Sguardo realista o cecità ideologica
Di Irene Bertoglio (del 21/05/2007 @ 17:25:42, in Letteratura, linkato 1734 volte)
Il vero dramma è descritto da De Lubac: l’umanesimo ateo ha organizzato il mondo contro Dio ma alla fine si è rivelato anche contro se stesso! Ciò nonostante, all’interno di questa tragedia è stato possibile riproporre all’uomo l’annuncio cristiano nella sua assoluta originalità, rivolgendosi non al militante di una ideologia, ma direttamente a Dio. L’uomo, vinto ma non annichilito dal peccato, può ritrovare la propria umanità attraverso la presenza positiva del Creatore, può erigere la sua vita sulla speranza: è in questo incontro che la ragione umana nell’impatto con la fede trova possibilità di essere valorizzata. Il compito dell’uomo è allora quello di ricercare ciò che ancora non possiede, il domandare greco come cammino per la conoscenza di sé. Questa tensione è il requisito per un’esistenza umana finalmente rilevata nella sua identità profonda. Non si incoraggia ad una critica nauseante e superficiale: non sosteniamo un ottimismo ingenuo ma nemmeno uno sconfittismo pessimista; il realismo ci motiva ad essere attivi e non dei meri telespettatori del teatrino politico. Questa dose di sano realismo permette di tenere lo sguardo vigile cercando di scoprire il bene ed il bello e di lasciarsi stupire dalla realtà. Il problema è un atto profondo di orgoglio giocato sul concetto di Chiesa, vista come un’organizzazione umana o come corpo di Cristo: essa è detta universale proprio perché ha un respiro più ampio. La fede è il semplice riconoscimento di una Presenza, un incontro che ci abbraccia: altrimenti, qualsiasi altra visione della fede, seguace della disciplina o dell’ordine mentale, ci portano a vedere un Dio pronto ad aspettare la nostra morte, per decidere con una biro ed un block notes in mano per quanti anni, mesi, giorni, minuti e secondi dovremo scontare la nostra pena eterna. Uno scritto di C.S. Lewis, L’uomo nato cieco, ci aiuta a capire quale sia il giusto atteggiamento da tenere di fronte alle cose: Robin, appena rientrato dalla clinica per un’operazione che gli ha donato la vista, non riesce a darsi pace nella ricerca della luce. Tutte le spiegazioni che gli vengono date dalla moglie circa la luminosità degli oggetti, dei paesaggi circostanti, sembrano non esaurire la bramosia dell’uomo. Inizialmente il lettore viene affascinato da questo desiderio del protagonista di guardare oltre la superficialità, poiché sembra che ci sia un significato più profondo nascosto dietro ogni cosa, che ancora non si riesce però a cogliere. Una mattina, mentre la moglie Mary è a letto ammalata, Robin compie in casa delle azioni chiudendo deliberatamente gli occhi per provare ancora le sensazioni che aveva sperimentato quando era cieco: facendo ciò trova inaspettatamente piacere e sollievo dati anche dalla «dolce sensazione di fuga che giungeva dall’assenza di lei». Decide poi di uscire di casa e giungere nel luogo in cui era stato pochi giorni prima con Mary. Scorge così un pittore nei pressi dei bordi di un precipizio che, disegnando, gli spiega la sua intenzione di voler catturare la luce: Robin entusiasta e con tono vendicativo nei confronti del mondo si compiace nel credere di aver trovato qualcuno con cui condividere la sua presunta superiorità intellettuale. Si avvicina poi al precipizio: «l’espressione del volto del pittore cambiò: “Ehi, è pazzo?”. Fece per afferrare Robin, ma era troppo tardi. Era già solo sul viottolo. Dal fondo di un nuovo e subito svanito squarcio nella nebbia non giunse alcun grido, ma solo un suono così secco e netto che ce lo si sarebbe difficilmente aspettato dalla caduta di una cosa così soffice come un corpo umano; quello, e il rotolare di alcune pietre spostate». Una morte priva di umanità dunque, un tonfo come di qualcosa di prettamente materiale, privato dell’anima: ecco il destino di una figura impregnata di ottusità ideologica, che decide di cercare in modo solitario la Verità. Questa presunzione, che spesso tutti ci portiamo dentro, ci fa spacciare per “luce e reale” ciò che invece non è altro che la nostra idea: davanti alla realtà corriamo il rischio di negare l’evidenza in nome di una raffigurazione che noi stessi compiamo, che ci siamo prefigurati a priori, prima di “acquistare la vista” (tanto che di fronte ad una realtà diversa dall’immaginata, Robin preferisce richiudere gli occhi e vivere come prima, piuttosto che affrontarla). Ma questa non è nient’altro che la posizione infantile di chi, senza esperienza e infastidito da una guida, si ritiene in grado di quella forma mentis che coglie e capisce tutto, senza nemmeno riuscire a gustare ciò che ha intorno. Non a caso è il titolo del libro: non si parla di cecità fisica, ma di una condizione esistenziale insolubile. Robin aveva riacquistato la vista, ma, indipendentemente da tutto, era cieco.