Quando gli autori increduli si convertivano
Di Rassegna Stampa (del 03/10/2011 @ 16:00:00, in Letteratura, linkato 1319 volte)

di Piero Nicola

Di contro al frontespizio de La piscina di Siloe, Pitigrilli fa scrivere che I libri contrassegnati con un asterisco (Mammiferi di lusso 1920, La cintura di castità 1920, Cocaina 1921, Oltraggi al pudore 1921, La vergine a 18 carati 1921) sono esauriti, l’autore ne ha ritirato le ultime copie e ne vieta la ristampa.

“Che cosa è avvenuto allo scrittore licenzioso e beffardo, che destò tanto scalpore e le cui pagine ancora attirano molti a divorarle?” dovette chiedersi il pubblico nel lontano 1948, alla notizia del suo ravvedimento religioso.

Nel testo, ove è descritto il sentiero sul quale pervenne all’Ovile e vi entrò inaspettatamente, egli conferma: “Nel sottomettermi alla Chiesa Cattolica Apostolica Romana, rinnego quei miei libri (…) per ciò che contengono di irriverente verso la Fede e verso i Sacerdoti, ma non per ciò che ho scritto contro l’ipocrisia, le menzogne convenzionali, i bassi interessi che copre la bandiera delle parole auguste. Per ciò che riguarda la morale sessuale, io non ho corrotto la società: ho semplicemente descritto una società corrotta. Questo concetto è fissato nella motivazione di due sentenze del Tribunale Penale e della Corte d’Appello di Torino, emanate in piena campagna moralizzatrice, con le quali io venivo assolto, e i miei libri, sequestrati, erano rimessi in vendita (…) Avevo adottato le formule dei figli delle tenebre che avevano sedotto me, e il pubblico mi seguì”.

Su quest’ultimo punto ci sarebbe forse qualcosa da obiettare; tuttavia la sua nomea di autore scabroso appare eccessiva, almeno dopo una certa data.

Dino Segre (il suo nome anagrafico), figlio di David ebreo tiepido, e di Lucia cattolica, venne fatto battezzare a Torino da sua madre all’insaputa del genitore, ed era considerato con distacco, con arie di superiorità dalla parentela israelita. Egli narra che da ragazzo e poi da giovanotto non fu estraneo al problema religioso, ma lo sciolse nello scetticismo, seguendo le dissacrazioni degli scrittori intelligenti vecchi e nuovi, sedotto dai propri successi clamorosi. “Non posso dire d’aver dato un frisson nouveau: non ho inventato nulla:” confessa, “mi ero formato sulla scanzonatura del gruppo Lacerba del 1913, sull’Enfer di Barbuse, su Paul Morand, sui romanzieri francesi recenti, e su quella Mimi Bluette che profumò la cassetta d’ordinanza di tutti gli ufficiali d’Italia, e non impedì loro di vincere la guerra e di essere degli eroi”.

“A Parigi passavo davanti al monumento a Etienne Dolet, arso vivo per aver detto post mortem nihil, ciò che dicevo io, e io potevo circolare indisturbato (…) Radicato com’ero nelle mie idee, trovavo ogni momento nuove ragioni di incredulità. L’uomo non prende gli individui, gli episodi, gli esempi per costruirvi sopra un’opinione, ma li manipola, li sagoma, li riquadra per farli quadrare nella sua idea preconcetta”.

Tant’è: “Assaggiai tutti i succedanei della fede: bussai a tutte le porte del mistero. Conobbi esangui signore teosofe, dalle dita piene di scarabei, che nel serpente che si mastica la coda vedevano la spiegazione del microcosmo e del macrocosmo”.

Compulsa volumi di magia, partecipa a sedute spiritiche. “Lessi messaggi di trapassati, le tables tournates di Victor Hugo, libri contro lo spiritismo e in favore dello spiritismo”. Frequenta sapienti venuti dall’India. “Scesi l’ultimo scalino della stupidità e della degradazione, cioè ascoltai tre lezioni sulla radioestesia e sul pendolino”. Con tutto questo, nel 1930, tenendo alla Sorbona una conferenza su La decadenza del paradosso, perora la causa della “normalità”, affermandone il potere irresistibile sulla maggior parte dei ribelli: “Paul Verlaine che per anni e anni sparge manciate di alcaloidi, e prima di morire si purifica le mani nell’acqua benedetta”; al “caso di Dorian Gray” segue il “De Profundis”; “Giudo Gozzano, che trafigge centinaia di farfalle e muore francescanamente, con la corona del rosario fra le dita”; “le due creatrici della Presidentessa, Linda Pini ed Eva Lavallière, si ritirano nei chiostri”; “l’ipnotizzatore Pickmann, reduce da tutti i music-halls d’Europa, chiude la sua vita di mago entrando in un monastero”; “Clemenceau”, che sciolse le congregazioni religiose ed ebbe una concezione anticristiana della vita, “sul letto di morte chiude la sua giornata terrena con un atto di umiltà: bacia la mano all’autista”.

