Il significato della cosidetta "capacità di sopravvivenza autonoma" e gli aborti nel secondo trimestre di gravidanza
Di Libertà e Persona (del 15/08/2011 @ 21:35:31, in Aborto, linkato 3394 volte)
DEL DOTT.ROBERTO ALGRANATI

Il 24 aprile 2010 all’ospedale di Rossano Calabro fu eseguito un aborto legale alla 22a settimana di gravidanza perché il feto era affetto da labbro leporino, una malformazione che poteva essere facilmente corretta con un intervento chirurgico dopo la nascita. Attuato l’aborto con induzione artificiale del parto, il feto, un vero bambino in miniatura della lunghezza di 20 cm., fu ritenuto morto ed abbandonato in una bacinella. Dopo quasi ventiquattro ore il cappellano dell’ospedale si recò a pregare su quello che riteneva essere il cadavere del bambino abortito e si accorse che era vivo. Il bambino fu ricoverato urgentemente nel reparto di terapia intensiva neonatale dell’ospedale di Cosenza ma mori 24 ore dopo.
Non era la prima volta che avvenivano fatti del genere. Nel marzo 2007 un bambino abortito alla 22a settimana di gravidanza all’ospedale Careggi di Firenze per una malformazione dell’esofago (poi rivelatasi inesistente e anch’essa correggibile chirurgicamente) è sopravvissuto per sei giorni nell’unità di terapia intensiva neonatale.
Anche in passato la trasmissione televisiva " i figli dell'aborto ", andata in onda su Canale 5 il 12 marzo 1999, suscitò molta emozione e numerosi commenti sulla stampa. Un bambino non ancora nato era sopravvissuto a un’interruzione legale di gravidanza alla 24ª settimana di gestazione ed era poi stato dichiarato adottabile.
Nel 2007 ha suscitato accese discussioni la dichiarazione dei neonatologi di quattro Università nella quale si riaffermava l’obbligo di tentare sempre la rianimazione di neonati molto prematuri ma vivi, anche se la nascita era il risultato di un aborto volontario legale nel secondo trimestre di gravidanza.
Questi fatti hanno messo in crisi ripetutamente le idee erronee, diffuse ampiamente nell’opinione pubblica, sulla cosiddetta "capacità di sopravvivenza autonoma del feto” e hanno evidenziato la disinformazione che regna, anche in ambienti colti, sulla vera natura della vita umana prenatale e sulle conoscenze che la biologia scientifica ha ormai da tempo acquisito in questo campo. L’ultimo esempio è la bocciatura da parte del TAR (Tribunale Amministrativo Regionale) dell’ordinanza della Regione Lombardia con la quale si riduceva a sole 22 settimane di gravidanza il limite di tempo massimo in cui poteva essere eseguito un aborto cosiddetto “terapeutico”.
La realtà è che si fanno grandi discussioni su argomenti che non hanno alcun senso, perché contraddicono palesemente la verità scientifica, e sono solo il frutto di pregiudizi ideologici senza alcun nesso con la realtà. E come se nelle società razziste del passato si fosse discusso qual era la percentuale massima di sangue nero o ebraico che un individuo poteva avere nel suo patrimonio genetico per godere dei diritti umani. La discussione sarebbe stata del tutto irragionevole semplicemente perché l’appartenenza razziale non poteva giustificare alcuna discriminazione quanto ai diritti umani. Oggi l’assurdità di simili discussioni appare evidente perché, fortunatamente, viviamo in una società in cui il razzismo è, a ragione, condannato dalla legge e dall’opinione pubblica.
Purtroppo però ragionamenti molto simili e ugualmente assurdi si fanno quando si tratta della capacità di sopravvivenza autonoma del feto.
Già la stessa espressione "capacità di sopravvivenza autonoma” è impropria e ingannevole. Essa induce a pensare erroneamente che, nel seno materno, il feto non abbia una vita propria ma partecipi alla vita stessa della madre, come se fosse un organo del suo corpo e che, solo a partire da circa 26-28 o, più recentemente, da 24 o 22 settimane di gravidanza, il nascituro acquisti in qualche modo misterioso una vita propria e “autonoma", di valore superiore alla precedente, che gli permetterebbe di sopravvivere fuori del corpo della madre e che gli conferirebbe una vera dignità umana e un pieno diritto alla vita. Gli articoli 6 e 7 della legge 194/78, che regolamentano l’aborto legale nel secondo trimestre di gravidanza, si basano proprio su questa idea erronea della vita umana prenatale.
