con problemi di fertilità, attirate da procedure più semplici e da una legislazione meno restrittiva che in Europa o negli Stati Uniti. In Cina, nel febbraio 2005, il governo di Pechino si è rifiutato di sottoscrivere la proposta di un bando internazionale sulla clonazione umana presentata alle Nazioni Unite. Secondo il bioeticista Wang Yanguang, la società cinese non ha remore ad approvare le ricerche sugli embrioni, perché “in Cina la vita nasce quando il feto viene partorito, quindi non c’è alcun dubbio morale o etico”. In realtà – ha osservato l’agenzia cattolica “Asia News” commentando la notizia – questa mentalità è frutto di un cambiamento indotto dallo stato. Secondo la tradizione, i bambini cinesi “vivono” già nel grembo della madre, tant’è vero che i cinesi hanno sempre contato come “un anno di vita” anche i nove mesi passati nel grembo materno. La distruzione della cultura tradizionale e il ferreo controllo delle nascite garantito dalla legge sul “figlio unico”, hanno determinato un cambiamento anche culturale. Ora, nell’immensa Repubblica Popolare sono almeno trenta gli istituti statali che conducono ricerche e studi sull’ingegneria genetica, finanziati con un programma nazionale per la tecnologia lanciato nel 1986 e noto come Programma 863. Nel 2001 ben ventimila ricercatori e tecnici amministrativi sono stati associati al programma; nello stesso anno il budget per la ricerca e lo sviluppo è stato di 60 miliardi di dollari USA. Ebbene: se i traguardi raggiunti dai ricercatori cinesi nell’ambito della genetica sono considerati di alto livello e invidiati dalla comunità internazionale, c’è da immaginare che presto si parlerà della Cina non più solo a motivo dell’invasione dei suoi prodotti tessili in Europa o per via dei marchi contraffatti, bensì per sfide molto più spinose e importanti. Si aggiunga che la “deregulation” in ambito legislativo attira compagnie multinazionali e quanti sono interessati a investire in Cina approfittando delle competenze degli scienziati locali e di una libertà di movimento che ricorda il Far West. Il fatto che la Cina non firmi un accordo per vietare la clonazione umana, unito all’avanzato standard tecnologico e alla disponibilità di capitali, non può che allarmare. Cambiando latitudine la portata dei problemi non cambia. Ai primi di marzo in Brasile il congresso ha approvato a larga maggioranza e dopo un acceso dibattito dentro e fuori l’arena politica un progetto di legge sulla biosicurezza, che permette sia la produzione sia la commercializzazione di organismi transgenici. La stessa legge consente l’utilizzo delle cellule staminali di embrioni umani. La notizia è doppiamente interessante perché indicativa di quella che potrebbe diventare una tendenza generalizzata in paesi sino ad oggi considerati “arretrati”: essi, adottando più o meno disinvoltamente tecnologie avanzatissime, cercano di recuperare così il gap scientifico ed economico che li separa dall’Occidente. Da un lato, infatti, la scelta dei politici brasiliani esprime il tentativo del paese, uno tra i potenzialmente più ricchi del mondo, di adeguare la propria industria agro-alimentare alle esigenze produttive di oggi e alle sfide commerciali globali: da cui il via libera alla soia geneticamente modificata e ad altri OGM. Dall’altro lato – si badi bene, con la stessa legge – tale apertura di credito nei confronti delle nuove tecnologie genetiche si spinge sino ad includere il terreno delicatissimo dell’intervento sull’uomo. Cosa che, naturalmente, ha provocato la protesta della Chiesa cattolica, una Chiesa che, nell’immagine corrente, si occupa in Brasile soltanto dei “senza terra” o della minoranza d’origine africana. In un messaggio indirizzato alla camera dei deputati, i vescovi brasiliani hanno criticato l’uso di embrioni per ottenere cellule staminali come “un segnale di una posizione anti-etica senza precedenti nella storia umana”. Ora, va detto che proprio in Brasile da tempo si