Il dio unico.
L’altro giorno, in televisione, ho assistito alla dichiarazione d’amore di due giovani, lui senegalese lei italiana. Non so se la nazionalità possa tradursi meccanicamente nell’adesione di lei al cristianesimo e di lui all’islam, a ben vedere questo poco importa. Ciò che conta è che questi due ragazzi si dichiaravano amore e si ribellavano all’intrusione, nella loro storia, dei genitori di lei che giudicavano il loro desiderio di matrimonio, viziato, e quindi non legittimo. Sin qui niente da dire, soltanto che nessuno può con certezza valutare la relazione d’amore che intercorre fra due persone.
Che l’amore non guardi in faccia a nessuno, che spesso sopraggiunga come un turbine che tutto travolge è un fatto evidente; questa è l’essenza dell’amore romantico, amore che si esalta nella prova.
Ma il problema è un altro: alle riserve sollevate sulla loro unione abilmente sottolineate dall’intervistatore, i due giovani hanno risposto all’unisono: “Il Dio musulmano e il Dio cristiano sono lo stesso Dio”. Ovvio, altrimenti dovremmo dirci politeisti.
A questo punto il servizio televisivo ha svolto ben bene il compitino mandando a chiare lettere un messaggio che pacifica i cuori e le menti, estrapolando dalla vicenda una lezioncina che certamente i promessi sposi non intendevano dare. L’unico Dio non ama le differenze.
Perciò il problema è rappresentato dalle religioni.
Ma le cose stanno proprio così? Cosa si cela dietro l’ingenua dichiarazione dei due giovani? Credo questo: in primo luogo l’idea che le religioni siano un impedimento all’incontro e al dialogo, anzi, che quanto più un credente si riconosce nella propria fede tanto più egli diventa un problema, un motivo di divisione.
Il passo successivo dovrà perciò essere la cancellazione di ogni istituzione, ogni chiesa, ogni rigidità confessionale, perché in fondo si tratta soltanto di sovrastrutture di elaborazioni culturali, di prodotti storici.
I propugnatori di tale tesi diranno inoltre: “restituiamo la fede alla sua purezza originaria, alla nudità di un rapporto diretto fra Dio e l’uomo”.
Questo è il punto, e questa la mia domanda: cosa resta di Dio qualora cancellassimo le religioni, cosa resta della fede se non un vago sentimentalismo? Nella dichiarazione dei due giovani è racchiusa l’essenza della religiosità del post-moderno. Essa esprime l’idea di un Dio su misura e privato, perciò pubblicamente irrilevante.
Il messaggio sotteso al servizio di Rai Tre, non è un messaggio di tolleranza bensì di scarso rispetto sia verso l’islam che verso il cristianesimo, perché non riconosce il valore della diversità.
Perciò esso non alimenta il dialogo ma lo soffoca, perché dove vien meno l’alterità e la differenza, tutto tace, tutto si stempera e tutto muore.
Perciò la portata eversiva di quella dichiarazione pacifica deve farci riflettere; essa esprime l’illusoria idea che la perdita della propria identità sia un prerequisito per ogni vero incontro, che la diversità possa essere superata con un proclama volontaristico di amore, ahimè privo di ogni realismo.
Per questo, il discorso del Papa a Ratisbona, torna utile per comprendere meglio questo “piccolo caso”. In esso è sollecitato l’incontro che nasce dalla diversità, il fecondo arricchirsi delle fedi nel dialogo e nel rispetto di tradizioni e convinzioni che vicendevolmente si purificano nel comune e faticoso percorso di chi cerca la verità.
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