Questa idea, infatti, risale a un'epoca prescientifica, in cui le informazioni sulla vita prenatale erano rudimentali, ed è completamente falsa, come la biologia scientifica ha dimostrato da più di un secolo.
In realtà si deve parlare di capacità del feto di “sopravvivere al di fuori dell'utero", senza alcun riferimento ad una presunta autonomia o meno della sua vita.
Infatti, nessun animale, e nemmeno l’uomo, è autonomo in senso assoluto ma, per la loro sopravvivenza, dipende sempre dell'ambiente in cui vive. È invece essenziale che esso sia dotato degli organi necessari per sopravvivere nell'ambiente al quale è destinato: nel caso del feto l'utero materno, nel caso del neonato e dell'adulto l'ambiente fuori dell'utero.
Per comprendere come stanno realmente le cose, bisogna fare una breve premessa di biologia generale.
Come una fiamma per ardere ha bisogno di carburante e di ossigeno, così qualunque animale, uomo compreso, per mantenersi in vita deve assumere dall'ambiente sostanze nutritive e ossigeno. Le sostanze nutritive sono costituite da alcuni gruppi di composti chimici (carboidrati, grassi e proteine) che forniscono la materia prima per la costruzione e il continuo rinnovamento del corpo. Inoltre queste sostanze sono anche ricche di energia chimica e vengono perciò utilizzate, in misura più o meno grande, anche come veri e propri "carburanti". Queste sostanze, infatti, combinandosi chimicamente con l’ossigeno, cioè subendo una vera e propria " combustione ", sia pur lenta e controllata, producono calore e altre forme di energia necessarie alle funzioni indispensabili alla sopravvivenza (per es. circolazione del sangue, respirazione, digestione, ecc.), e all'adempimento di altre funzioni tipiche degli animali (per es. deambulazione, nuoto, volo ecc..).
La combinazione di questi "carburanti" con l’ossigeno, cioè la loro “combustione", libera gran parte della loro energia chimica che è utilizzata dall’organismo vivente e porta alla formazione di composti chimici poveri di energia, (principalmente anidride carbonica, acqua, urea, e acido urico) che non sono più utilizzabili e devono perciò essere eliminati continuamente del corpo dell'animale.
Un essere umano adulto o un neonato compiono queste funzioni fondamentali prendendo l’ossigeno dall'aria per mezzo dei polmoni, assumendo sostanze nutritive (carboidrati, grassi, proteine) acqua e sali dai cibi per mezzo del tubo digerente, eliminando l'anidride carbonica (che è un gas) nell'aria attraverso i polmoni ed espellendo, per mezzo dei reni, sotto forma di una soluzione acquosa (l'urina), l'urea, l'acido urico e gli altri prodotti della “combustione”.
Invece l’embrione o il feto di un mammifero (uomo compreso) compiono le stesse funzioni fondamentali per mezzo di un unico organo, la placenta, che li rende capaci di utilizzare il sangue della madre (che circola nelle pareti dell'utero) come sorgente di ossigeno e di sostanze nutritive e come via di eliminazione dell’anidride carbonica, dell'urea e degli altri prodotti del metabolismo.
La placenta appartiene al corpo del feto, e ne è anzi l'organo più voluminoso. Nella specie umana la placenta ha la forma di un disco adeso alla parete della cavità dell'utero, ed è collegata al resto del corpo dell'embrione o del feto mediante il cordone ombelicale. In esso decorrono due arterie ed una vena le quali assicurano che il sangue del feto, pompato dal suo cuore, circoli continuamente e in grande quantità anche attraverso la placenta.
