C’è un piccolo paese nel Salento, si chiama Scorrano. E’ un brulicare di case basse e bianche percorso da un dedalo di vie viuzze sconnesse, dove il feroce sole del pomeriggio a fatica getta i propri raggi, quando non batte in ritirata davanti ai folti tendaggi che separano la porta della casa dalla strada. Nelle ore del pomeriggio, quando tutto è fermo, percorrere quei tragitti fra mura di pietra color crema, col sottofondo delle cicale e le narici colme del profumo di Puglia, è una rivelazione.
Quella di un popolo che nelle ore calde si rintana ai piani bassi delle case dietro tende stinte e porte sconnesse. Ma quando viene la sera e l’orizzonte si tinge di giallo, arancione, oro e azzurro, con i colori che sfumano l’uno nell’altro, le porte si aprono, le tende si scostano, e “dagli antri”fan capolino giovani donne dall’aspetto pieno di salute, dai fianchi larghi e dalla pelle tesa e brunita. Spesso portano in braccio lattanti o bimbi più cresciutelli che in quelle braccia sembrano trovare il conforto di un rifugio inespugnabile. Sarà che negli occhi della donna del sud è custodito qualcosa di atavico, di perenne, sarà che in fondo alle loro pupille liquide e scure, giace, come impigliato in una rete, un frammento di tutta quella luce e di tutto quell’azzurro che hanno bevuto, scrutando il cielo e il mare e il bagliore d’oro dei limoni che inondano i giardini dagli alti muri. Traluce da quei volti sempre così sensuali una fierezza di madri impavide “appena uscite dalla terra”, dopo un dura lotta. Quasi si trattasse di creature arboree, tanto è naturale il loro essere, tanto è volitivo e spontaneo il loro portamento. Queste donne sono fiori che si accendono di sensualità a quindici anni per poi sfiorire in fretta.
Le porte si aprono, le tende si scostano e se per caso getti lo sguardo incuriosito dentro quelle dimore dalle ampie volte, magari intravedi un giovane bello, dai bianchi denti e dalla pelle scura che ti sorride, con un asciugamano allacciato in vita e i capelli corvini ancora bagnati.
Il quartiere si popola, le voci accendono di colore l’aria, tutto si apre e si mostra nella più solare naturalezza.
Escono dai “loro buchi”, la sera, anche i vecchi carichi di anni, con volti ricamati dal sale e dal sole, dall’acqua e dal vento; sembrano alberi centenari, e hanno splendidi solchi sulla fronte e sulle guance, quasi il mare, oltre le rive e gli scogli si fosse preso la briga di portar via il tempo e al giovinezza da quelle maschere che furono fresche e giovani.
Questo popolo della sera, della luce trasparente e liquida che rende leggero tutto ciò che sfiora, anima i vicoli di un’allegrezza, di un colore, di una spalancata gratuità che dischiude lo spirito cupo e chiuso di noi settentrionali.
Se mi fermo per qualche istante evitando di recar disturbo davanti ad una di queste case, lungo uno qualsiasi di questi vicoli, scorgo profonde stanze, dove, in un disordine allegro di mobili dalle molte e diseguali fogge non manca mai l’immagine di un santo o di una madonna che troneggia sul suo altarino lindo, incoronato da fiori e da una teoria di candele.
Quello che, osservando tutto ciò, si fa presente alle coscienza in modo subitaneo, è lo spirito di devozione, la sana e purissima fede del popolo.
A Scorrano ogni anno, per la festa di Santa Domenica, il paese si veste di luminarie, le vie e le facciate delle case indossano paramenti luminosi di ineguagliabile bellezza.
Muri di luce accolgono i visitatori, corridoi e gallerie dalle multiformi sagome e dai cangianti colori ci immergono nella dimensione della festa.
Qui, la religione continua ad essere prima di tutto stupore e mistero, essa si nutre di ataviche e inconfessate paure, del ricordo dell’invasione Turca e dei martiri di Otranto, le cui teste riposano a memoria della carneficina nella meravigliosa cattedrale.
In queste terre, il miracolo è di casa, come a Monte sant’Angelo dove Gabriele Arcangelo colla sua apparizione consacrò per sempre una chiesa nelle viscere della montagna, o come a S. Giovanni Rotondo dove visse e operò Padre Pio e dove prima di lui si convertì S. Camillo di Lellis.