Siamo nel giugno del 1940. Dino Segre viene mandato “per ordine del governo, in un paesino della Riviera ligure”. Non sarà la contemplazione delle bellezze naturali a ispirargli l’idea di Dio. Una medium risveglia la sua mai sopita passione: “venti anni di insuccessi in questa materia non mi avevano definitivamente deluso”. E, per singolare avventura, egli giunge così al benedetto ravvedimento.

“Dio che nei suoi impenetrabili disegni giorno per giorno, con persuasione progressiva, ha comunicato la fede a Huysmans, a François Coppé, a Paul Bourget, a Brunetière, a me l’ha data in una sera. Io ero di quei semplici che per una deficienza visiva non s’accorgono che tutto ciò che ci circonda è miracolo (uso questa parola non nel senso dei teologi, ma in quello dei poeti)”.

Egli acconsente che le voci e i vari fenomeni realmente suscitati nelle sedute spiritiche possano essere inganni del demonio, quantunque sembri strano che “la maggior parte dei morti, interrogati sulle loro sofferenze, non abbiano detto nulla di diverso dalle tenebre, pianto e stridor di denti, indicati, come pena, dalla parola di Gesù, e che invitino i vivi a pregare Dio, a essere buoni, a essere giusti, a guardarsi dai messaggi di spiriti malvagi, a far celebrare delle Messe per la loro pace, e mettano in guardia contro l’irreparabile sventura di morire con il greve peso degli attaccamenti terreni, o di morire non in grazia di Dio”.

La tradizione ecclesiastica presenta casi di simili manifestazioni.

Dieci anni dopo, ne La maledizione, tornerà sull’argomento andando oltre con alcune convinzioni, pur avendo concluso, nelle premesse, che “se in questo libro ho scritto cose errate, chi ne sa più di me mi corregga”. “Ho avuto la fortuna di ricevere messaggi spiritici di una tale bellezza, dettati in una forma così perfetta, e così ricchi e veri di contenuto, che ho acquistato la tranquillità e la certezza che sopravviviamo alla morte”. Altra supposizione: la “possibilità dell’uomo di influire sugli altri” mediante la magia bianca o nera, secondo una facoltà dell’intenzione e l’uso di certe pratiche o formule, però sottomesse al volere di Dio. Per quanto concerne la fisicità dei fenomeni prodotti volontariamente, anche all’apparenza indifferenti dal lato morale, siamo in un campo indimostrabile, ove è di certo possibile l’azione del demonio; e la stessa applicazione intesa a produrre il bene con forze intangibili, sfuggenti al controllo, si confonde con tutta la sfera metafisica. Riguardo al male, Pitigrilli ammette: “Volontà di dominio, di natura satanica? (…) Io non mi oppongo. Sarà quello stesso Satana che non parlava a vanvera, per farsi una clientela, quando disse: ‘Sarete come Dio’. Però in un altro settore, in un’opposta direzione…” Ricorda, a questo proposito, il potere della benedizione, efficace di per sé come un sacramentale. La benedizione carpita da Giacobbe, messosi al posto del fratello Esaù, ebbe ciononostante il suo effetto. Ma il benedicente era un patriarca e il Signore consentì l’effetto.

A quanto pare, Dino Segre azzardò, lasciando intendere che occultisti - al di fuori della gerarchia ecclesiastica e della santità dimostrata – avessero il potere di determinare benefici equivalenti a quelli causati da interventi soprannaturali. A suo discarico, notiamo che egli accennò a un padre spirituale che lo seguiva, e mise sull’avviso contro le frodi e gli errori numerosissimi.

