L’autorevole antropologo cattolico Fiorenzo Facchini scrive dalle pagine de “L’Avvenire” (Agorà, 2 agosto 2007): “Di per sé nella visione darwiniana viene esclusa l’idea di disegno e anche l’uomo viene visto come un evento fortuito. Ma in una visione evolutiva aperta al trascendente, il progetto di Dio sulla creazione può realizzarsi attraverso le cause seconde, attraverso il corso naturale degli eventi senza dover pensare a interventi miracolistici, fermo restando l’intervento diretto di Dio per l’anima dell’uomo.” Non avrei alcun dubbio a credere che anche per gli esseri viventi Dio si sia servito di cause seconde per continuare la sua azione creatrice, così come ha fatto per le stelle o per le montagne, se però queste fossero quelle reali, non quelle fittizie. Per la teoria dell’evoluzione gli organi, gli apparati, le reti metaboliche, il codice genetico, la coscienza… sono solo “incidenti congelati” (Boncinelli; Mayr) ovvero casuali e fortuite combinazioni di materia che avrebbero potuto benissimo non aver mai visto la luce.
“Il nostro numero è uscito al lotto!” afferma perentorio il premio Nobel Jaques Monod nel suo “Il caso e la necessità” del 1970. E Stephen Gould, forse il più grande paleontologo dei nostri tempi (recentemente scomparso) rincara la dose: “se il gioco dell’evoluzione potesse ripartire da capo, noi potremmo benissimo non uscirne più fuori”. Insomma, queste benedette cause seconde non sarebbero “cause”, ma “eventi” irripetibili, senza alcuna razionalità, senza alcun progetto: in pratica non esistono. Le stelle hanno le loro cause seconde: la massa e la forza di gravità. Le montagne hanno i moti convettivi del mantello terrestre. Le automobili hanno i loro ingegneri. La “Gioconda” ha il suo genio. Perfino il graffito ignobile della metropolitana ha il suo autore: solo gli esseri viventi sono senza “firma”! E nessuno deve stupirsene, pena la scomunica dall’accademia della scienza! La cellula, così come ogni essere vivente, costituisce la massima “complessità” disponibile in natura, quindi esige la massima “informazione”, ovvero il massimo della “progettualità”; che cosa propone la teoria dell’evoluzione, a fronte tutto questo: la mutazione, che è un “errore” e la selezione naturale, che è l’ambiente. Nulla che abbia competenza morfogenetica! Con gli errori di battitura non si possono certamente spiegare i testi, così come il paesaggio non può in alcun modo determinare le forme degli esseri viventi. Abbiamo bisogno di una teoria che faccia i conti con questa complessità, che sappia inglobare la finalità presente in ogni struttura, che soddisfi le esigenze della nostra ragione.
Fin che il discorso rimane sulle generali, la teoria dell’evoluzione continua ad esercitare il suo fascino: è, in fondo, quell’idea di progresso che rappresenta lo stimolo quotidiano al nostro lavoro, ma quando si analizzano le applicazioni concrete della teoria, se ne scopre tutta l’inadeguatezza. Nessuno che osi anche solo lontanamente dare una spiegazione evoluzionistica della nascita della prima cellula, o dell’invenzione del codice genetico, o ancora del passaggio dall’acqua alla terraferma, o ancora della formazione della placenta, o, infine, della comparsa dell’uomo. L’uomo nasce - ci si vuole far credere - per ergersi diritto sopra le erbe della savana e fuggire di fronte ai felini! Si crede all’evoluzione perché non si sa a cos’altro credere! Questa è alla fine la posizione di molti scienziati. Ma non è serio ragionare così. Vogliamo dati concreti, vogliamo spiegazioni razionali, vogliamo comportamenti ripetibili, vogliamo delle leggi. La recente decifrazione del Genoma Umano ci consegna una nuova verità: speravamo che il segreto della nostra vita fosse scritto nella biblioteca del DNA (tre miliardi di caratteri, ovvero di coppie di basi azotate) ma non è così. Abbiamo solo ventimila geni, più o meno come un topo o come un verme; abbiamo meno DNA di una rana. Le istruzioni per fare il nostro corpo in tutta la sua complessità non si trovano nei nostri geni, così come il nostro pensiero non si trova nei nostri neuroni. Siamo fatti di geni e siamo fatti di neuroni, ma sia il progetto che il regista si trovano “altrove”. Credo che la nostra ragione postmoderna debba compiere il grande passo di riconoscere che non ci è possibile individuare le basi materiali del progetto dell’essere vivente, perché non esistono. La vita di un animale è proprio questo “disegno” individuale che si serve dei geni così come delle cellule, ma non è riducibile a loro. La cellula è come una grandissima orchestra formata dai migliori professionisti, ciascuno dei quali sa suonare perfettamente il suo strumento e la sua parte. Ma è il direttore che li fa suonare insieme. La teoria dell’evoluzione non ha nulla a che fare con questa “vita”. Umberto Fasol Biologo, preside Istituto Alle Stimate di Verona