Nell’ incontro tra Gesù e Pilato, quest’ultimo chiede: “Cosa è la verità?”. Gesù, non risponde. Non perché non lo sappia fare; non perché la Verità non esista; non perché ognuno si può fare la sua, e Pilato ha quindi il diritto di scegliere per sè; non perché il discorso sarebbe stato troppo impegnativo…
Semplicemente perché Pilato è accecato, dal potere, dalla volontà di ottenere plauso ed approvazione. Non è in grado di vederla, la Verità, anche se la ha davanti agli occhi, in carne ed ossa. Pensa ad altro, il suo cuore è distolto, sviato. Gesù, infatti, gli dice che “chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”: occorre essere tesi verso la verità, per ascoltarla davvero, per vederla, per sentirla. Altrimenti, non serve a nulla neppure averla davanti.
Lo vediamo ogni giorno, nella nostra vita: quante volte sappiamo ciò che è bene e ciò che è male, ma ciò non ci impedisce di fare il male. Lo vediamo, per fare un altro esempio, nel dibattito bioetico: non serve a nulla l’ecografia, la verità di ciò che è un embrione, un feto, una gravidanza. Chi non è dalla verità, cioè dalla sua parte prima che dalla propria, fingerà di non vedere, o inventerà filosofie di ogni tipo per negare che ciò che ha di fronte sia ciò che è. La sentiamo la voce dei farisei: “è solo un grumo”, oppure, i più sofisti: “non è persona, non è persona…”.
Per poter mandare persino a morte ciò che si è finto di non vedere, sappiamo inventare ogni menzogna, e alla fine si diventa persino convinti, alla lunga, che la menzogna sia la verità. Ebbene, l’incontro tra Pilato e Cristo è assai significativo perché ci porta al cuore del cristianesimo: la Verità non si è fatta discorso, libro, ma persona. La verità si vede, si tocca, si mangia: è Cristo stesso, “vir qui adest”, l’uomo che ti è davanti, o Pilato.
Tu dici di non scegliere, ma in realtà hai scelto: la sua condanna. Perché quando la Verità prende corpo davanti a noi, non scegliere è impossibile. Cristo è Verità, perché ci dice, non a parole, ma coi fatti (la morte in croce), che non ci salviamo da soli: ci ricorda la nostra dipendenza, il nostro essere creature. Una verità che ci urta e ci infastidisce, perché vorremmo essere assoluti. Cristo è la Verità perché rovescia l’ordine umano delle cose, la gerarchia dei valori mondani: “imparate da me che sono mite e umile di cuore”.
Ancora una volta non è una lezione di filosofia aristotelica sulla virtù, che ci fa: la mitezza e l’umiltà le vive. Il cristianesimo è per tutti: possiamo capire poco di filosofia, non amare le disquisizioni di ottimi moralisti, da Aristotele e san Alfonso, ma cosa sia giusto o sbagliato è evidente, nella persona di Cristo, nelle sue azioni. Cristo è la Verità perché non cerca il successo, non realizza un potere, ma inquieta il cuore degli apostoli, e li sfida: se non volete seguirmi, andatevene pure voi.
E’ la Verità, incarnata, perché vivendo ci insegna a vivere: ha avuto un padre e una madre, come noi; ha sofferto, come noi. E’ la Verità perché ci indica che la morte è stata sconfitta, che c’è una Vita vera, più vera ancora di quella su questa terra. Come si fa ad obbedire a questa Verità? Amandola. E come si sostanzia questo amore? Nel rispetto, profondo, sentito, dei comandamenti: “Da questo sappiamo d'averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice: "Lo conosco" e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e la verità non è in lui; ma chi osserva la sua parola, in lui l'amore di Dio è veramente perfetto. Da questo conosciamo di essere in lui. Chi dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è comportato”.
Niente di astratto, dunque, niente di esoterico; nessun sapere particolare è chiesto al cristiano: solo la sequela di Cristo. Seguirlo significa, molto concretamente, osservare i suoi comandamenti, ciò che dobbiamo a lui e, concretissimamente, al nostro prossimo. Amare la Verità non è dunque studiare, o sapere qualcosa di più di altri, ma è tributare a Dio il suo culto; è rispettare il padre e la madre; è, persino, “non desiderare la roba d’altri”.
C’è un prezioso libretto, appena edito da Lindau, “Cosa è la verità?”, che può aiutarci. E’ il confronto tra un buddista, Fabrice Midal, e un cattolico, Fabrice Hadjadj. Il discorso del buddista tocca temi quali la verità, l’amore: vola alto, tra arte, poesia, immagini. Ma non è chiaro, dopo averlo letto, quale sia la definizione di queste nobili, ma vaghe, parole. Nel discorso di Hadjadj, invece, ci sono continui rimandi alla realtà: ad un alunno svogliato, a sua moglie, ai suoi figli, persino alla suocera. Midal è come Budda. Seduto, impassibile, solo, mani in posa e sguardo altrove. Hadjadj, invece, ragiona a partire da un Dio incarnato, che lavora in bottega, insegna, muore sulla croce. Una Verità con cui confrontarsi.
Per questo, in un passo illuminante, se la prende con la “falsa mistica che pretende di abolire l’Io”, “la mediazione e il rapporto concreto con il prossimo” e cita Teresa d’Avila: “La prova che avete fatto l’orazione bene è che, terminata l’orazione, avete una maggior carità fraterna”. Chi è dalla Verità, infatti, cerca di conformarvisi e da vero, diventa, inevitabilmente, per quanto possibile ad un uomo, buono. Il Foglio, 25 agosto 2011