Da mesi, a due passi da noi, in Libia, è in corso una guerra. Una guerra iniziata - questa la motivazione ufficiale – per impedire che il leader libico, Gheddafi, portasse a termine una repressione contro coloro che, con le armi, hanno tentato di rovesciarne il pluridecennale regime. L’intervento occidentale, dunque, non è stato volto a pacificare, bensì a rafforzare quello che altrimenti sarebbe rimasto un conflitto interno. Ora, gli sviluppi definitivi paiono ancora incerti, ma qualcosa, con questa guerra, si è già potuto ampiamente riscontrare: il totale silenzio del movimento pacifista, in altre occasioni vivace e chiassoso e stavolta assente o quasi dalle piazze. Come mai? Ritardi organizzativi oppure assenso al conflitto?
In realtà, nessuna delle due cose. Trattasi semplicemente dell’ennesima dimostrazione dell’ipocrisia di questo movimento; diciamo ennesima perché l’esperienza ne ha messo in luce da tempo la contraddittorietà. Già egli anni Cinquanta, infatti, il movimento pacifista conobbe una emblematica battuta d’arresto quando, dopo lunghe marce contro la bomba atomica, anche l’Unione Sovietica si dotò di un armamento nucleare. In modo analogo, negli Ottanta i pacifisti condannarono a gran voce il dispiegamento, da parte della Nato, dei missili Pershing e Cruise, ma curiosamente evitarono ogni protesta quando l’Urss minacciò il Vecchio Continente coi suoi missili SS20.
Lo stesso vale per il regime di Cuba, violento e repressivo eppure guardato talora con simpatia dal mondo pacifista. Ne è un esempio la capillare diffusione, nel corso delle manifestazioni per la pace, della maglietta raffigurante Ernesto “Che” Guevara, uno che esortava all’«odio come fattore di lotta; l’odio intransigente contro il nemico, che permette all’uomo di superare le sue limitazioni naturali e lo converte in una efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere» (Scritti, discorsi e diari di guerriglia, 1959-1967, Einaudi 1969).
Davvero niente male, per un idolo del pacifismo. Che ci sia e ci sia stata, nel recente passato, un’idea quanto meno ambigua di pace, è provato anche dall’interesse che la già ricordata Unione Sovietica nutriva per la causa. Tanto che, dal 1950 al 1990, la patria mondiale del terrore comunista non ha mancato di assegnare annualmente il “Premio Stalin per la pace”, un premio un programma. D’altra parte, anche la recente assegnazione del Nobel all’abortista Barack Obama ha suscitato fortissime perplessità, non foss’altro perché l’inquilino della Casa Bianca, finora, fatto ben poco per il bene dell’umanità.
Tornando a noi, l’ipocrisia e le contraddizioni del pacifismo, dicevamo poc’anzi, non costituiscono affatto una novità. George Orwell (1903-1950) se n’era accorto già nel 1945, allorché annotava che «se si esaminano attentamente gli scritti dei pacifisti […] ci si accorge che essi non esprimono affatto la loro disapprovazione imparziale […] di regola non condannano la violenza in quanto tale», come si evince dal fatto che «la letteratura pacifista è ricca di affermazioni equivoche che, se mai significano qualcosa, annunciano che statisti come Hitler sono preferibili a un Churchill e che la violenza è ammissibile purché sia sufficientemente brutale» (Nel ventre della balena e altri saggi, Rcs Libri 2010, pp.178-179).
La denuncia di Orwell - datata ma assai efficace - oltre a confermare i nostri sospetti circa la natura ideologica del pacifismo, ci pone dinnanzi ad un interrogativo: come mai questo movimento ispirato a ideali di pace si rivela miope rispetto ad una condanna della violenza che dovrebbe essere universale e non particolare, continua e non intermittente? Quali le ragioni del suo strabismo culturale? Prima di rispondere a questi interrogativi, una premessa. Un “pacifismo” giusto e praticabile, come ricordava Aron, in realtà esiste ed è quello «clausewitziano, fondato sul tentativo costante di limitare la violenza bellica tramite la ragione politica, e di combattere le guerre solo quando è necessario» (C. Jean, Manuale di studi strategici, FrancoAngeli 2004, p.267): tutto il resto, ad esser buoni, è utopia.
Venendo ora alle ragioni per le quali spesso il pacifismo cade in contraddizione contrastando alcune guerre e ignorandone altre, non possiamo trascurare il generale e spesso sottovalutato problema di informazione. Questo perché, segnala De Angelis, «non è detto che i media siano presenti dove accadono fatti rilevanti. Piuttosto, dove sono i media, là le notizie» (Guerra e mass media, Carocci 2007, p. 78). Naturalmente questo non scagiona il pacifismo dalle sue omissioni. Omissioni non di rado molto gravi, perché spesso «politici spregiudicati non hanno esitato a promuovere massacri o “pulizie etniche” locali, fidando proprio nell’accresciuta indifferenza e insensibilità ai temi della pace» (AA.VV. Identikit del Novecento, Donzelli 2004, p. 91).
