Severino: il Papa è relativista
Oggi sembra abbastanza ovvio che alcuni cattedratici della Sapienza e loro relativi accoliti-laureandi hanno rifiutato l’ingresso in università non a Benedetto XVI, bensì a Joseph Ratzinger. Non al Vicario di Cristo, al Successore di Pietro, bensì al filosofo e teologo tedesco. Quello che non può e non deve entrare in aula magna è un certo pensiero, è una posizione speculativa che una fetta dell’accademia universitaria non accetta. Ma la domanda da porsi a riguardo è la seguente: perché tale rifiuto? Le risposte sarebbero molteplici naturalmente. Però, dopo un articolo di Emanuele Severino sul Corriere della Sera di Sabato 19 Gennaio, si aggiunge al novero delle possibili risposte un dubbio: ma siamo certi che il pensiero, la dottrina, i discorsi del Papa siano stati correttamente intesi? Siamo sicuri che chi rigetta le argomentazioni del filosofare cristiano le abbia dapprima comprese appieno? Pare di no.
Rileggiamo l’articolo di Severino e scopriremo come in esso si incontrano ad ogni piè sospinto fraintendimenti e storture del pensiero cristiano (e non solo cristiano).
Severino correttamente scrive che «una giustizia, una virtù, un Dio che non siano veri – dice Platone – li si può e li si deve abbandonare». L’affermazione non fa una grinza. Purtroppo dopo qualche riga, con un’acrobazia priva dei requisiti della retta deduzione, il Nostro conclude che «la filosofia vede che il Dio (e giustizia, virtù, ecc…) delle religioni non può avere verità». In realtà Platone e con lui i classici del pensiero greco non rigettavano la religione in toto – e nemmeno il mito – ma solo quelle espressioni religiose che contraddicevano la verità. Se nell’Eutifrone il filosofo appariva critico nei confronti della religio dei suoi contemporanei, proprio perché falsa e non giusta, nel Le Leggi Platone insegna che occorre venerare gli astri a motivo del loro ordine e suggerisce persino che il culto religioso sia imposto ai cittadini. Riguardo poi al mito, lo stesso Platone usa il celebre mito della caverna ne La Repubblica. Per non parlare poi degli altri 15 miti platonici: da quello del carro e dell’auriga a quello di Prometeo. Da questa asserzione di Severino assai imprecisa ne discendono a catena altre di matrice simile. La prima pretende che sia esclusivamente la filosofia ad essere capace di mettersi in ricerca della verità e di trovarla: «il senso dell’incontrovertibile e della “verità” è stato esplorato dalla filosofia, non dalle religioni». Come corollario a questa asserzione il professor Severino aggiunge che «la filosofia […] riesce a mostrare l’impossibilità di un Dio eterno che crea, ama e domina il mondo del divenire». Purtroppo è difficile dimenticare che San Tommaso D’Aquino, autore che lo stesso Severino cita più volte successivamente, non solo prova razionalmente l’esistenza di Dio nella sua Somma Teologica, ma sempre con il solo uso della ragione riesce ad individuare alcune caratteristiche di Dio, tra le quali proprio quelle elencate dal filosofo bresciano: eterno, creatore, sommo bene («ama»), causa incausata, o atto puro che dà luogo al perenne divenire («domina il mondo del divenire»). Ma c’è di più. Tommaso, come è noto, fu capace di tali dimostrazioni perché fece sue alcune metodologie di indagine di Aristotele: pensiamo, solo per fare un esempio, alle argomentazioni che ruotano intorno al concetto di “motore immobile”. Quindi non solo la filosofia scolastica ha potuto provare l’esistenza di Dio e descriverne in parte le sue qualità, ma lo stesso pensiero greco ha dato un notevole contributo in questo senso. Quel pensiero greco, tutto incentrato sulle potenzialità della ragione, preso da Severio come vessillo utile per marcare le distanze dal divino.