Tornando a La piscina di Siloe, egli già raccomandava di non lasciarsi “tentare da simili esperimenti. Primo: Perché la Legge Divina è formale: Non vi sia chi cerchi di sapere dai morti la verità (Deuteronomio 18, 11). Secondo: Perché la Chiesa si è pronunciata in termini precisi: Interrogata la Confregazione del santo Ufficio, se sia lecito, con l’intervento di un medium, come dicono, o senza di esso, servendosi o no dell’ipnotismo, assistere a locuzioni o manifestazioni spiritiche, quali esse siano, anche se abbiano l’apparenza di onestà e di pietà (…) sia che si sia solo spettatore (…) La Santa Congregazione rispose: Negativamente in tutto (27 aprile 1917)”.

Tuttavia “io, per quelle vie vietate e con mezzi illeciti, ho trovato la fede”. “Prima, consideravo la morte come una ridistribuzione di calcio, azoto, idrogeno, carbonio nei barattoli e nei palloni di dove il nostro corpo ha preso provvisoriamente a prestito gli ingredienti. Dopo, mi sono convinto che la morte è principio e continuazione. Da quel momento ho compreso finalmente il senso della vita”.

Manifestato il proposito di educare il proprio figlio alla dottrina cattolica, riconosce di non esser ancora “un cristiano perfetto”. “Mi manca l’umiltà, non so dimenticare le offese, soffro di simpatie e di antipatie, e a chi mi chiama in giudizio per togliermi la tunica non cedo anche il mantello. Ho scritto non so più dove: ‘Capisco il bacio al lebbroso, non ammetto la stretta di mano al cretino’. Credo che questa frase non la cancellerò mai”. Il temperamento del vecchio Pitigrilli salace non può scomparire. In fondo, egli figura come uno dei tanti fedeli soggetti alle debolezze e, più di molti fedeli, consapevole, attento alla sua anima. L’importante è che non si stato acceso da un fuoco di paglia, che in seguito egli non abbia tralignato. Ne fa fede una pregiata e diffusa enciclopedia di quest’epoca, dove si osserva che, successivamente, “prese a scrivere opere moraleggianti”. Opere spiritose, vivaci, per nulla tediose, sempre a getto continuo. Convertito, fustiga i costumi con una satira né caricaturale né cattiva, sovente bonaria, per quanto disincantata, e con rispettabile scavo psicologico.

Per esempio, in Lezioni d’amore (1948), il protagonista parigino, avendo subito un tracollo finanziario a causa del fallimento d’una banca, ha aperto l’unica attività per la quale abbia esperienza, un ufficio che somministra consigli ai sentimentalmente sventurati. Ed ecco, fra i diversi che si presentano, una signorina borghese, assai a modino: gli si rivolge per essere indirizzata a qualcuno che la faccia abortire. Il fidanzato le ha comperato una medicina… “C’è un fidanzato?” “Non è ciò che si chiama un fidanzato. Anzi, se dovessi dire, è mezzo fidanzato con un’altra. Gli ho promesso che avrei preso la medicina, ma non serve. Lo so per esperienza”. Prima poteva rivolgersi a un medico dei suoi paesi. “Adesso non c’è più”. “È in galera?” “È deputato e non fa più il medico”. “Fa le leggi. E poi?” Lei non sa come possa tornare in famiglia per le feste, con quel ventre accedente la linea. Il giovanotto è ingegnere, “tanto timido. M’ha portato del prezzemolo”. “Non si può dire che si rovini”. Ma lui ha detto di spendere il necessario, che penserà a tutto, e si è messo a piangere, e vede la soluzione della segale cornuta. Ma è pericolosa. “Bisognerebbe prenderla sotto la guida di un…” “Di un deputato”. “Ma no, il deputato mi ha fatto una piccola operazione. Dolorosa, ma è così svelto! È tanto buono”. Quella sorta di fidanzato la sposerebbe. Lei però non vuole, perché il padre di lui, essendo medico e anch’egli deputato, conosce i suoi trascorsi. D’altronde ella non ha sicurezza che il nascituro sia dell’ingegnere. “Questa lealtà vi fa onore”. Potrebbe avere un figlio di quattro anni ed uno di sette. “Se non li aveste uccisi” si sente rispondere. Ella protesta. Lui rinforza l’accusa mettendole davanti i pargoletti vivi, commoventi, destinati a diventare uomini fra gli uomini, ad avere un loro posto nel mondo.

