La vocazione? Come la siepe!
Di don Massimo Vacchetti (del 30/04/2007 @ 18:56:04, in Religione, linkato 1853 volte)
Domenica è stata la giornata delle vocazioni. Il Papa ha consacrato sacerdoti 22 giovani di Roma. Una vocazione è un miracolo. Molte volte mi è stata posta la domanda: “come ti è nata la vocazione?”. Rispondere a questa domanda è impossibile perché è un’opera di Dio, la vocazione. Quando Dio conquista un’anima - cioè fa percepire in essa che Lui è la bellezza che essa cerca, che Lui è la vita che il giovane desidera, che Lui è la verità che il cuore domanda – accade il miracolo. I miracoli, compresi quello che Gesù, il Nazareno, ha compiuto nei giorni della sua vita terrena, non sono tesi, primariamente, a guarire un’infermità. Lo scopo del miracolo è di essere segno. Riconoscendo l’impossibile accadere, uno, a cominciare dal beneficiario del miracolo, è chiamato (vocazione, appunto) a inginocchiarsi e a dire: “Mio Signore e mio Dio”. Non di meno avviene per le vocazioni di speciale consacrazione, ma potremmo osare a dirlo anche della vocazione nuziale. Uno intuisce, dalla vocazione come miracolo e quindi dalla sua indeducibilità, che Dio c’è. Come fa un giovane, oggi, nel contesto nostro, a consacrarsi verginalmente, sottoponendosi, secondo obbedienza, all’autorità di un uomo, il vescovo? Uno così o è un pazzo che decide di perdere ciò che di più bello c’è nella vita, cioè l’amore di una donna e la libertà, o ha intuito, meglio, ha intravisto qualcosa che agli occhi del mondo non è dato di vedere in modo altrettanto distinto. Come fanno due giovani con tutte le possibilità, giuridiche e culturali di stare insieme, a scegliere di legarsi l’uno con l’altro perdendo, apparentemente, quella libertà che ci è così cara. La vocazione è la professione di fede più bella e più limpida che Dio c’è e non solo; che Dio è Bellezza, Verità, Vita, fortezza, certezza della Sua presenza fino alla consumazione dei secoli e che tutto questo sia incontrabile e di Lui se ne possa fare esperienza. Fino a non tanto fa quando si parlava di vocazione il campo dell’intendimento era riservato a quello sacerdotale e religioso. Ora è necessario avvertire come anche quella nuziale sia una vocazione nel senso soprannaturale del termine. Se è vero che l’unione di un uomo con una donna è secondo natura, è altrettanto vero che il contesto culturale rifiuta radicalmente questa origine e, dunque, la pretesa di assoluta e radicale diversità del matrimonio da forme positive di convivenza fino a contestare, addirittura, il primato dell’eterosessualità. Come sempre accade nella storia della teologia e della spiritualità, pur senza rinunciare alla battaglia culturale in difesa della ragione del diritto naturale, le avversione dilatano la possibilità di comprensione e di annuncio del “Vangelo del matrimonio”. La vocazione nuziale è, ultimamente, la medesima vocazione di quei 22 giovani che il Santo Padre ha consacrato nella giornata mondiale delle vocazioni a Roma. Quella, cioè, di rendere più evidente agli occhi del mondo che Dio c’è, che Cristo è presente, oggi come allora, incontrabile adesso come ieri. Se l’unione nuziale, come quella sacerdotale, non avesse questa larghezza, questa apertura a qualcosa di più grande; se la comunione tra un uomo e una donna non esprimesse il Mistero Presente sarebbe qualcosa di estremamente limitato e circoscritto agli sposi o alla giovane vergine o al sacerdote novello. Un SI’ privato. Esattamente così come è intesa oggi l’affezione tra due giovani. Un fatto tra loro il cui scioglimento riguarderebbe loro soli. Vivere la vocazione così equivarrebbe a un dono divino tradito perché ciò che Dio dà a qualcuno è sempre per il bene di tutti. Il miracolo non è un bene riservato a uno. Fortunato lui!. No, è il segno dato a uno perché altri credano, altri, vedendo, credano. La vocazione, come ogni sacramento di Dio, è necessariamente missionaria. Se così non avviene, il dono muore e il miracolo abortito. E invece uno guardando il miracolo di un giovane consacrarsi, di una ragazza lieta nel consegnarsi verginalmente al Suo Sposo, Cristo Gesù, fissando con stupore la gioia e la certezza di due giovani che si sposano, deve intuire che c’è qualcosa di enormemente più appassionante: deve percepire che in essi, si nasconde, anzi si palesa, qualcosa di infinito. Proprio come la siepe del noto Leopardi: “Sempre caro mi fu quest’ermo colle e questa siepe che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interinati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quïete io nel pensier mi fingo; ove per poco il cor non si spaura. e mi sovvien l’eterno”. “Mi sovvien l’eterno”. La siepe fa intravedere l’eterno. Pare un ostacolo alla visione dell’orizzonte. E invece diventa il segno di qualcosa che va oltre se stessa, di qualcosa di eccessivamente più immenso dell’orizzonte visibile. Il SI’ di una vergine, il “per sempre” di due sposi conducono lo sguardo oltre ” la siepe” e a “vedere” l’eterno amore di Dio. Capite cosa difende la Chiesa, quando difende il matrimonio? Difende la possibilità di non precluderci l’infinito. E l’infinito è a noi partecipato da chi, si lascia, miracolosamente afferrare e scegliere da Cristo. Come quei 22 giovani sacerdoti di Roma, come due giovani sposi. C’è un’espressione del Vangelo che chiarisce la percezione della vocazione in termini di miracolo: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga”; L’accento non cade sul voi. Alla domanda “com’è nata la tua vocazione?” non è possibile, compiutamente, rispondere se non avanzando la pretesa che sia opera mia. L’accento cade sull’IO: “Io ho scelto voi”. Il “Voi” esiste perché un IO lo ha chiamato. E l’unico che può dire “io” con piena coscienza è Cristo. Chi di noi può rispondere alla domanda: “Io, chi sono?”. Cristo lo ha fatto: “Io sono la Via, la verità e la vita”. Continuiamo noi. Cristo è bellezza, Cristo è la gioia, Cristo è tutto il bene e il buono. “Io ho scelto voi” è l’affermazione di un primato di Cristo, ma allo stesso tempo della vocazione di ogni vocazione: quella di far risplendere nel “voi” nuziale o nel “voi” sacerdotale e apostolico, l’IO di Cristo. Se così non fosse sarebbe condannarsi alla polverizzazione del “voi”. Tradotto, sarebbe la condanna a vivere come DICO, cioè precari. Ogni vocazione è un miracolo. Il miracolo di un frutto che rimane, cioè che non deperisce, che non si usura, che non si corrompe. Il miracolo della felicità di chi compie il proprio destino e la propria missione: segno dell’Eterno.