Ma proseguiamo nella lettura. Severino ad un certo punto cita il Papa il quale afferma che «ragione e fede […] hanno bisogno l’una dell’altra». Il filosofo italiano non accetta questo assunto dato che, come già prima esposto, solo la ragione, quindi solo il filosofare, ha il copyright sulla verità. Unicamente «la ragione è sapere incontrovertibile», e «quindi ogni altra forma di sapere diversa dalla filosofia sia chiamata sapere controvertibile». Da qui discende la conclusione che la fede non serve a nulla, dal momento che la ragione è pienamente autosufficiente. E’ vero, ammette Severino, che l’idea di fede proposta dal Pontefice è ossequiosa della ragione «ma questa “ragionevolezza” (la stessa fede lo riconosce) non può essere la verità incontrovertibile che può apparire all’uomo in quanto tale. La fede non può essere l’incontrovertibile perché altrimenti essa non sarebbe dono soprannaturale, “grazia”, rivelazione di Cristo a cui l’uomo non può giungere (daccapo secondo la fede) con le sue sole forze». Riepiloghiamo: la ragione è incontrovertibile, cioè capace da sola di risultati certi e capace di far propria la verità (anche se a volte è soggetta ad errore, ha premura di precisare il Nostro); invece la fede è controvertibile, cioè incapace in assoluto di arrivare alla verità. Quindi la ragione non ha bisogno della fede. Severino, proseguendo nella sua logica argomentativa, sostiene perciò che se il Papa afferma la reciproca dipendenza della fede e della ragione – ognuna ha bisogno dell’altra – significa che entrambi i saperi sono controvertibili, perché da sè non saprebbero arrivare alla verità. Ma dire che non solo la fede è controvertibile, ma anche la ragione è controvertibile, significa asserire l’incapacità della ratio di conoscere la verità. E se la ragione non può dar conto della verità significa sposare le tesi del relativismo e dello scetticismo. Ergo il Papa è relativista. Così infatti Severino interpreta il pensiero del Papa: «il relativismo e lo scetticismo, contro cui la Chiesa e il Pontefice continuano a combattere, consistono proprio nella tesi sostenuta dal Pontefice, cioè che la ragione, in quanto incontrovertibilità, non esiste appunto perché essa ha bisogno della religione, cioè del controvertibile». In sintesi: se la ragione ha bisogno della fede, significa che l’intelletto da solo è incapace della verità, e viceversa. Infine il giornalista-filosofo aggiunge che «le tesi del Pontefice che la ragione abbia bisogno della religione cattolica, non è la tesi di Tommaso D’Aquino».
Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza. Ragione e fede sono due forme di sapere. Entrambi per loro natura sono capaci della verità. Però, ed è qui sta il passaggio che forse sfugge al Nostro, ragione e fede hanno due campi di ricerca della verità diversi. Non opposti, non in conflitto tra loro ma semplicemente differenti. La ragione indaga l’ambito del naturale e del metafisico: i fenomeni empirici (quelli per intenderci oggetto di ricerca della scienze naturali), le astrazioni matematiche e della fisica, la logica, il pensiero, gli atti umani, le categorie del bene e del male, etc. Anche l’esistenza di Dio e le sue caratteristiche come abbiamo visto sono argomenti che possono essere affrontati con successo dall’intelletto. La fede invece si occupa del soprannaturale, cioè di quella parte della metafisica non accessibile alle sole forze dell’intelletto naturale. Essa può conoscere con certezza (la fede è certa, si legge nel Catechismo della Chiesa Cattolica) ciò che le viene rivelato da Dio (anzi: forse e in un certo qual modo potremmo dire che la fede è in sé una conoscenza “più certa” del sapere intellettivo dato che viene direttamente dal Creatore cioè dal Conoscitore di tutte le cose). Il credente infatti sa per esempio che nell’Eucaristia è presente realmente Dio, sa che Gesù è Dio e conosce con certezza l’esistenza dell’Inferno del Purgatorio e del Paradiso. Tutte realtà che se non fossero state svelate da Dio stesso non sarebbero state mai conosciute dall’uomo. Anche la fede quindi, per usare l’espressione severiniana, può essere incontrovertibile, perché conoscenza certa di cose rivelate. Anche la fede è un sapere, un sapere però che si rivolge ad oggetti differenti rispetto a quelli propri dell’intelletto. La ragione conosce ciò che “il naturale e il meta-empirico” offrono alla sue capacità cognitive; la fede altresì conosce ciò che a Dio è piaciuto mostrare. L’affermazione di Severino che la fede è incapace di verità dato che è dono, è grazia, è priva di consequenzialità logica. Dal fatto che la materia su cui si condensa l’attenzione della fede è donata da Dio non discende la conseguenza logica che alla fede non possa accreditarsi la qualifica di sapere certo, quindi incontrovertibile. Non si rileva cioè un necessario processo di inferenza. Una cosa è l’oggetto della conoscenza (per la ragione questo oggetto è presente nel naturale e nel metafisico, per la fede è svelato da Dio), ed altra cosa è la conoscenza in se stessa. Se Tizio decide di regalarmi un orologio ciò non comporta che non sarò capace di sapere come funziona questo orologio. Il dono, la grazia non configgono con il sapere della fede, bensì ne sono il presupposto ineludibile.
