La vita in Russia fra Lenin e Stalin.
Di Rassegna Stampa (del 21/12/2007 @ 15:42:21, in Storia, linkato 1276 volte)

"È precisamente ora, e solo ora, quando nelle regioni in preda alla carestia la gente mangia carne umana, e centinaia se non migliaia di corpi giacciono sulle strade, che possiamo - e quindi dobbiamo - portare avanti la confisca dei valori posseduti dalla Chiesa con la più selvaggia e spietata energia, non fermandoci davanti ad alcuna resistenza".

Già da queste poche righe, inviate da Lenin a Molotov, il 19 marzo del 1921, in una nota segreta dell'Ufficio politico, si può ravvisare la cifra di un regime che sin dalla sua fase iniziale, nel momento della costruzione del nuovo Stato rivoluzionario, evidenziava quei caratteri che si sarebbero poi rivelati i tratti distintivi della storia sovietica: dalla cruenta realtà della costruzione dello Stato socialista al "ruolo della personalità della storia"; dalla recrudescenza del terrore durante la guerra civile alla politica antireligiosa; dal perdurante conflitto tra il regime sovietico e il mondo delle campagne fino all'uso politico delle carestie per mettere a tacere le rivolte contadine contro il "partito revolver", così veniva chiamato il Pcus nelle campagne. Su tutti questi temi si concentra l'ultimo libro di Andrea Graziosi, L'Urss di Lenin e Stalin. Storia dell'Unione Sovietica 1914-1945 (Bologna, il Mulino, 2007, pagine 652, euro 30) dal quale è tratta la citazione iniziale. Una narrazione storica di largo respiro con una documentazione archivistica e bibliografica amplissima - di estremo interesse, peraltro, il saggio bibliografico a conclusione del volume - che non si esaurisce soltanto nella descrizione del terrore rosso, delle purghe staliniane o dell'abominio dell'universo concentrazionario sovietico ma che riesce ad intrecciare i dati economici con le risoluzioni politiche, i quozienti statistici con la memorialistica, le peculiarità geografico-territoriali con la dimensione culturale, senza nulla togliere al racconto cronologico che costituisce l'architrave di tutta la narrazione.

Il punto di partenza del volume di Graziosi è costituito dalla constatazione che l'impero russo, nel 1913, seppur calato in un contesto socioeconomico ancora arretrato e contradditorio, era un "paese vivissimo in pieno boom economico e culturale e in rapida evoluzione". L'autore non condivide, pertanto, la tesi di coloro che hanno visto una Russia immobile, fatalmente autocratica, condannata a una rivoluzione già preannunciata dal 1905 e "destinata a passare dallo zarismo al bolscevismo". Al contrario, la rivoluzione d'ottobre rappresentò, al tempo stesso, una "sorpresa" per tutti i dirigenti rivoluzionari, compreso Lenin, e "un colpo di mano" conseguito con "il tacito appoggio" di una parte importante del paese. L'avvento del comunismo, definito dall'autore come una "nuova parareligione laica", si basò, però, su un equivoco di fondo incarnato da "due bolscevismi": quello dei contadini-soldati e quello "vero" della piccola ma risoluta "élite politica che si fregiava di questo nome". E proprio al centro dell'analisi di tutto il volume si colloca questo rapporto tra il nuovo Stato rivoluzionario e i contadini, tra la nuova élite politica, che si sarebbe contraddistinta per il "talento e l'aggressività nella costruzione statuale", e i vecchi sudditi che, all'indomani dei decreti leninisti sulla pace e sulla terra, avevano guardato con favore la nascita del nuovo Stato.

Tra il 1918 e il 1933 - con una breve pausa durante gli anni della Nep - si scatenò, invece, un conflitto violentissimo all'interno del quale la carestia, come afferma Graziosi, deve essere "considerata parte integrante della guerra tra Stato e contadini". Lenin invitò ad "impiegare metodi barbari", a reprimere "senza pietà" impiccando in modo visibile "centinaia di kulak", alla "deportazione di proprietari terrieri e anche di interi villaggi", a fucilazioni "percentuali" per punire i "covi" delle rivolte e al bombardamento aereo di interi villaggi che "si dedicavano al libero commercio". Tra il 1920 e il 1921 "le rivolte e le repressioni furono brutali". Se in pieno inverno i contadini siberiani gettavano acqua sui comunisti "per trasformali in statue di ghiaccio che servissero da monito ai loro compagni", ad agosto l'Armata Rossa del Generale Tuchacevskij utilizzò i gas asfissianti contro i "banditi rifugiati nei boschi".