E la gente accorre alla sagra, giovani e vecchi gelosi del proprio patrono. Vengono da lontano i compaesani, schiere di immigrati in Svizzera, Germania, Belgio che programmano le ferie per la festa. I gesti son sempre gli stessi, le parole pure, si invoca una grazia,o semplicemente ci si segna, con devoto rispetto davanti al sacerdote che per molti ancora è un punto fisso, un riferimento.
Nelle parole, nelle credenze, nella pietà di questi popoli tutto si compone e nulla deve essere spiegato, perché Dio conosce ogni lingua ma soprattutto il cuore umile di chi lo cerca.
Nessuna ricerca, nessun bisogno di razionalizzare il senso di un rito, si va a messa, si fa la comunione, ci si confessa, come sempre si è fatto. Perché davanti a Dio, tutti sono uguali e nessuno è sapiente.
I ragazzi durante la processione caricano in spalla la statua del santo e la portano per le vie del paese e la folla partecipa felice, sicura della buona fortuna che non potrà mancare, mentre le finestre addobbate salutano il passaggio del santo, la sua presenza viva, il ricordo dei miracoli e dei gesti memorabili da lui compiuti.
Piangono lungo la via, le fanciulle; le diresti a un primo sguardo superficiale isteriche, ma non è così; esse ricordano i dolori, e pesano la durezza della vita, l’aspro succedersi delle speranze e delle delusioni. La vita di alcune di loro ha la sagoma di un ulivo centenario dal tronco attorto, emerso vincitore dopo una dura lotta. I loro padri sono morti e i mariti immigrati lontano per mandare a casa il necessario per vivere.
Tra la folla, forse fra coloro che portano il santo c’è qualche snaturato, qualche assassino, che incoerente magari chiede perdono o vuole espiare la sua ultima colpa.
Fede, santi e peccatori, contraddizioni insolubili, mistero e grazia visibile. Tutto, questa sera, si mescola ed esalta l’umano per ciò che esso è ; un peccatore.
E’ l’immersione completa dello spirito del singolo nello spirito collettivo, è il rivivere reale della storia e del cammino dell’uomo in una continuità che non conosce strappi. Tutto così distante dalle fasulle lacrime dei divi dello spettacolo che pure molti adorano senza sentirsi sciocchi.
Si esercitino pure i sociologi, gli antropologi, gli psicologi e certi teologi presuntuosi, professionisti della religiosità matura, che altro non è che una fede senza carne, puro intimismo morboso e divorato dal dubbio.
Ma il popolo non li degna di cura, perché la fede, proprio nei momenti della festa di paese, della sagra dedicata al santo, rivela la propria natura intima, il suo essere atto collettivo, carnale, viscerale, percorso da un soffio di pazzia. Un momento di condivisone che ha radici nell’inconscio dei singoli e del tutto. Fluiscono in tutto questo, sentimenti forme e riti che passano di padre in figlio come un prezioso patrimonio genetico.
E nessun colpo di spugna, nessuna riforma dall’alto ad opera di esangui professionisti della religione può sostituire la forza vitale racchiusa in tutto questo.
Forse perché la festa e il rito sono veri, come tutto ciò che emerge dalla vita di tradizioni bimillenarie.
Così, quando nel mese di luglio, rientrano nel piccolo borgo salentino i maestri delle luminarie, per sfidarsi in una gara fatta di arte e bellezza che prepara le vie e la scena al passaggio della processione, non possiamo che stupire ammirati. E’ chiaro come in questi momenti la religione della gente e le istituzioni- specchio del popolo - si incontrino, perché entrambi sentono di appartenere alla stessa storia, di provenire da lì.
E nessuno si appella al vuoto principio della laicità che estirpa l’anima ai popoli, che soffoca le tradizione confinandole nel chiuso di un folcklore patetico.
Qui, non si inventano astratte feste umanitarie, percorse da psichedelici fari e dalla recita di poesie contemporanee in cui ogni etnia possa riconoscersi. Qui non si inscenano riti multietnici, che nessuno conosce, elaborati da cervelli distanti.
La fede del popolo nelle forme che le sono proprie è semplicemente cristiana passione per l’uomo, da qualsiasi luogo provenga. Per questo, quando assistiamo ad una delle innumerevoli sagre che popolano il Sud, proviamo una nostalgia e la certezza che il mondo, una civiltà, un popolo, non possono vivere sradicati dalla propria storia.
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