I Dico: io no, ma perchè imporre la mia visione agli altri?
In questi giorni, quando si discute dei Dico, ritorna di continuo un vecchio ritornello: "io, personalmente, non farei nessun Dico. Credo nel matrimonio, nell'amore responsabile, stabile, fedele, fatto di diritti e di doveri. Ma perché impedire i Dico ad altri, che la pensano diversamente, che non hanno la mia stessa visione del matrimonio? Perché imporre ad altri la mia opinione?".
In realtà, dietro questo apparente ragionamento, si nasconde un sofisma: mentre si discute di un argomento, i cosiddetti Dico, mentre si vota per creare o meno un nuovo istituto giuridico, mentre insomma ognuno dice la sua, a favore o contro, per cambiare la società e le sue consuetudini, gli unici tagliati fuori sarebbero coloro che si oppongono, coloro che non approvano. Bella democrazia, quella in cui qualcuno deve stare sostanzialmente zitto, omettere di esprimere la propria opinione, auto-censurare il proprio punto di vista! Non è un caso che a ripetere per primi il ritornello, affinchè tanti lo imparino a memoria, sono solitamente i radicali. Gli stessi che si scandalizzano quando qualcuno parla di verità, quando qualcuno afferma di credere nella verità, e poi costituiscono un partito per portare avanti, a suon di leggi, referendum e propaganda, le proprie "verità"! Dovrebbe allora anzitutto essere chiara una cosa: chi crede nel matrimonio, come istituto fondamentale su cui si basa la società umana, può e deve sostenere la sua convinzione, allo stesso modo di chi fa il contrario, senza essere accusato, da quest'ultimo, di conculcare la libertà altrui.
Detto questo è bene ricordare alcuni concetti innati nell' uomo, anche in quello pagano dell'antica Grecia: l'uomo, come scriveva Aristotele, è un animale sociale, politico, che vive in relazione con gli altri, e che non può fare altrimenti. Agli altri si interessa, con gli altri vive, gioisce, soffre, costruisce e distrugge… Il poeta latino Terenzio scriveva: "sono uomo, e nulla di ciò che è umano considero a me estraneo". Il pensiero liberale individualista, invece, sostiene che ognuno fa quello che vuole, perché ognuno è padrone di se stesso, della sua vita, e può disporne a piacimento; e sostiene che qui starebbe la vera libertà, la vera realizzazione dell'uomo. Afferma che ognuno deve perseguire il proprio interesse, ripiegarsi sul proprio io, escludere gli altri dal proprio orizzonte. Ma questo ragionare, oltre che profondamente egoistico, non è neppure umano. Non siamo monadi, esseri assoluti svincolati da tutto e dal prossimo, "atomi nello spazio e attimi nel tempo", bensì creature con dei legami, con un passato, una storia, un'origine, e in qualche modo già artefici del futuro. Come alberi piantati a terra, con le radici, e con i rami tesi verso il cielo, e verso il futuro. Nasciamo da una relazione, ci sviluppiamo nell'utero materno, in relazione con nostra madre, cresciamo in un tessuto di relazioni, che non ci limitano, nella nostra libertà, ma ci realizzano e ci completano. Poi diveniamo adulti, indipendenti, si fa per dire, magari pure benestanti, e qualcuno si illude di poter fare da solo, decidere da solo, realizzare da solo la propria felicità. Così, divenuti cinici, riduciamo il lavoro a competizione, la vita a una giungla in cui vige la legge del più forte, e la vita affettiva a esperienza solamente individuale e privata, come un oggetto di nostra appartenenza. Così riduciamo spesso il sesso a qualcosa di svincolato dall'altro, non come relazione, ma come auto-realizzazione, in cui il prossimo diviene mezzo, e non più fine (il famoso "amore sicuro").
Tutto questo per dire cosa? Che la relazione matrimoniale è alla base di una società umana: "dal dì che nozze e tribunali ed are/ dieder alle umane belve essere pietose/ di sé stesse e d'altrui…". Così scriveva Ugo Foscolo, non certo un cattolico bigotto: la civiltà è nata intorno all'istituto del matrimonio e al diritto, inteso come sforzo di regolare e raggiungere il bene comune, non quello individuale, particolare, personale…Il matrimonio, che è nato dalla pietas per noi stessi e per gli altri, come scrive Foscolo, che è per l'uomo, è allora il luogo della vita affettiva, quello in cui cresciamo come figli, in cui impariamo a relazionarci col nostro prossimo, il più prossimo possibile, per crescere con un equilibrio interiore, sapendo di essere amati, veramente, e cioè stabilmente. Per questa sua funzione pubblica il diritto regola il matrimonio, lo considera un istituto con rilevanza pubblica, sociale. Per questo tutti capiamo che deve essere normato: il nostro stato vieta il matrimonio tra consanguinei, quello forzato, stabilisce diritti e doveri nei confronti del coniuge e dei figli, regola le disposizioni sull'eredità.…Per il bene comune, per la società, per la realizzazione, nel contato col prossimo, degli individui…Dire no ai Dico significa allora continuare a credere nel matrimonio, nelle nozze civilizzatrici, nel diritto come tutela del bene comune, nell'uomo come animale sociale…Abbiamo una visione del mondo, un'idea di uomo, perché tutto ciò che è umano ci interessa, ci sta a cuore: e abbiamo il dovere, sacrosanto, di dirlo, di crederci, di batterci per questo…contro la società disgregata, in cui ognuno fa e disfa, senza neppure trattative, assume diritti e rifiuta doveri, in nome del suo io, più o meno gonfio, più o meno smarrito, più o meno disorientato…Se chi propone i Dico dice di farlo per gli altri, è bene dire che gli altri non hanno bisogno di questo, ma di altro: del matrimonio, dell'assunzione di responsabilità, di fronte a chi amano e alla società….! Diciamolo ad alta voce, senza paura: diciamo no ai dico, né carne né pesce, né pasta né minestra, costruzione giuridica artificiosa, incomprensibile, nata attraverso cavilli e mediazioni continue, a metà tra qualcosa e qualcos'altro, tra la convivenza e il matrimonio, inafferrabile e disorientante. Non sono per l'uomo, ma contro di lui. Se ne accorgerebbero soprattutto le generazioni future: generazioni che partirebbero già col piede sbagliato, se gli spiegassimo, noi, oggi, che l'amore non è una dedizione totale, ma un patto momentaneo, un momento, un attimo, per quanto "ben" regolamentato. Lo scriveva anche Verga: abbiamo bisogno di uno scoglio, di una certezza, quella della famiglia, e coloro che vogliono abbandonare lo scoglio, la realtà umana e naturale che ci è propria e che ci corrisponde, per brama di ignoto, di meglio, o per puro egoismo, sono destinati a naufragare. Mancano forse i naufragi, nella odierna disgregazione delle famiglie, perché qualcuno possa dire che ciò che si è detto non è sperimentabile?
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