Questa l’omelia per la festa della Liberazione. La festa di San Marco ci fa ascoltare l’ultima pagina del suo Vangelo e fa risuonare in questa Chiesa le ultime parole di Gesù: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo”. Quando Gesù parla di Vangelo non intendeva ciò che comunemente intendiamo noi oggi, ossia un libro, un messaggio pieno di buoni propositi da mettere in pratica. Il Vangelo da annunciare è l’avvenimento di salvezza e di liberazione che la sua persona ci ha portato. In questa giornata di memoria della Liberazione della nostra terra e della nostra patria, capiamo più di altre circostanze cosa voglia dire essere liberati. La liberazione è una delle esperienze di massima felicità che l’uomo possa vivere. Siamo nati per essere liberi. Dio ci ha creati liberi e quando non lo siamo il cuore si stringe. Vive nella paura, nella soggezione, nella ristrettezza, nella costrizione, privo di quella speranza che sola è la porta della felicità. Non è stata questa, forse, l’esperienza dell’intero nostro popolo quando il fascismo ha mostrato, pian piano il suo volto, quando i tedeschi hanno tenuto sotto scacco le nostre terre o quando, anche successivamente il 25 aprile, non si aveva la certezza di tornare a casa dopo essere andati al lavoro? La liberazione è l’esperienza che un uomo, in questo caso, un popolo ha vissuto e vive. Una nuova condizione che ridesta nell’animo la fattibilità dei progetti, dei desideri, della felicità. La felicità compromessa, ora, con la liberazione, è possibile.
Noi oggi, non solo ricordiamo quegli avvenimenti così fortemente incidenti nella storia di tante famiglie e della nostra nazione. Non solo preghiamo per tutti, defunti e ancora vivi testimoni di quegli anni,dell’una e dell’altra parte perché Dio che conosce i cuori abbia misericordia di noi tutti. Ma vogliamo avvertire il fremito di quella felicità. L’avvenimento di quella liberazione non aveva in sé la forza di darci quella felicità che ciascuno desidera. Ci ha liberato dal nemico, non dall’autore dell’inimicizia, da un esercito ormai in preda al proprio orrore, non dal protagonista di ogni male e di ogni morte, il diavolo, che “come leone ruggente va in giro cercando chi divorare”. Le parole di Gesù ci invitano ad annunciare che c’è una vera e più grande liberazione che è avvenuta. Quella della croce e della Resurrezione del Figlio di Dio. In Lui poniamo, fiduciosi, la speranza della nostra felicità. C’è dunque, una liberazione più grande che comincia ben prima dell’essere liberati. O meglio avviene là dove il cuore è libero, sgombro dal pregiudizio e dall’ideologia. In questa circostanza vorrei ricordare Giovanni Guareschi, il padre di don Camillo e Peppone, nella sua veste di soldato, non di scrittore. L’ l’8 settembre del ’43, 65 anni fa, molti nostri ufficiali e soldati, gente semplice e modesta, costretti a fare una guerra che avrebbero volentieri evitato, si trovano vestiti di una divisa che non c’è più. L’esercito è sbandato. Alcuni si sa si uniscono all’esercito degli Alleati che risalgono la penisola; altri costituiscono l’esercito della sciagurata Repubblica di Salò; molti si aggregano alle formazioni partigiane nascoste sui monti; molti vorrebbero tornare a casa dalle proprie famiglie, ma trovano gli amici di ieri a condurli forzatamente nei loro Lager. In migliaia finiscono internati in Germania. Sono una categoria strana. Nessuno riesce a computarli. La Croce Rossa Internazionale non se ne occupa. Non sono “prigionieri di guerra”. Anche gli storici, di ieri e di oggi, li disprezzano, limitandosi solo a guardare solo il colore della divisa e schierarsi dalla parte dei vincitori. Disprezzati e dimenticati. Anche i tedeschi li trattano con disgusto. Peggio che prigionieri. Eppure sono uomini giganteschi. La loro grandezza, la loro dignità – ed è per questo che almeno in questa occasione, se non viene fatta giustizia sui libri di storia meritano di essere nominati davanti a Dio – è l’essersi negati alle offerte scandite dagli ufficiali fascisti della Repubblica di Salò.
Il loro è vero martirio della verità, della giustizia, sottoposti alla continua adulazione di un posto migliore, a condizioni vantaggiose se solo fossero stati disposti ad arruolarsi. Guareschi è tra questi. Questi internati sono dei resistenti. Forse più resistenti di quelli che siamo soliti chiamare con questo nome. Quando il diavolo con le sue generose offerte vi tenta “resistetegli saldi nella fede”. Una fede semplice, ma forte, alla cui radice vi sono la semplice verità dei comandamenti di Dio: il rifiuto di uccidere i fratelli, il rifiuto di battersi contro la propria terra, il desiderio di porre fine alla spirale di male e di morte. Una fede coraggiosa e una resistenza interiore pagata con l’internamento fino al ’45 e la dimenticanza nella memoria collettiva. Questi uomini, sono testimoni che c’è una liberazione interiore prima ancora che esteriore. Hanno goduto, concretamente, la gioia della liberazione solo più tardi, nel Settembre del 45, ma la loro coscienza la festa di liberazione la celebrava ogni mattina e ogni sera. Perché la libertà è ovunque c’è un uomo libero. Nel diario della sua esperienza da internato, scritto clandestinamente, Guareschi scrive: "Signora Germania, tu mi hai messo tra i reticolati, e fai la guardia perché io non esca. E' inutile signora Germania: io non esco, ma entra chi vuole. Entrano i miei affetti, entrano i miei ricordi. E questo è niente ancora, signora Germania: perché entra anche il buon Dio e mi insegna tutte le cose proibite dai tuoi regolamenti. Signora Germania, tu frughi nel mio sacco e rovisti fra i trucioli del mio pagliericcio. E' inutile signora Germania: tu non puoi trovare niente, e invece lì sono nascosti documenti d'importanza essenziale. La pianta della mia casa, mille immagini del mio passato, il progetto del mio avvenire. (…) Signora Germania, tu ti inquieti con me, ma è inutile. Perché il giorno in cui, presa dall'ira farai baccano con qualcuna delle tue mille macchine e mi distenderai sulla terra, vedrai che dal mio corpo immobile si alzerà un altro me stesso, più bello del primo.
E non potrai mettergli un piastrino al collo perché volerà via, oltre il reticolato, e chi s'è visto s'è visto. L'uomo è fatto così, signora Germania: di fuori è una faccenda molto facile da comandare, ma dentro ce n'è un altro e lo comanda soltanto il Padre Eterno. E questa è la fregatura per te signora Germania”. La liberazione, allora, è la vittoria del bene sul male contro il vero Nemico, per liberare la terra del cuore da ogni inimicizia e da ogni risentimento. Ancora nel suo diario, Guareschi scrive: “Da questa storia nella quale ho avuto il peso di un guscio di nocciola nell’oceano in tempesta e dalla quale esco senza nastrini e senza medaglie, sono vittorioso perché, nonostante tutto e tutti, sono riuscito a passare attraverso questo cataclisma senza odiare nessuno”. Questa è la vera resistenza e la vera liberazione.