Il sangue del feto, che giunge alla placenta attraverso le due arterie ombelicali, è povero di ossigeno e di sostanze nutritive ed è carico di anidride carbonica, di urea e di altri prodotti del metabolismo che devono essere eliminati. Nella placenta il sangue fetale è distribuito, dalle successive ramificazioni delle arterie ombelicali, a un gran numero di sottili vasi sanguigni (i capillari), situati all'interno di strutture simili a finissime radici, i " villi " placentari che sono immersi nel sangue materno. Di qui, dopo aver percorso i capillari, il sangue fetale refluisce in piccole vene che, all'interno della placenta, confluiscono progressivamente in vene di calibro sempre maggiore e infine sboccano nella vena ombelicale. Attraverso questo vaso il sangue abbandona la placenta e ritorna al corpo del feto ricco di ossigeno e di sostanze nutritive e depurate dall'anidride carbonica, dall’urea e dagli altri prodotti del metabolismo. Ciò avviene perché il sangue del feto, circolando all'interno dei vasi sanguigni capillari contenuti nei villi della placenta, scorre a minima distanza dal sangue materno contenuto negli interstizi fra i villi, senza però mai mescolarsi con esso, perché separato dalla doppia parete dei villi placentari e dei capillari in essi contenuti. In tal modo possono avvenire per diffusione rapidi scambi di sostanze chimiche fra il sangue del feto e quello della madre. Il sangue fetale riceve dal sangue materno l'ossigeno e le sostanze nutritive che la madre ha assunto con i suoi polmoni e con il suo apparato digerente e contemporaneamente cede al sangue della madre l'anidride carbonica, l’urea e gli altri prodotti del metabolismo, che la madre poi provvederà ad eliminare con i suoi polmoni e i suoi reni.
La gravidanza consiste, dunque, non solo nello sviluppo dell’embrione o del feto all’interno dell’utero materno, ma nel fatto che essi si riforniscono di ossigeno e di sostanze nutritive ed eliminano l’anidride carbonica e gli altri prodotti del metabolismo attraverso il corpo della madre, grazie al collegamento realizzato dalla placenta.
Dopo questa premessa di biologia generale, diventano chiari due punti fondamentali:
1. Il significato della nascita
2. il significato della sopravvivenza del feto fuori dell'utero.

La nascita è un evento carico di grande contenuto emotivo, ma in realtà non è per nulla l'inizio della vita umana (come di ogni altro mammifero), ma solo un brusco cambiamento dell'ambiente di vita di un essere umano che già esiste, vive e si sviluppa fin dal concepimento.
La nascita può essere paragonata al varo di una nave. La nave viene costruita fuori dell'acqua finché la chiglia è completa e quindi da nave e in grado di galleggiare; solo allora la nave viene immessa nell'acqua che sarà il suo ambiente definitivo, anche se la sua costruzione non è ancora completata. Allo stesso modo un essere umano, come qualunque mammifero, è partorito e immesso nel suo ambiente definitivo solo dopo che i suoi polmoni, il suo tubo digerente e il suo apparato urinario hanno raggiunto uno sviluppo adeguato per adempiere efficacemente, fuori dell'utero materno, le funzioni fondamentali della respirazione, della nutrizione e dell’eliminazione dei prodotti del metabolismo che, durante la vita prenatale, vengono compiute dalla placenta.
Il feto ha "capacità di sopravvivenza fuori dell'utero" (e non di sopravvivenza autonoma, come erroneamente si dice) quando i suoi polmoni, i suoi reni e il suo apparato digerente sono abbastanza sviluppati per sostituire le funzioni della placenta nell'assunzione di ossigeno e di sostanze nutritive, e nell’eliminazione dell’anidride carbonica, dell’urea e degli altri prodotti del metabolismo. Per la sopravvivenza fuori dell’utero è soprattutto importante la funzione dei polmoni. Se essi non sono in grado di sostituire subito e adeguatamente la placenta nell'assunzione di ossigeno e nell’eliminazione dell’anidride carbonica, il bambino muore per insufficienza respiratoria. E’ questa la causa di gran lunga più importante della non sopravvivenza del feto fuori dell’utero materno. Da queste conoscenze scientifiche risulta chiaro che è una vera assurdità attribuire al feto un maggiore un minor grado di dignità umana e quindi condizionare il suo pieno diritto alla vita basandosi alla sua capacità di sopravvivere o meno fuori dell'utero, come invece stabilisce la legge 194 con gli articoli 6 e 7. Secondo la legge, infatti, nel secondo trimestre di gestazione l’interruzione di gravidanza, al fine di ottenere la morte del feto, può essere praticata per salvaguardare la vita o la salute, anche solo psichica, della donna; invece, … “quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto”…, l’interruzione di gravidanza può essere praticata solo quando la gravidanza e il parto costituiscono un grave pericolo per la vita della madre e in questo caso il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto.

