Tipi umani 4: Il reazionario arrabbiato
Di Bernardo (del 24/01/2008 @ 17:30:43, in Tipi umani, linkato 1881 volte)
Malauguratamente è ora d’alzarsi.
Il sole già barbaglia, là fuori, sui vetrami anonimi degli atroci casermoni fatti erigere da un’amministrazione comunale rossa negli innominabili anni Sessanta.
Il reazionario arrabbiato si drizza col busto sul guanciale; si stiracchia; maledice tra sé e sé, sul filo dei pensieri, il dannato realismo socialista.
Sa da tempo che tutto ciò che è brutto, in architettura, è almeno imparentato con il dannato realismo socialista.
Il reazionario arrabbiato si stropiccia gli occhietti cisposi, percorsi in lungo e in largo da minuscole, rubicanti venuzze.
La luce, l’odiata luce – da cui Lumi, Illuminismo, Illuminati di Baviera – ha già certamente provveduto a riportare in vita gli scarabocchi, gli odiatissimi scarabocchi che vieppiù incanagliscono le già ributtanti vestigia dell’edilizia moderna.
«Graffiti», così li designa l’odierno analfabetismo di massa, come se fossero incisi con rispettabili bulini anziché schizzati sui muri con vigliacchissime bombolette spray.
Il reazionario arrabbiato, disgustato oltre misura, rumoreggia col naso.
Fissa per qualche secondo, con sguardo svigorito, l’antico ritratto dagherrotipo di Sua Maestà Francesco di Borbone: ritratto già appartenuto ad un suo glorioso trisavolo, il Soldato semplice Vincenzo Enrico Amadeo che fu tra i difensori di Gaeta, valoroso milite elogiato personalmente dall’adolescente Regina Maria Sofia in quegli ottocenteschi giorni onusti d’onore e di tragedia.
Il reazionario arrabbiato lancia con precisione una scatarrata verdognola all’indirizzo di un’artistica sputacchiera d’ottone appoggiata al pavimento di marmo, anch’essa venerato cimelio del trisavolo Soldato semplice Vincenzo Enrico Amadeo che usava svuotarla e ripulirla ogni 1° di ottobre, giorno anniversario dell’apertura del Congresso di Vienna.
Ah, quel lontano 1814, ubertoso di aneliti alla Restaurazione Universale! Subitamente svaniti, subitamente dissolti.
Come ogni mattina, il ritratto dagherrotipo di Franceschiello comunica al reazionario arrabbiato la forza di resistere – rectius, di reagire – a un’altra giornata da trascorrere integralmente, inappellabilmente nel secolo Ventunesimo.
Secolo senza onore, né tragedia, né artistiche sputacchiere d’ottone.
Comunque la si veda, la scomparsa delle sputacchiere dai luoghi pubblici è uno dei principali segnacoli della decadenza irredimibile che da più di due secoli affligge e sfigura la Cristianità.
Decadenza di luoghi, decadenza di caratteri.
La gabbia che hanno costruito attorno all’Ara Pacis, tanto per dirne una, è un fulgido esempio di realismo socialista.
Ad ogni modo, il reazionario arrabbiato guarda al proprio decoroso appartamento come ad un’aristocratica Coblenza fuori confine, «rifugio costruito contro l’inclemenza del tempo» egli direbbe con Nicolàs Gòmez Dàvila, pensatore della contre-Révolution a pieno titolo anche se pubblicato in Italia da quell’Adelphi che tutti sanno essere casa editrice iniziatica e gnostica se mai ve ne fu una.
Gnosticismo dunque Massoneria, Massoneria dunque Rivoluzione: tout se tient, dal caso Moro alle cosiddette Twin Towers passando per i martiri vandeani.
«Cosiddette», le Twin Towers, perché l’inglese non è che un cacofonico dialetto di barbari e va trattato come tale.
Le sole lingue propriamente dette sono le classiche e le neolatine, quest’ultime beninteso nettate da idiotismi e solecismi pedestri.
Gli antecedenti letterari hanno la loro importanza. «Viva las cadenas» gridavano i popolani madrileni all’ingresso in città di Ferdinando VII, mica «Hooray for the chains».
Tempi di follia, codesti nostri. Follia lessicale, follia sintattica. Non si dice «invano ci siamo affaticati», tutt’al più «indarno havvimo ad affaticarci»: ma indarno lo si farebbe presente ai nostri professori di materie letterarie, tutti ex sessantottini in servizio gramsciano permanente effettivo.
Sono ben loro i veri corruttori della gioventù – codesta inguardabile gioventù contemporanea, già corrotta di suo dalla promiscuità ineludibile dei costumi.
E dal Peccato Originale che è il principale, se non unico dogma del Cattolicismo.
Classi miste, puah; pelagianesimo, puah.
La sputacchiera è quasi colma, e mancano nove mesi al 1° di ottobre.