A determinare la contraddittorietà del movimento no war c’è poi la ricordata difficoltà della galassia pacifista di scegliersi simboli ed eroi all’altezza; fino a che saranno figure come Guevara gli esempi presi a modello, difficilmente le manifestazioni pacifiste saranno credibili. Oltre a questo, comunque, un processo di de-ideologizzazione di questo movimento - ammesso che sia possibile - dovrebbe fare i conti anche con un aspetto pre-politico, che afferisce al contenuto stesso del messaggio pacifista. Un messaggio contrassegnato, come si sa, da una prospettiva immanente, che da un lato auspica la fratellanza universale, e che, dall’altro, omette ogni riferimento ad una possibile figliolanza comune. Ma come si può immaginare un mondo dove tutti siano fratelli senza che vi sia, al contempo, la consapevolezza di essere figli di uno stesso Padre? E’ semplicemente impossibile.
Ed è proprio a partire da questa impossibilità che possiamo cogliere la netta differenza tra il pacifismo e la pace autentica e cristiana. Una differenza determinata dal fatto che i cristiani, come ha ben chiarito Francesco D’Agostino, sanno «che non esiste fraternità senza paternità comune; e che il loro compito nella storia si riduce in fondo a ripetere al mondo questa verità» (Communio n.191, 1992, p. 80). Eccoci dunque al cuore del problema: mentre la dottrina pacifista ci chiede utopicamente di vivere come se fossimo fratelli, il Cristianesimo ci informa del fatto che, in quanto creature di Dio, lo siamo già. Si tratta di una notizia clamorosa, che oltrepassa la barriera dell’ideologia in favore di un annuncio di pace autentica, ben più ampia di qualsivoglia disarmo.
Spesso, infatti, siamo soliti associare l’idea di pace all’assenza di un conflitto militare, mentre invece ha un significato molto più profondo dal momento che rimanda alla globale «tutela dei beni e delle persone», della «libera comunicazione tra gli esseri umani», ed al «rispetto della dignità delle persone e dei popoli», nonché all’«assidua pratica della fratellanza» (CCC, 2304). D’altra parte, quando Gesù congeda l’emorroissa col «va’ in pace» (Mc 5,24), e analogamente saluta i suoi col «pace a voi» (Lc 24,36; Gv 20,19.21.26), non intende certo sanare contese internazionali, bensì proclamare l’offerta del bene, di «tutto il bene» (Eb, 13 20-21).
Occorre riflettere bene su questo punto perché purtroppo è forte, anche tra i cattolici, la tentazione di ridurre la stessa Chiesa ad organizzazione benefica e Gesù Cristo a pacifista ante litteram. Per superare questo ricorrente equivoco - che il Cardinale Biffi ha denunciato come un’«insidia mortale» (Attenti all’Anticristo, Piemme 1991, p.27) - possiamo ricordare un aspetto poco noto ma probabilmente utile a fare chiarezza. Alludiamo al fatto che, secondo l’insegnamento della Chiesa, anche la pace tra le nazioni, pur costituendo un’indubbia priorità, non è in realtà un valore assoluto. Può accadere, cioè, che si creino condizioni per le quali l’intervento militare sia da ritenersi legittimo e necessario.
Queste condizioni sono: 1) che l’intervento sia per legittima difesa e proporzionato; 2) che il danno subìto e per il quale si interviene sia durevole, grave e certo; 3) che ogni tentativo di mediazione sia fallito; 4) che vi siano ragionevoli speranze di successo, in termini d’efficacia difensiva; 5) che tale intervento militare non arrechi più danni di quelli per evitare i quali è avviato; 6) che sia comunque osservato un codice etico teso, ad esempio, a risparmiare i civili, a rispettare i prigionieri e ad evitare inutili violenze. La guerra, insomma, è sempre l’extrema ratio; deve essere dunque scongiurata in ogni modo anche se, alle condizioni ricordate, è giustificata. Le ragioni di questa posizione derivano da un principio semplice ma decisivo: la pace è tale solo laddove la vita umana, anche la più indifesa, risulta rispettata.
Ecco perché è contraddittorio invocare la fratellanza universale nicchiando sulle molteplici minacce alla dignità umana, che oggi spaziano dall’aborto volontaria all’eutanasia, dalla fecondazione extracorporea all’eugenetica. Ce lo ha insegnato anche Giovanni Paolo II, il quale, nel suo ultimo discorso ufficiale – era il 10 gennaio 2005 – ebbe a ricordare che dinnanzi a sé l’umanità ha oggi quattro sfide: quella della vita, quella del pane (lotta alla povertà), quella della pace e quella della libertà. Ma la «prima sfida», precisò, «è la sfida della vita […] oggi sovente minacciata da fattori sociali e culturali». In definitiva, se vogliamo che il mondo imbocchi realmente la strada della pace, dobbiamo tenere a mente che la fratellanza diventa un progetto credibile e lungimirante solo per quanti riconoscono la presenza di uno stesso Padre – diversamente, lo abbiamo visto, si esaurisce in esortazioni utopiche e buoniste – e non permettono che nessuno della famiglia umana, a partire dai più piccoli e indifesi, venga oltraggiato in alcun modo.