Grattacapi da superpotenza. Il prezzo che uno Stato deve pagare alla supremazia mondiale è innanzitutto un dubbio amletico: essere o non essere i dominatori assoluti del pianeta? Comportarsi da imperatori o fungere da Stato guida per la costruzione di un ordine internazionale più condiviso? Gli Usa nei panni di Amleto. Sembra questa l’immagine suggerita da John Ikenberry nel libro Il dilemma dell’egemone. Gli Stati Uniti tra ordine liberale e tentazione imperiale ( Vita e Pensiero, pagine 358, euro 20).
Docente di politica e affari internazionali alla Princeton University, tra i massimi analisti mondiali, Ikenberry vede gli Usa a un bivio delicato. Nel corso della guerra fredda, gli Stati Uniti hanno assicurato al mondo un ordine liberale. Ma dopo l’11 settembre sembrano aver imboccato l’altra strada: l’«imperialismo ».
Professor Ikenberry, perché è così preoccupato? «All’ombra della guerra al terrorismo si sta affermando una visione neoimperiale, nella quale gli Stati Uniti si arrogano il ruolo globale di determinare le minacce, usare la forza e amministrare la giustizia. Ma la guerra al terrorismo è stata finora un fallimento: con l’intervento preventivo in Iraq si è persa l’opportunità di costruire un sistema di collaborazione con gli altri Paesi. La tentazione di confondere guerra in Iraq e guerra al terrorismo era troppo grande. Ma l’amministrazione Bush la sta pagando in credibilità».
Ma l’«imperialismo» degli Usa è nato con Bush? «No. In ogni era storica, gli Stati Uniti hanno mostrato il desiderio di rigettare i trattati, violare le regole, ignorare gli alleati e usare la forza militare da soli. Anche l’amministrazione Clinton non attese l’Onu per bombardare l’Iraq nel 1998 o la Serbia nel 1999. Ma molti osservatori vedono l’unilateralismo Usa di oggi come qualcosa di molto più radicale: non una decisione politica ad hoc e occasionale, ma un nuovo orientamento strategico». Dopo l’11 settembre, però, il terrorismo fa paura. Si continua a temere che stati dispotici possano produrre armi di distruzione di massa e metterle nelle mani dei terroristi… «L’amministrazione Bush ha elevato la minaccia delle armi di distruzione di massa, senza investire il proprio potere nel far rispettare gli impegni di non proliferazione. Una politica americana che lascia gli Stati Uniti a decidere quali Stati rappresentino delle minacce porterà a un impoverimento dei meccanismi multilaterali. Così Stati che non stanno violando alcuna regola internazionale possono ugualmente essere obiettivo dalla forza americana. E poi niente fermerà gli altri Paesi dal fare lo stesso: gli Usa vogliono che la dottrina dell’azione preventiva sia messa in atto dal Pakistan, o dalla Cina, o dalla Russia? ».
Non crede che gli Usa siano stati lasciati soli nella lotta al terrorismo? «Il mondo ha visto Washington compiere passi determinati per combattere il terrorismo, ma l’opinione prevalente è che gli Stati Uniti sembrano pronti ad usare il proprio potere per inseguire terroristi e regimi malevoli e non per costruire un ordine mondiale più stabile e pacifico. E sull’Iraq non hanno voluto ascoltare le ragioni dell’Europa. La guerra afgana e quella irachena sono state sostenute in parte dai nuovi fondamentalisti per restaurare la paura del potere americano».
In che senso? «I nuovi fondamentalisti hanno fatto proprio il consiglio di Machiavelli: 'Dal momento che l’amore e la paura possono difficilmente coesistere, se dobbiamo scegliere tra uno dei due, è molto più sicuro essere temuti che amati'. Ma la paura è una strategia pericolosa e distruttiva. Non vi è nessuna prova persuasiva che l’effetto dimostrativo della guerra in Iraq stia funzionando con la Corea del Nord, l’Iran o altri Stati problematici. Il risultato più probabile è che questi regimi continueranno a cercare e a possedere armi nucleari, in modo da creare una certa deterrenza nei confronti di una possibile invasione americana».
La Cina o la Russia di Putin non hanno sfidato apertamente gli Usa, ma possono essere considerate una minaccia? «La Cina non rappresenta un mondo a sé, come l’Urss al tempo della Guerra fredda, ma è inserita nel sistema economico mondiale. Non è un nemico, ci sono comuni interessi economici. Dal punto di vista politico non viene considerata un pericolo. Ma si è persa l’occasione per integrarla in un sistema democratico che garantisca i diritti umani. Preoccupa la Russia perché detiene risorse fondamentali come gas naturale e petrolio».
Eppure negli ultimi tempi la situazione sembra migliorare in Iraq, meno in Afghanistan… «È vero, l’Iraq è molto più stabile di quanto lo fosse prima. Ma questo non vuol dire che sia vicina una soluzione politica, la riconciliazione è ancora lontana. In Afghanistan c’è il problema di garantire i confini con il Pakistan: ci vorranno ancora decenni di sforzi delle Nazioni Unite per darle finalmente stabilità. Quanto alla questione israelo-palestinese la strada è lunga ma il ruolo degli Usa è quello di continuare a far pressione su entrambe le parti per favorire il compromesso. Annapolis è stato solo un primo passo».
Nel 2008 gli Usa andranno alle elezioni. Che cosa attende il prossimo presidente? «Dovrà lavorare per restaurare l’immagine degli Usa. Sul piatto ci sono le questioni ambientali, come il riscaldamento globale, e i diritti umani anche nel caso di Guantanamo. Con l’Europa sarà difficile ritornare alla sintonia di un tempo. Confido però molto nei candidati democratici. Gli Stati Uniti dovrebbero rinvigorire le vecchie strategie: dopo la seconda guerra mondiale riuscirono a combinare il proprio potere con altri Paesi democratici, aiutando a creare democrazia e altre istituzioni. Tutti gli ordini imperiali, da Carlo V a Luigi XIV, a Napoleone, vennero abbattuti quando cercarono di imporre un ordine coercitivo sugli altri. Oggi gli obiettivi imperiali dell’America sono molto più limitati, ma con una grande strategia imperiale si corre il rischio che la storia si ripeta».
«In ogni era storica gli Stati Uniti hanno mostrato il desiderio di rigettare i trattati, violare le regole, ignorare gli alleati e usare la forza militare da soli» «Il prossimo Presidente dovrà lavorare per restaurare l’immagine del Paese. Con l’Europa sarà difficile ritornare alla sintonia di un tempo» Avvenire, 2 gennaio 2008