Spassoso, l’episodio della risposta suggerita ad un giovane che ha una relazione con una signora, il cui marito gli ha scritto con indignazione. La risposta comincia negando che vi siano stati rapporti meno che corretti, quando invece si è trattato di scambi ideali e, per così dire, fraterni. Seguono due varianti, a scelta: l’una per continuarli, onde il sospetto sia allontanato, l’altra per interromperli, praticamente allo stesso fine: secondo che l’amore sia in fase ascendente oppure calante. La moralità del consigliere ne soffre, ma la leggerezza è palese. Inoltre, la morale giungerà al termine del lungo racconto, quando l’ancora assai spregiudicato consulente, abbandonato dalla compagna, privo dei figli che avrebbe allevato in un focolare domestico, prova una sensazione di totale fallimento.

Intanto, porgendogli uno dei canovacci di missiva, preconfezionati per le varie circostanze, egli raccomanda al suo interlocutore: “Non abbiate fretta. Curate lo stile. Sono lettere che i mariti conservano e le mogli rintracciano”.

L’amoroso alle prese col suo componimento in uno studio accanto, conosce una ventenne di indomita personalità, introdotta per essere ricevuta a sua volta; ed ella gli farà rinnegare la sua protesta di scegliere la prima opzione, con cui avrebbe serbato il caro legame adulterino. Le vicende disparate s’intrecciano nella tessitura della storia principale; in capo alla quale il protagonista, morso dall’abbandono, strutto da un rigurgito di sentimento per la donna perduta, vinto dalla solitudine, dall’inconcludenza, vede come fosse “una vita finita prima di cominciare” quella al momento in cui aveva aperto le “lezioni d’amore”: “spaccio d’ottimismo”, vendita di “apparenze di salute, di benessere, di bellezze, di stordimenti, di filosofia, di saggezza”. Gli tiene compagnia un fraticello domenicano, suo figlio naturale, cosa nota ad entrambi, ma non se lo sono confidato.

“Ho sfiorato tutto: la scienza, la fede, l’amore, senza mai immergermi” dice l’uomo di mondo, che ha esaurito il suo spirito. “Anche in materia di fede, mi sono arrestato alla periferia. Ho indietreggiato dinanzi alle prime contraddizioni (…) a ciò che mi sembrava pregiudizio e paganesimo…”

Il monaco gli chiede se crede in Dio. E il colloquio prosegue: “A modo mio” . “Non c’è che un modo di credere in Dio”. “Quale?” “Credere”.

Qualcosa continua a separarli. Alla fine, il figliolo desiderato, per istruirlo, educarlo, amarlo, proporrà al padre d’essergli padre in virtù della sua veste, insegnandogli a pregare.

Con la novella L’anello di Gige (terza nell’indice di Lezioni d’amore) Pitigrilli, esule in Svizzera e poi in Argentina, sembra rispondere alle accuse d’essere stato un agente dell’Ovra, che contribuì alla persecuzione di antifascisti. L’apologo narra della dittatura d’un principe, un “tiranno buono”. “Un buon tiranno, come san Luigi, re di Francia, che in sede di appello contro i giudizi e contro i giudici stessi ascoltava i lamenti e le ragioni dei sudditi, sotto la quercia, nel parco di Vicennes”. A scanso di equivoci, l’autocrate e i suoi procedimenti sono descritti in modo da distinguersi parecchio da Mussolini e dal suo regime. Sennonché ci sono i cospiratori. “Qualche bomba innocente scoppiava qua e là. Nel buio del cinematografo, qualche fischio isolato al suo passaggio sullo schermo, immediatamente soffocato dagli applausi. Foglietti clandestini correvano di mano in mano: circolavano storielle, quelle storielle che, con personaggi di ricambio, si travasano di secolo in secolo. Ai fuorusciti si era lasciato capire che potevano rientrare in patria. Qualcuno tornò e fece atto di omaggio: altri considerarono la liberalità del Principe come una confessione di debolezza. ‘Ci teme’, dicevano. Rientrarono un po’ a malincuore, perché all’estero avevano vivacchiato passabilmente per una decina d’anni: avevano composto un loro ‘governo all’estero’, avevano formato, nelle birrerie, il ministero con reciproche assegnazioni di portafogli, per essere pronti all’ora ‘H’ (…) Avvenivano scissioni, riavvicinamenti, fusioni: stampavano un giornaletto che nessuno comperava: raccoglievano offerte per un comitato di soccorso agli esuli: il comitato era loro: gli esuli erano loro: le offerte se le dividevano fra loro: si cingevano a vicenda dell’aureola del proscritto (…) Un giorno il Principe s’accorse che costoro esistevano, e, per una specie di dandysmo, perdonò ufficialmente a tutti”.