Visti in questa prospettiva, sostiene Graziosi, gli anni Trenta cessano di essere "straordinari" e straordinario diventa semmai l'ammorbidimento dei cinque anni della Nuova Politica Economica che in questa ricostruzione, dunque, rappresenta solamente una parentesi del conflitto tra i contadini e il regime sovietico. Nel gennaio del 1929, quando ormai la crisi e la carestia erano alle porte e la durezza e la determinazione diventavano le uniche risorse per proseguire nella costruzione dello Stato socialista, Georgij Pjatakov, in quel momento vicepresidente della Banca di Stato, arrivò ad "esaltare la barbarie come una virtù". Fame, violenza e coercizione si accompagnarono alla "promozione di centinaia di migliaia di nuovi quadri" di estrazione popolare e ad un ampio processo di distruzione di interi gruppi sociali e nazionali. Il culmine fu raggiunto, asserisce l'autore, "con lo sterminio per fame di milioni di persone in Kazakstan, Ucraina e Caucaso settentrionale tra il 1931 e il 1933". Nella primavera del 1932 "nella guarnigione di Kiev circolavano voci sulla vendita di carne umana nei mercati cittadini" mentre a giugno un rapporto spiegava che in Ucraina i suicidi dei contadini per non morire di fame si alternavano a frequenti casi di cannibalismo. In questo clima, a Mosca fu presa la "decisione di usare la carestia per risolvere la crisi impartendo una lezione ai contadini che rifiutavano la nuova servitù". Nel Caucaso settentrionale, ad esempio, come evidenzia Graziosi, il "commissario di ferro" Lazar' Kaganovic, "si servì di multe in natura per privare i contadini anche di carne e patate", causando, in questo modo, una serie di "carestie artificiali localizzate". La crisi del 1931-1933, oltre alle vittime della fame, provocò un disastro demografico con un altissimo numero di aborti e divorzi. I dati riportati da Graziosi sono a dir poco eloquenti: nel 1934 a Mosca si potevano contare tre aborti per ogni nascita e 48 divorzi ogni 100 matrimoni. La questione contadina - a cui si legava inscindibilmente la questione nazionale - e la politica antireligiosa erano strettamente correlate. Già Lenin, prima di Stalin, aveva deciso "di usare la carestia per attaccare chiese e religioni". Nel 1921 la maggior parte dei monasteri era stata chiusa e "molti corpi dei santi furono dissacrati in azioni accompagnate da arresti e fucilazioni".

Per tutto il decennio degli anni Venti la situazione si aggravò ulteriormente e nei primi quattro mesi del 1930 più di 5.000 religiosi furono arrestati mentre le organizzazioni ecclesiali furono ridotte alla clandestinità con il progressivo "inselvatichimento" di pratiche e credenze che dettero spunto alla nascita di numerose sette e forme di devozione spontanea. "Nell'eparchia di Kiev - scrive Graziosi - su 1.710 chiese funzionanti nel 1917 ne restavano aperte nel 1939 solo due, tutti i monasteri erano stati chiusi ed erano attivi solo tre popi rispetto ai 1.435 di vent'anni prima". La Chiesa ortodossa era sull'orlo di un abisso e, paradossalmente, fu solo l'intervento tedesco in Urss e lo scoppio della seconda guerra mondiale a salvarla. In questo clima, mentre veniva combattuta la grande guerra contadina, da un lato si diffuse il culto della violenza tra i dirigenti di partito e, dall'altro lato venne costruito il "discorso ufficiale" sul nuovo Stato rivoluzionario, vale a dire la "rappresentazione mitologica ricalcata sull'ideologia originaria". L'artefice principale, il cantore del regime, fu Maksim Gor'Kij che, dopo le iniziali ritrosie, sposò a pieno la causa stalinista. Quella sovietica è "una storia tragica", scrive Graziosi, che iniziando con una guerra civile, tocca il genocidio con le carestie del 1931-33, passa attraverso la seconda guerra mondiale per poi trasformarsi in un'ansiosa ricerca di tranquillità e terminare, infine, con un segretario del Partito comunista che, paradossalmente, "annuncia in televisione, in una notte di Natale, il pacifico scioglimento di uno Stato già così potente e violento". (©L'Osservatore Romano - 21 dicembre 2007)