discute sui limiti della ricerca scientifica e sulle derive mercantiliste che l’abuso delle tecnologie, specie in campo bioetica, può schiudere. A Porto Alegre, capitale simbolo dei no global, nel gennaio 2005 si è svolto un seminario dal titolo: “Genetica e giustizia sociale: la politica globale della genetica umana e delle nuove tecnologie riproduttive”. Il seminario aveva tra gli organizzatori un gruppo femminista brasiliano, “Ser Muhler”, guidato da Alejandra Rotanja, la quale illustrò i pericoli a cui le nuove tecniche riproduttive espongono le donne, specialmente nel Sud del mondo, spiegando come “gli sviluppi scientifici e tecnologici stanno trasformando la vita, la natura, i corpi – le loro funzioni e i loro componenti, la loro più intima natura – in oggetti dell’ingegneria e in prodotti del mercato”. Dal Brasile all’Argentina. Nello stesso mese in cui il presidente Lula e i suoi hanno approvato la legge citata, i vescovi argentini di San Justo e di Nueve de Julio, Baldomero Martini e Martín de Elizalde, scrivevano al presidente del senato argentino, Daniel Scioli, chiedendo al congresso di non ratificare il protocollo ONU contro la discriminazione della donna, in sigla CEDAW, accusato di aprire “le porte alla legalizzazione dell’aborto”. In Messico, poche settimane dopo, la commissione della conferenza episcopale per la pastorale familiare respingeva il progetto presentato dal Partito della Rivoluzione Democratica a favore di una legalizzazione dell’eutanasia, senza troppi giri di parole: “L’eutanasia è e sarà sempre una forma di omicidio o di suicidio”. L’irruzione delle nuove, esplosive sfide bioetiche avviene in un contesto nel quale già da tempo, anche in paesi sociologicamente considerati cattolici, la società civile, le Chiese e il mondo politico si misurano con una vasta e delicata gamma di temi legati all’ambito della vita umana. Si va dall’aborto alla contraccezione nelle sue varie forme, all’eutanasia, per arrivare ai “nuovi modelli di famiglia”. A preoccupare molti è il fatti che l’approccio a questi temi viene condotto sempre più secondo gli schemi di un’“ideologia dei diritti umani” – propagandata da diverse agenzie dell’ONU oltre che da una pattuglia di ONG – di impostazione culturale neo-malthusiana e veterofemminista. Questa ideologia è stata oggetto di critica in due recenti volumi: “Contro il cristianesimo”, di Eugenia Roccella e Lucetta Scaraffia, e “Il volto nascosto dell’ONU”, di Michael Schooyans. Proprio perché slegata da riferimenti religiosi e centrata sui desideri dell’individuo, tale ideologia evita di porsi troppe remore morali di fronte alle opportunità offerte da scienza e tecnologia, adottando il principio per il quale ciò che è possibile diventa per ciò stesso virtuoso. Nell’ambito della vita e della famiglia si gioca una partita culturale di proporzioni colossali. La sfida bioetica non fa che acuirne la portata, ma si tratta di una battaglia che viene da lontano ed eredita una concezione preoccupante che si va diffondendo in tutto il mondo. Nel documento finale dell’ottava assemblea generale della loro federazione, svoltasi nell’agosto 2004 in Corea del Sud, i vescovi dell’Asia hanno espresso così le loro preoccupazioni: “Con l’avanzare di nuovi movimenti di liberazione e il crescere del pensiero neoliberale e postmoderno, altre forme di ‘famiglia’, come quelle composte da partner dello stesso sesso, cominciano lentamente ad emergere, sia pure con grande riprovazione, nei paesi asiatici più secolarizzati e liberali. Alcune di queste forme di famiglia sono allarmanti e sfidano il nostro tradizionale modo di intendere la ‘famiglia cristiana’ in cui il matrimonio sacramentale tra un uomo e una donna è la norma e il fondamento della famiglia”. Nel giugno scorso ho incontrato un vescovo cattolico della Papua Nuova Guinea e un missionario di lunga esperienza che opera a San Paolo del Brasile. Ebbene, all’insaputa l’uno dell’altro, i due hanno sciorinato