Ora, perché fede e ragione hanno bisogno una dell’altra, come afferma il Papa e come si legge nell’enciclica Fides et ratio? La risposta in modo implicito è già stata data poco prima. Le facoltà intellettive e la virtù della fede se uniscono le forze possono completare il puzzle della verità. L’uomo infatti è spirito incarnato, è composto di materia e spirito, di naturale e soprannaturale. La ragione ha in mano le tessere del puzzle per ciò che attiene al naturale e al metafisico, la fede per ciò che interessa il soprannaturale. Senza l’apporto della ragione la fede saprà sì comporre la propria parte di puzzle ma rimarrà monca di quelle tessere utili per completare il quadro, tessere che solo la ragione possiede. E viceversa. L’unità della verità deriva dall’unità degli sforzi di ragione e fede. Due elementi che si integrano e che non si contrappongono. Il sapere dell’intelletto non è quindi denotato da relatività, come vorrebbe far credere Severino commentando le parole del Papa, dato che esso può conoscere con certezza alcuni enti, ciò a voler dire che è capace della verità in merito agli oggetti di sua competenza; bensì è limitato, cioè non può conoscere tutto: esiste un campo del conoscere che è di pertinenza della fede. Limitato non significa relativo.
Ma ragione e fede hanno bisogno una dell’altra anche per un altro motivo. Ragione e fede sono sì distinte ma non separate. Il distinguo si spiega con un esempio. Testa e collo sono parti del corpo ben distinte (per fisionomia, per funzione, etc), ma non sono separate: sono collegate. Senza il collo la testa non potrebbe essere irrorata dal sangue, non potrebbe compiere nessun movimento, etc. E ugualmente un collo senza testa…. avrebbe poca vita. Così è per la ragione e fede: una dipende dall’altra. La fede poggia sulla ragione e la travalica; comprende in sé la ragione ma la supera, cioè la perfeziona. Facciamo un esempio. La fede cattolica ci dice che Gesù di Nazareth è Dio. Requisito prioritario, ma ovviamente non esclusivo, per affermare ciò è dato dal fatto che Gesù sia davvero esistito e non sia un personaggio mitologico. Se Gesù non fosse mai nato viene meno anche di conseguenza il dato di fede che egli sia Dio. E scoprire che in Palestina 2.000 anni fa è vissuto una persona di nome Gesù che ha fondato un nuovo culto è compito della storia, cioè compito della ragione che indaga il passato. In questo caso la fede ha bisogno della ragione.
Ma anche l’intelletto ha bisogno della fede. Severino afferma – tra le righe e quindi in modo implicito – che San Tommaso disegnava un ritratto della ratio naturale indipendente dalla fede. Quella ratio naturale che è alla base delle riflessioni del Dottore Angelico sulla legge naturale. Purtroppo anche in questo caso il pensiero dell’Aquinate è altro. Infatti Tommaso scrive nella Somma Teologica: «la luce della ragione naturale, che ci permette di discernere il male e il bene, altro non è in noi che un’impronta della luce divina» (I-II, q. 91, a. 2). Ed nello scritto In Epistulam ad Romanos: «legge dello spirito è lo Spirito Santo [...] che, inabitante nell'anima, non solo insegna che cosa è necessario compiere illuminando l'intelletto sulle cose da farsi, ma anche inclina ad agire con rettitudine» (c. VIII, lect. 1). Inoltre nel In duo praecepta caritatis et in decem legis praecepta similmente, riguardo alla legge naturale, si trova scritto che essa «altro non è che la luce dell’intelligenza infusa in noi da Dio. […] Questa luce e questa legge Dio l’ha donata nella creazione» (Prologus: Opuscula teologica, II, n. 1129). L’intelletto è quindi l’impronta luminosa della sapienza divina che permane in noi. Dipendenza ontologica da Dio, non indipendenza dunque, seppur la ragione abbia in sé le risorse sufficienti – fornite da Dio – per conoscere la verità. Appare così evidente che per Tommaso la ragione senza la luce divina sarebbe costretta a vagare nel buio. In più occorre ricordare che ogni pensiero, anche quello del non credente, si può esplicare perché Dio lo permette. Infatti il mondo non solo è stato creato da Dio, ma sussiste nel tempo perché Dio lo vuole. Se per assurdo ad un certo momento Dio si “distraesse” dalle cose create, tutto sarebbe risucchiato in quel nulla da cui Dio chiamò ad esistenza le cose. Perciò noi siamo in grado di usare l’intelletto grazie a Dio. Ma non solo. Chi prega e si accosta ai sacramenti riceve un particolare aiuto divino chiamato “grazia”, la quale innalza l’attività dell’intelletto ed eleva le sue capacità naturali.
In sintesi ragione e fede poggiano una sull’altra, ma non come due zoppi che si aiutano sorreggendosi a vicenda, per usare l’immagine di Severino, ma «come le due ali con le quali lo spirito umano s'innalza verso la contemplazione della verità», per usare le parole iniziali dell’enciclica Fides et Ratio di Giovanni Paolo II.
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