I cospiratori trasferiscono le loro attività sul suolo natio: volantini di propaganda, giornaletto. “I sudditi fedeli al principe non davano né incarichi né lavoro ai fuorusciti. E così un piccolo venticello contrario al Principe si estese, tiepido, ma diffuso”. A un certo punto, occorre individuare il loro capo. Il Prefetto di Polizia dice al Ministro dell’Interno che non lo ha ancora scovato: “Il primo anello è certamente in relazione con una nazione vicina, che li sovvenziona”. I due proseguono a consultarsi: “Ma l’agitazione si estende”. Risposta: “Si estende perché il Principe è un uomo onesto, che non ama il denaro e non capisce che altri possano desiderarlo (…) La sua onestà, la semplicità della sua vita sono oggetto di ammirazione platonica. La sua frugalità è elogiata in ogni discorso, ma nessuno nel suo intimo se ne compiace”. I sospetti si appuntano su Kosciuscko, professore di storia del diritto all’università. Mancano soltanto le prove per inchiodarlo. Una bomba a orologeria scoppia nel garage del Principe. Il Ministro vuole avere le mani libere. Il buon tiranno non vuole che si torca loro un capello. Otto sospettati vengono tratti in arresto. Li si minaccia di deportazione in un’isola, con facoltà di formare il loro Governo, e in più, di coltivare tabacco, di andare a caccia e alla pesca, di prendere i bagni, avere amache, bungalow, chinino e zanzariere. Gli oppositori rifiutano di tradire il capo. Il Ministro ricorda loro la storia dell’anello di Gige, narrata da Platone. Il pastore Gige prese a un morto un anello che permetteva di rendersi invisibili. Si introdusse, non visto, nella stanza della regina e uccise lei ed il re. Gli astanti negano di voler mai approfittare dell’incognito per commettere un’azione esecrabile. Ma quando, per mostrare tutta la loro integrità, essi accettano il foglio su cui potrebbero battere a macchina il nome del capo, sebbene qualora uno solo che ve l’abbia scritto basterebbe a renderli liberi e assunti in un impiego confacente a ciascuno, all’apertura dell’urna si vede che tutti e otto hanno denunciato Kosciuscko.

Tra le facezie magistrali sulle buone maniere, elencate ne Il pollo non si mangia con le mani (1957), piace riportare questa massima, incastonata a chiusura di savie avvertenze: “Essere una donna di classe è far funzionare come un harmonium il registro della pietà, della carità, della bontà, della gentilezza, della purezza di cuore. Non vuol dire restare imperturbabile quando dalla cucina giunge il fracasso di un servizio di Boemia che è andato in frantumi, ma essere impassibile davanti al crollo di tutto”.

Questo galateo vuol distinguersi, nelle sue prescrizioni di saper vivere e di urbanità, prendendo in considerazione le circostanze e i soggetti, in relazione ai quali i comportamenti dovrebbero variare: da un giusto anticonformismo, che ci si possa permettere, a un educato adattamento a usi e costumi.

“Come la moda è stata creata per le donne senza gusto che non sanno vestirsi, così il vecchio galateo è stato compilato per le persone che mancano di linea, di riflessione e di criterio”.

La cultura e i soggiorni internazionali dell’autore rendono variata e interessante la lettura. “Quando, dopo il pranzo e nelle pause fra una portata e l’altra sfugge dalla bocca di un arabo un certo suono orchestrato nelle profondità dello stomaco, egli eleva questo gasoso pensiero [“Habdullah”] ad Allah e lo dedica al padrone di casa”.

Egli rende il dovuto tributo alla finezza ereditaria o congenita: “Le persone intelligenti (…) sanno condursi nella vita sociale sotto la guida dell’eleganza costituzionale, che (…) se non la si è ricevuta in dono nascendo, non c’è da sperare di trovarla in nessuna grammatica di belle maniere”.

Egli mette il dito nella piaga odierna del linguaggio volgare, dicendoci che “la probità verbale (…) è una delle forme più nobili dell’onestà”.

Da Riscossa Cristiana.it