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Il reazionario arrabbiato finalmente si alza dal letto.
Egli ha un’unica occupazione, da quando ha abbandonato il mestiere di latifondista: scrivere aforismi.
Ama vergare motti categorici e sferzanti, perfezionandoli giorno dopo giorno in un interminabile labor limae.
Il suo modello letterario unico e indiscusso, anche se ahimè irraggiungibile, è il sunnominato Gòmez Dàvila, pensatore colombiano.
Molti degli aforismi del reazionario arrabbiato hanno come oggetto non tanto le proprie numerose opinioni e certezze, quanto la radicalità stessa delle proprie opinioni e certezze, l’imperativo stesso, quasi, di nutrire opinioni e certezze fermissime e inconcutibili.
Alcuni esempi possono aiutarci a chiarire questo aspetto:

C’è ben poco di cui essere incerti.

È escluso che chi si definisce «libero pensatore» abbia mai pensato.

Un dubbio che non riposi su una certezza è un dubbio sprecato.

Funzione propria della tautologia è suggerire sommessamente l’improponibilità delle dottrine relativiste.

Non ci si direbbe relativisti se immuni da una forma mentis semi-totalitaria.

L’accordo parziale raggiunto da punti di vista diversi è il peggiore dei disaccordi.

Compito dell’aforisma è condensare un pregiudizio.

I pregiudizi di chi ha ragione sono veri.

Degli ultimi due aforismi testé riportati il reazionario arrabbiato va particolarmente fiero.
Ma veniamo ora alle propriamente dette «opinioni e certezze» da lui condensate in inchiostro.
Eccone un piccolo florilegio:

Il buonismo è quell’eresia cristologica che non si riconosce per tale.

Chi non è debitamente riverente verso la classe dei sacerdoti è destinato ad esserlo verso la classe dei paramenti sacerdotali.

L’impiego dell’antitesi Chiesa-mondo è ciò che nella Chiesa distingue la Chiesa dal mondo.

La forma di governo più democratica è la monarchia di diritto divino. Va dato atto ai giacobini di averlo sempre pensato.

Il ruolo storico svolto dal cattolicesimo democratico è stato l’aver reso evidente a chiunque che cattolicesimo e democrazia non hanno nulla a che vedere.

Una storiografia non ecclesiocentrica non è obbiettiva, né realistica.

Un’opinione stupida è popperianamente infalsificabile. Questo è il motivo del suo enorme successo.

Il fondamentalismo è l’alternativa irreligiosa alla recita quotidiana del Santo Rosario.

Il Concilio Ecumenico Vaticano II è il più grande impianto di desalinizzazione mai costruito.

Il reazionario arrabbiato ha anche le sue non disprezzabili idee sulla Sinistra e sulla Destra, sul progressismo e sul suo contrario. Eccole:

L’uomo naturaliter di Sinistra è un uomo innaturale.

Tutti sono indulgenti con il vizioso. Ma l’uomo di Destra disapprova il vizio, l’uomo di Sinistra la virtù.

Il postmoderno è lo stratagemma architettato dai progressisti per riconoscere che hanno sempre avuto torto, ma senza ammetterlo.

Che Destra e Sinistra siano categorie superate è vero. Non averlo capito è di Sinistra.

Il futuro del progressista, al contrario del passato del reazionario, ha fatto il suo tempo da un pezzo.

Che il progressista venga regolarmente sconfitto dalla storia dopo soli trent’anni è realtà che spezza il cuore al reazionario più arrabbiato
[lui, ndr].

La Destra attuale non è vera Destra. È attuale.

Altro tema caratteristico del reazionario arrabbiato è la Fine dei Tempi, che sulla scorta delle profezie di Malachia egli reputa non troppo lontana.
Scrive infatti:

Ciò che più inquieta, nel mondo attuale, è la Seconda epistola ai Tessalonicesi.

Non è grave tanto ciò che accade, quanto il fatto che non si voglia scorgere in esso alcun indizio dell’Apocalisse imminente.

Potremmo proseguire ad abundantiam con i nostri estratti. Ma abbandoniamo qui, per non rattristarci troppo, la produzione letteraria del reazionario arrabbiato.
Il quale è tutto intento, ora, nell’atto di intingere la sua antica penna d’oca nella boccetta dell’inchiostro, e di tracciare su carta di papiro rilegata nuove e folgoranti Verità. Naturalmente in caratteri gotici.
Allontaniamoci dunque, in silenzio, dalla scrivania di larice, dalle pile di antichi libri e manoscritti, dalla penombra immota del suo studio.
Gli scricchiolii della carta sotto il pennino siano il solo rumore ch’egli sappia avvertire. «Ultimo gracile suono di vita tra tanto morire», come scrisse Giovanni Arpino nella chiusa del suo Fratello italiano.
Il lento morire, il lento inabissarsi di questi tempi fatali.
È vero, Arpino era uno scrittore agnostico: ma diceva di credere fermamente nell’esistenza del Diavolo.
E per essere buoni cattolici tradizionalisti – rimugina assorto il reazionario arrabbiato – non è in fondo richiesto altro.



Post scriptum. Esprimo qui la mia solidale vicinanza al reazionario arrabbiato. Nonostante alcune discutibili opinioni teologiche e un’indubbia radicalità nel considerare taluni argomenti, egli rimane per me il confidente franco e l’amico leale delle molte serate trascorse insieme leggendo i controrivoluzionari francesi e sorseggiando i vini pregiati della sua ricca cantina.