Torno sul tema dell’avviato trasferimento degli anziani ospiti dalla civica casa di riposo di via S. Giovanni Bosco all’ex Ospedalino di Trento (ora ribattezzato “Angeli Custodi”), in seguito alla campagna stampa lanciata in questi giorni a favore della nuova Rsa di via della Collina.
La struttura viene descritta come una sorta di “albergo a cinque stelle”, dotato di tutti i comfort e paragonabile a quelle svizzere e scandinave (i cui Paesi chissà perché sono sempre considerati il modello di riferimento), insomma una soluzione ideale per i fortunati anziani che ne saranno ospiti: alla fine, si dice, una novantina, ma secondo alcuni non arriveranno a 70.
Certo, è vero, per i familiari e i volontari che andranno a trovarli c’è il “disturbo” di dover salire ogni volta da piazza Venezia lungo una strada stretta ed impervia. Ma cos’è mai questo piccolo fastidio rispetto a ciò che gli anziani trovano lassù: reception, zona ludico-riflessiva, palestra, ristorante, fisioterapia, sala conferenze, cappella, stanze a due e 4 letti ciascuna con propri servizi, per non parlare della splendida vista sulla città e il Monte Bondone, e molto altro ancora.
E poi per i trasporti c’è il bus navetta che già percorre via della Collina ogni 20 minuti (domeniche escluse), mentre chi sale in automobile non ha problemi grazie ai 90 parcheggi offerti dalla nuova struttura.
Conclusione: le critiche mosse al trasloco definitivo di gran parte della casa di riposto di via S. Giovanni Bosco a quella di via della Collina dal Comitato Al Centro gli Anziani, che per chiedere al Comune di rivedere questa soluzione aveva raccolto le firme di 11mila cittadini e inscenato anche qualche manifestazione di protesta, sarebbero non solo ingenerose e ingiustificate, ma anche sintomo di un atteggiamento “capriccioso”, tipico dei bambini viziati avvezzi a ingigantire i dettagli sgraditi (la strada) quando bisognerebbe invece rallegrarsi ed essere orgogliosi di “gioielli” architettonici come questo, meritevoli di ricevere l’applauso dei destinatari e dei cittadini tutti (perché, come nota Concetto Vecchio sul Trentino, “in quanti altri posti d’Italia dispongono di tanta abbondanza?”).
Bene, questo è l’idilliaco quadretto dipinto dai giornalisti dopo la loro visita all’ex Ospedalino. Ciò che lascia allibiti e amareggiati è la superficialità delle loro osservazioni e dei loro giudizi. Il fatto di restare abbagliati dalla nuova struttura limitandosi a tesserne le lodi, se da un lato significa sicuramente compiacere i pubblici poteri (ma è questo il compito di un giornalista?), e in particolare l’amministrazione comunale, che hanno voluto la nuova casa di riposo, dall’altro equivale ad ignorare l’unico, vero problema da sempre evidenziato dal Comitato.
E il problema sta in questa semplice domanda: anziani così, già fisicamente staccati e talvolta sradicati per vari motivi dal loro ambiente, quello naturale, domestico e rassicurante della famiglia, della relazione e della condivisione dell’esistenza con i loro cari, sui quali sapevano di poter contare; anziani così, come si suol dire (con una gelida espressione) “istituzionalizzati”, vale a dire inseriti in quello che resta pur sempre un “ricovero” per quanto sfavillante, moderno e attrezzato possa essere; ecco: persone così, di cosa, primariamente ed essenzialmente, hanno bisogno?
Di una sola cosa: di non essere e di non sentirsi sole.
In due modi.
Primo. Percependo che qualcuno, “fuori” da quelle mura, pensa a loro ed è vicino anche fisicamente e lo dimostra andandoli a trovare, facendo loro compagnia. Il più possibile. Anche tutti i giorni. Anche più volte al giorno come da sempre avviene. Questo “qualcuno” sono i figli, i nipoti, le sorelle, i fratelli, gli amici, oppure i volontari che gratuitamente cercano di rispondere alle loro piccole e grandi esigenze di ogni giorno.
Secondo. Mettendo gli anziani ospiti nelle condizioni di muoversi da soli, accompagnati o in carrozzella, per andare loro stessi ad incontrare gli altri, di immergersi nella realtà esterna, uscendo il più spesso possibile dalla struttura protetta per sentirsi vivi, concedersi un giro in città per puro piacere o seguire magari uno dei tanti eventi proposti nelle vie e piazze del centro, stare fra la gente, distrarsi e, perché no?, divertirsi un po’ in mezzo agli altri.
Quel che in ogni caso è irrinunciabile è assicurare questo contatto, questo rapporto con gli altri, dentro e fuori la casa di riposo. Rapporto con gli "altri" e la città che il personale, per quanto competente, specializzato, sensibile, numeroso, non può sostituire.
Contatti e rapporti che sono il filo sottile, delicato, informale, eppure vitale, grazie al quale questi anziani si sentono ancora partecipi del mondo esterno, coinvolti e “presenti” in una realtà umana e sociale diversa dal microcosmo, pur completo di tutto, rappresentato dall’istituto.
Se questa è l’esigenza fondamentale degli ospiti, è chiaro che la struttura dovrebbe essere funzionale ad essa. Anche e soprattutto con la sua collocazione. Ed è altrettanto evidente che l’ex Ospedalino ha forse, anzi, sicuramente tanti pregi, ma non questo. Non quello irrinunciabile di favorire e agevolare il più possibile sia l’uscita degli anziani in città sia le visite dei loro familiari e conoscenti, molti dei quali li vanno abitualmente a trovare anche 3-4 volte al giorno.
E’ oggettivamente innegabile che tutto ciò, con la casa di riposo in via della Collina, avverrà con più difficoltà e minor frequenza di prima.
Questo è il punto.
Non a caso uno dei principali requisiti richiesti oggi alle case di riposo, specie se di nuova realizzazione, è che siano vicine se non interne ai centri urbani, per favorire l’accessibilità alle strutture e dare al tempo stesso agli ospiti l’opportunità di frequentare il tessuto urbano esterno. Ed è appunto questo requisito non secondario, anzi, irrinunciabile per la qualità della vita degli ospiti, che l’ex Ospedalino non offre rispetto alla vecchia “civica” casa di riposo di via S. Giovanni Bosco, dove per quanto manchi la vista panoramica e vi sia la necessità di una ristrutturazione, il contatto diretto, immediato con i parenti, i volontari e la città era pienamente garantito.
Assistiamo così al paradosso di una Trento impegnata, da un lato, ad abbattere ogni possibile barriera architettonica che lungo le strade come negli edifici pubblici e privati discrimina chi ha particolari esigenze di movimento, e pronta dall’altro ad incrementare le distanze e a rendere più difficili i rapporti tra sé e i propri anziani.
Che finiranno magari nel piccolo paradiso a 5 stelle della casa di riposo “Angeli Custodi”, ma ai quali forse mancheranno gli “angeli custodi” in carne ed ossa, quelli veri ed umani di cui più di ogni altra cosa hanno bisogno.
Gian Burrasca