Un bimbo esposto sulla finestra, al gelo, perché muoia. Un innocente che richiede ogni attenzione e ogni cura, perché da solo non può nulla. Affidato totalmente all’amore dei suoi genitori. Un agnello sacrificale, come Gesù, misteriosamente in balia della bontà e della cattiveria degli uomini. Misteriosamente chiamato, con la sua grazia, con la sua dolcezza, con la sua piccola anima bianca, a commuovere un uomo e una donna già adulti, già sazi di esperienze, di amori, di lusso, di peccato. Chiamato a purificare il loro sguardo, i loro pensieri, ormai da tempo insudiciati dalle miserie del mondo, da tempo persi in “selve oscure” che non lasciano intravedere il cielo.
E’ questo bambino, è la redenzione che promette, con i suoi occhi puliti e profondi, senza malizia, la sua pelle candida, e le sue manine innocue, che occupa la mente di Gabriele D’Annunzio, quando decide di scrivere il romanzo “L’innocente”; quando sceglie di produrre scintille mettendo a confronto il sentimento della sua miseria, della malattia interiore del suo animo degradato dal piacere e dall’infedeltà, con qualcosa di puro, di immacolato, di innocente, appunto. Beati immaculati: così scrive, il poeta soldato, nell’incipit del romanzo, in cui il protagonista, Tullio Hermil, narra la sua storia, i suoi amori disordinati, le sue impulsività demoniache, che lo hanno spinto ad uccidere un bimbo appena nato, esponendolo al gelo di un davanzale. Tullio Hermil è un alter ego di D’Annunzio. E’, a me sembra, l’ammissione del grande retore dell’impossibilità per l’uomo di vivere al di fuori della legge, e quindi dell’amore di Dio. Perché alla fine di tutto, il rimorso per aver violato l’innocenza urla dentro di lui, sebbene offuscato dall’orgoglio e dalla negazione, implicita, di Dio e della sua misericordia. Così inizia il romanzo: “ Andare davanti al giudice, dirgli: ‘Ho commesso un delitto. Quella povera creatura non sarebbe morta se io non l’avessi uccisa. Io Tullio Hermil, io stesso l’ho uccisa... Eccomi nelle vostre mani. Ascoltatemi. Giudicatemi.’ Non posso né voglio. La giustizia degli uomini non mi tocca. Nessun tribunale della terra saprebbe giudicarmi. Eppure bisogna che io mi accusi, che mi confessi. Bisogna che riveli il segreto a qualcuno. A Chi?”.
A chi, se non all’Innocente per eccellenza, immolato per i nostri peccati, che si è fatto bambino e si è offerto così alla nostra libertà? Ma D’Annunzio poteva credere nel peccato, perché lo viveva ogni giorno, perché sapeva riconoscere, a tratti, di essere ormai “stanco di mentire”. Ma forse non aveva la forza per umiliarsi, per chiedere perdono, esattamente come Giuda: di qui i suoi vari tentativi di suicidio. E’terribile dover dire “a Chi?”, e non trovare risposta. Questo vecchio romanzo, “L’Innocente”, mi è venuto in mente quando ho letto, sul Corriere del 4 febbraio, quello che già si sapeva: che vi sono bambini “sopravvissuti all’aborto lasciati morire di freddo”, “messi sul davanzale delle finestre o addirittura in frigorifero per affrettarne la fine, o semplicemente abbandonati a se stessi, sul tavolo operatorio, così da sollevare dall’imbarazzo genitori e medico”. Leggendo, ho pensato che il decadente D’Annunzio, il perverso poeta fiumano, nemico giurato di Dio, pagano sin nel midollo, attento solamente a mordere “frutti terrestri”, succube della magia e della superstizione, schiavo dei sensi, oltre cent’anni fa sapeva ancora stupirsi dinnanzi all’innocenza. Sapeva ancora sognarla, a momenti, e rimpiangerla.
Ho pensato anche ad un altro decadente, che D’Annunzio ben conosceva, il francese Joris Karl Huysmans, e al suo “La bas”. E’, questa, la storia di Durtal, un alter ego dell’autore, che giunge pian piano dalle bassezze del piacere fine a se stesso, sino all’abisso del satanismo. Nel suo peregrinare intellettuale, si interessa alle vicende di Gilles de Rais, un uomo pio, seguace fedele e coraggioso di Giovanna d’Arco, della limpida “vergine d’Orleans”, divenuto poi, dopo la morte di lei, mago, spiritista, e “violentatore di bambini, sgozzatore di ragazzi e fanciulle”. Gli innocenti, coloro che si fidano, divennero per Gilles le prede più ambite, sinché, “non potendo più scendere, tentò di tornare sui suoi passi”, si pentì dinanzi ai suoi giudici, ai genitori delle vittime e fu accompagnato alla pena di morte, tra le lacrime e le dimostrazioni di pietà. Anche Durtal, come Gilles, sperimenta il culto del Maligno, scende nel suo inferno, passo dopo passo, sino a partecipare a cerimonie in onore di Satana. Ad un certo punto del romanzo riporta proprio una preghiera al Signore del Male, che ha udito con le sue orecchie: “…Tu salvi l’onore delle famiglie con l’aborto di ventri fecondati nell’oblio di leciti orgasmi; tu suggerisci alle madri un rapido aborto e la tua ostetricia risparmia le angosce della maturità, il dolore delle cadute, ai bambini che muoiono prima di nascere”.
Dopo la preghiera, racconta Durtal, un sacerdote apostata profana l’ostia monda, l’ostia santa, l’ostia immacolata: l’Innocente. In seguito ad esperienze analoghe a quelle di Durtal, Huysmans approderà alla fede, e scriverà: “E’ attraverso la visione del soprannaturale del male che ho avuto la prima percezione del soprannaturale del bene. Con la sua zampa adunca il demonio m’ha condotto verso Dio”. L’innocenza violata, oggi, da coloro che lasciano morire i bambini sul davanzale, dai nuovi pedofili in serie alla Gilles de Rais, porterà ancora ai grandi pentimenti, o la trasmutazione del male in bene, il peccato più grave perché “chiude la porta al pentimento”, ha ormai offuscato del tutto i nostri cuori?