una dura requisitoria proprio contro l’ideologia sopra richiamata. La loro analisi convergeva su alcuni punti. L’Occidente sta esportando il peggio di sé. ネ in atto una neo-colonizzazione non solo economica ma culturale a danno dei paesi poveri. E questa veicola una concezione dei diritti individuali slegata da qualsiasi ancoraggio religioso, con le sue derive più pericolose nell’ambito etico: fenomeno evidentissimo nei paesi poveri, che ha in alcune agenzie ONU una sorta di “longa manus”. La fecondazione artificiale – oggetto in Italia di un recente combattutissimo referendum popolare – rappresenta quindi la punta di un iceberg che insidia la vita quotidiana non solo nel ricco Occidente ma, sempre di più, nei paesi che una volta definivamo “in via di sviluppo”. E che chiama in causa anche l’insieme delle missioni cattoliche nel mondo. In verità, almeno sino ad oggi, tale mondo missionario è parso impreparato alla vastità e alla rapidità del cambiamento. Sulla stampa missionaria abbondano gli articoli critici sugli OGM, ma quando c’è di mezzo l’uomo – staminali embrionali, clonazione, eccetera – cala uno strano silenzio. Certo, si tratta di argomenti complessi per i quali è richiesta una competenza specifica. E però non si può non osservare con una certa dose di sorpresa la singolare asimmetria informativa che caratterizza la maggior parte delle testate missionarie. Il sospetto è che, in parte, sopravviva una lettura vecchia, stereotipata del Sud del mondo, come se, ad esempio, l’India fosse ancora Gandhi e Madre Teresa e non – anche – Bollywood e le punte avanzate dell’informatica. E, in secondo luogo, l’impressione è che giochi una pregiudiziale ideologica per la quale parlare di OGM è “di sinistra”, mentre occuparsi di aborto e fecondazione assistita sarebbe “di destra”. A fronte di tante prese di posizione contro la guerra in Iraq, c’è su queste riviste un silenzio di tomba a proposito di altre guerre, che nel chiuso di laboratori e cliniche sono condotte contro l’uomo. Mi auguro, paradossalmente, di aver torto. Restano, però, i fatti: ad esempio certi appelli di personalità non sospette, lasciati cadere in un assordante silenzio. Mi riferisco a Vandana Shiva, indiana, icona no global, autrice di durissime prese di posizione contro la fecondazione artificiale e, in generale, la sperimentazione di nuove tecnologie sull’uomo. Fondatrice del Research Foundation for Science, Technology and Ecology di New Delhi, Vandana Shiva è una convinta sostenitrice della lotta contro gli OGM. Eppure, quando ella accusa le nuove tecniche riproduttive di essere “vere e proprie forme di violenza contro le donne, contro la loro dignità e contro la loro stessa salute, che viene messa a rischio in modi che si cerca di nascondere”, le sue parole sembrano cadere nel vuoto. Se ella denuncia i rischi del mais geneticamente modificato raccoglie interviste a iosa, se si scaglia contro la multinazionale Monsanto viene applaudita; ma se mette in guardia sul fatto che la diagnosi genetica preimpianto potrebbe rivelarsi come “un orrendo apripista per pratiche eugenetiche che pensavamo di esserci lasciati alle spalle”, sulle riviste missionarie non fa più notizia. Ma qualcosa, fortunatamente, si muove. Se l’anno scorso in Bolivia, alla seconda assemblea generale degli esperti di missioni cattoliche, padre Giuseppe Buono, missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere, ha presentato una relazione su “Bioetica, religioni e missione”, significa che una nuova consapevolezza sta maturando. L’auspicio è che si crei una santa alleanza tra il giornalismo missionario e il mondo culturale e scientifico, per condividere risorse culturali e know-how: da una parte le antenne sensibili ai mutamenti sociali e culturali nel Sud del mondo, dall’altra gli strumenti per affrontarli adeguatamente. La battaglia per affermare una cultura della vita non potrebbe che avvantaggiarsene. “Vita e Pensiero”, n. 4, luglio-agosto 2005: