Le recenti dichiarazioni di stampo razzista di James Watson, sulla inferiorità genetica dei neri, hanno in parte screditato un uomo che era stato simbolo, per alcuni atei celeberrimi, del nesso inscindibile che esisterebbe tra ateismo e razionalità.In realtà, a chi avesse voluto guardare la realtà senza gli occhiali rosa dello scientismo, Watson è sempre apparso un personaggio ambiguo, capace di coniugare competenze innegabili e ottima capacità di marketing. Watson ha sempre amato, intendo, celebrare se stesso e trarre, dalla sua scoperta, profezie ardite sulle possibilità umane, così da diventare una icona del moderno prometeismo.
Brenda Maddox, nel suo “Rosalind Franklin” (Mondadori, 2002), racconta i retroscena della scoperta della struttura del Dna, che valsero a Watson, Crick e Wilkins il premio Nobel nel 1962. La Maddox, in particolare, ricorda come Watson, all’indomani del Nobel, decise di scrivere un testo, “La doppia elica”, di cui aveva preparato una prima versione, che però sollevò le ire dei genitori della Franklin, una bravissima ricercatrice morta di cancro troppo presto per vedere riconosciuti i propri meriti. Anche Crick e Wilkins si erano indignati, e avevano protestato vivacemente. Watson infatti, come scriverà Wilkins, era stato profondamente “ingiusto nei miei confronti, nei confronti del dottor Crick e di quasi tutti quelli che vi sono menzionati, a eccezione del professor Watson stesso”. Dinnanzi a una tale levata di scudi l’Università di Harvard si rifiutò di pubblicare il libro di Watson, che da allora sarebbe stato di continuo perseguitato dal dubbio di quanti videro e vedono in lui uno scienziato di valore, ma anche un uomo abile e furbo, pronto ad approfittare di acquisizioni altrui. Da allora Watson sarà spesso costretto a riconoscere di essersi servito di una importante fotografia di Rosalind, che aveva costituito il punto di svolta del suo lavoro: “Il problema che ha continuato a procurare disagio a Watson, era aver utilizzato i dati sperimentali di Rosalind alle sue spalle, senza mai metterla al corrente in termini chiari. Né lo fece Crick…”.
Detto questo, ricordato come le vicende di un laboratorio scientifico assomigliano assai da vicino alle miserie umane di tutti i giorni e di tutti i mestieri, interessa qui ricordare quali sono state le affermazioni filosofiche di Watson che hanno contribuito a farne, come si diceva, un simbolo. Nel suo “Dna, il segreto della vita” (Adelphi, 2004), Watson arriva addirittura ad affermare che la sua scoperta del Dna è servita a penetrare “il segreto della vita”, confermando “la rivoluzione del pensiero materialistico dell’Ottocento”. Nella vita, scrive ancora Watson, non vi è “niente di speciale”, ed essa “non è altro che una questione di chimica”, come tale assai semplicemente comprensibile.Coerentemente con questi ragionamenti, così antitetici rispetto a quelli del grande chimico Chargaff, che soleva definire la vita come un “mistero impenetrabile”, ma anche del suo collega Crick, Watson trae delle conseguenze: se il Dna è tutta la vita, allora ogni distinzione tra uomo e uomo, e ogni alterità tra uomini e animali, è riconducibile solo ed esclusivamente ad esso. Di qui al razzismo il passo è breve: la differenza di sviluppo tra bianchi e neri non deriverebbe da dissimili culture, storie ed educazioni, ma sarebbe un fattore genetico, e come tale incolmabile.
Ma il ragionamento più assurdo di Watson è quello per cui, una volta scoperto il Dna, cadrebbe ogni possibile spazio per un sentimento religioso, identificato da Watson, erroneamente, con la credenza nell’antico “vitalismo” pagano: “C’è qualcosa di divino all’interno di una cellula, qualcosa che si chiama vita? La doppia elica rispondeva a questa domanda con un no definitivo”.Il programma e il programmatoreDue sono le considerazioni da fare. La più immediata: Watson scambia il codice di funzionamento della cellula, che è una modalità, con la causa prima del funzionamento stesso. Come un critico che isolando le lettere di un verso, ritenesse così di aver dimostrato l’inesistenza del poeta; o come un tecnico del computer che, scoperto il linguaggio di un programma, postulasse l’inesistenza del programmatore, spiegando che il programma si autogiustifica da sé, in quanto è capace, da sé, di funzionare. Ma la considerazione più importante è che Watson ha confuso una religiosità di tipo pagano, animista, vitalista appunto, che quindi intravede nella vita fisica e biologica forze divine, libere, immanenti, con l’esistenza di un principio trascendente, personale, creatore, proprio della filosofia cristiana. Watson dunque, se corretto, suggerisce ai filosofi un concetto: il Dna confuta, al più, il panteismo, l’anima mundi dei pagani e di Giordano Bruno, perché esclude la possibilità, appunto, di un vitalismo divino interno alla materia.Per chi crede in un Dio trascendente, invece, che la cellula abbia un suo funzionamento autonomo, regolato, normato, è non solo logico, ma obbligatorio, dal momento che ogni corpo, terrestre e celeste, deve essere sottomesso alle leggi poste dal suo Creatore. Nello stesso tempo, la fede in un Dio trascendente esige la differenza tra materia e spirito, differenza che Watson non fa che ammettere candidamente quando scrive che le nostre conoscenze sulla “coscienza umana” sono assai “rudimentali” (sebbene poi cerchi di spiegare che l’amore è “il più grande dono elargito dai nostri geni all’umanità”). Questo perché la coscienza e l’amore, non sono regolate dal Dna e da nessun codice chimico, e nessuno scienziato vi potrà mai mettere sopra le mani o il microscopio.