Genitori in classe? No, grazie.
Di Paolo Zanlucchi (del 09/03/2008 @ 22:11:25, in Scuola educazione, linkato 2417 volte)

Continua a far discutere l’iniziativa presa dalla Dirigente scolastica dell’Istituto “Tambosi” di Trento, Francesca Carampin, di permettere ad alcuni genitori di assistere alle lezioni dei propri figli per verificare il comportamento degli studenti e di come essi trattano aule e laboratori della scuola. La stampa locale ha dato all’avvenimento grande rilevanza, sottolineando soprattutto il fatto che “i genitori entrano a scuola per condividere le scelte educative” (“l’Adige”). Cerchiamo di analizzare in sintesi i fatti: la Dirigente ha precisato che “non è un controllo poliziesco o repressivo, ma un modo per lavorare assieme con lo scopo di insegnare ai giovani quel rispetto per gli altri e delle regole che sembra essere stato dimenticato dai ragazzi d’oggi”. La decisione è stata presa in seguito ad un’assemblea con i genitori in cui, riporta ancora “l’Adige”, sono emerse le difficoltà sia della scuola sia delle famiglie che non riescono a trasmettere ai figli-alunni la capacità di riconoscere ruoli e rispettare regole. La scuola, quindi, rivendica un ritorno alla serietà e alla severità. Ad una lettura superficiale sembrerebbe finalmente attuarsi una condivisibile inversione di tendenza rispetto al lassismo che ha permeato le nostre scuole negli ultimi decenni: resta però il fatto che gli studenti sperimentano ogni giorno che molti loro insegnanti (circa il 40 per cento secondo una ricerca Iard) sono poco preparati per non dire del tutto impreparati. Come ricorda Giovanni Cominelli su “Tempi”, perché la scuola non incomincia a essere seria e severa nell’offerta educativa? Una scuola severa con se stessa tutto l’anno dispone della legittimazione per chiedere serietà ai propri alunni, una scuola in cui l’insegnante bravo è premiato e quello incapace è penalizzato può chiedere molto ai propri ragazzi.

Non solo, ma la figura di riferimento degli studenti, l’insegnante che hanno di fronte, è ridotto da tempo, fatte le necessarie eroiche eccezioni, ad essere un mero comunicatore di saperi, con una visione impiegatizia del proprio lavoro. In base a questa visione, figlia legittima di una pedagogia agonizzante post-sessantottina, proprio nel momento dell’adolescenza, dell’età dei mille perché, della ricerca di un senso del proprio operare, che dia risposte alle prime grandi inquietudini della vita, la scuola si è ritirata: ha abdicato ai pedagoghi che l’hanno trasformata in una sorta di centro sociale in cui domina un conformismo melenso di idee, in cui regnano i buoni sentimenti, in cui di tutto si discute fuorché di saperi, in cui si cerca di analizzare la realtà senza averne gli strumenti adeguati che solo la conoscenza del passato ci può fornire. E la realtà in cui i nostri ragazzi vivono rimane estranea, lontana, la scuola è diventata quindi un contenitore vuoto, non più luogo di senso, luogo che permetta di capire perché io adolescente, io persona, vivo, a cosa posso aspirare nella mia vita, quali modelli di riferimento prenderò per intraprendere la strada della vita con qualche certezza di potercela fare. Non è un caso che secondo una recente indagine OCSE ben il 38% degli studenti italiani ha definito la propria scuola come il luogo del non senso; e qui ci poniamo due domande: come ci si sente a vivere gran parte della giornata, per anni, lunghi anni quelli dell’adolescenza, in un luogo al quale non si sente di appartenere, anzi un luogo senza significato? Che valore possono avere quelle regole che adulti senza autorevolezza e autorità chiedono di rispettare? Un adolescente ha bisogno di modelli educativi, di maestri che sappiano rispondere alle immense e mutevoli questioni che a quell’età ogni ragazzo si pone e che se non trovano risposte coerenti, possono sfociare anche in atti di bullismo o di trasgressione più o meno pesante. Non giustifico assolutamente tali comportamenti, ma non voglio nemmeno dimenticare anche la situazione familiare in cui sempre più ragazzi devono vivere, con famiglie esplose in microparticelle affettive, spesso senza un cardine, un luogo dove ritrovarsi stabilmente e confrontarsi. Famiglie che spesso, aihmè, delegano in toto alla scuola il compito di educare i loro figli, come se l’educazione fosse solo la trasmissione di regole e non di condivisione anche affettiva di un percorso. A questo proposito ritengo davvero tristemente significativo il pensiero della Dirigente del “Tambosi”, la quale, certamente in assoluta buona fede e con le migliori intenzioni pedagogiche, afferma che “ per un giorno i genitori hanno scelto di condividere con la scuola metodi e obiettivi educativi”. Per un giorno? E gli altri? Sembra che famiglia e scuola abbiano compiti diversi, come se le domande di senso, di significato dei ragazzi fossero diverse a seconda dell’ora in cui vengono poste e del luogo in cui si trovano. Metodi ed obiettivi educativi dovrebbero essere condivisi integralmente fra genitori e docenti, non part-time, magari ad ore alterne o peggio durante la ricreazione, punendo chi getta le cartacce per terra. Questa, gentilissima Dirigente, ricorda molto da vicino la morale deamicisiana, un moralismo vacuo che certamente finirà per ibernare definitivamente le pulsioni pressanti di quei ragazzi, che chiedono risposte alle eterne domande adolescenziali sul proprio esistere, sulla comprensione della realtà, sul senso di questa nella creazione critica di una propria identità. Quei giovani chiedono di potersi stupire davanti alle cose che vengono loro insegnate, chiedono in maniera maldestra, ma forte, che qualcuno fra i loro insegnanti sappia emozionarli partendo dalla singola materia, strumento di analisi della realtà. I nostri studenti non hanno bisogno di un decalogo di buoni comportamenti e buoni sentimenti “neutrali”, ma di qualcuno che si prenda la responsabilità di indicare loro ipotesi di senso della propria esistenza e che oltre ad istruirli, li sappia anche educare al bello, alla meraviglia, allo stupore della vita, ma questo non avverrà attraverso le circolari interne degli Istituti, ma attraverso un sentimento fra educatore ed educato che nasce dalla condivisione di un percorso, ricordando le parole di don Bosco, il quale sosteneva che “l’educazione è un fatto di cuore”.