L’assurdità di queste disposizioni della legge è evidente per due ragioni:

1) Anzitutto perché la dignità umana ed il diritto alla vita non possono dipendere dal modo con cui un essere umano si rifornisce di ossigeno e di sostanze nutritive ed elimina l’anidride carbonica e gli altri prodotti del metabolismo. Un embrione o un feto umano molto prematuro muoiono fuori dell’utero non perché hanno una vita di tipo inferiore, o sono poco “vitali”, ma perché non sono ancora in grado di respirare senza la placenta. Quest’organo invece permette loro di respirare e di nutrirsi, immersi nel liquido amniotico, nello speciale ambiente costituito dall’utero materno. Qualunque adulto affogherebbe subito in un simile ambiente perché, al contrario del feto, non ha la placenta che è indispensabile per respirare senza polmoni e per nutrirsi senza ingerire cibi.
2) In secondo luogo perché la capacità di sopravvivenza al di fuori dell'utero dipende dal grado di assistenza medica disponibile, cioè dalla capacità dei medici di sostituire subito e per lungo tempo la funzione della placenta, sopratutto per quanto riguarda l'assunzione di ossigeno e la eliminazione della anidride carbonica. Cento anni fa nessun neonato sopravviveva se nasceva prima delle 30 settimane di gravidanza ( sette mesi compiuti ); oggi, nei reparti di neonatologia dei nostri ospedali, sopravvive il 70% dei neonati partoriti fra la 25ª e la 28ª settimana, il 10% di quelli partoriti fra la 25a e la 23a settimana il 3% dei neonati venuti alla luce alla 22ª settimana. La ragione della progressiva riduzione dell’età di gravidanza in cui è possibile la sopravvivenza del feto fuori dell'utero è dovuta principalmente al fatto che i medici hanno trovato il modo di far funzionare sufficientemente i polmoni del neonato molto prematuro anche quando questi, da soli, non sono ancora in grado di farlo.
Quando i medici disporranno della placenta e dell’utero artificiali ( teoricamente possibili e attualmente in fase di studio e di sperimentazione sugli animali ), si potrà ottenere, senza danno, la sopravvivenza e l'ulteriore sviluppo di feti di età gestazionale molto minore e si potranno evitare molte delle gravi lesioni cerebrali conseguenti all’ asfissia neonatale dovuta a parti molto prematuri.

Ritorniamo alla legge 194/78. Lo scopo di ogni interruzione di gravidanza, secondo questa legge, è la difesa della vita o anche solo della salute fisica e psichica della madre ottenuta attraverso l’uccisione dell’embrione o del feto.
Nel primo trimestre di gravidanza la morte dell’embrione o del feto è “garantita” perché la si ottiene facendolo letteralmente a pezzi nel seno materno ed estraendo i frammenti dalla cavità dell’utero; nel secondo trimestre di gravidanza la morte del feto è ottenuta inducendo artificialmente il parto o praticando un taglio cesareo in un’età gestazionale in cui, presumibilmente, i suoi polmoni non sono ancora in grado di sostituire la funzione respiratoria della placenta, cosicché il feto, se non nasce già morto per effetto del trauma da parto, muore poco dopo per insufficienza respiratoria. Di fatto molti di questi feti nascono vivi, e muoiono in pochi minuti, ancora in sala parto, come pesci fuor d’acqua.
Ma qui nasce il “problema”: questi metodi di interruzione della gravidanza non “garantiscono” più la morte del feto, almeno subito dopo il parto: non si può infatti sapere in anticipo con certezza se un feto, alla fine del secondo trimestre di gravidanza, ha già i polmoni sufficientemente sviluppati o meno per sopravvivere dopo la nascita con l’assistenza della terapia intensiva neonatale.
La capacità di sopravvivenza fuori dell’utero, infatti, essendo legata principalmente al grado di sviluppo dei polmoni, compare progressivamente al passaggio dal secondo al terzo trimestre di gravidanza. Si dovrebbe piuttosto parlare di probabilità di sopravvivenza del feto fuori dell’utero che, allo stato attuale dell’assistenza medica, va dal 3% a 22 settimane al 70% fra la 25a e la 28a settimana. A “scopo pratico” si è convenuto “formalmente”, in modo arbitrario, che la capacità di sopravvivenza del feto fuori dell’utero non sussista fino all’ inizio della 24° settimana di gravidanza. Tuttavia, oltre a possibili errori nella determinazione dell’età gestazionale, anche prima della 24° settimana (raramente anche a 22 settimane) possono esserci feti un po’ più avanti nello sviluppo che hanno la capacità di sopravvivere, se aiutati dalla moderne tecniche di rianimazione. Si crea così una “incresciosa” situazione: il feto che doveva essere ucciso dall’interruzione di gravidanza continua ostinatamente a vivere. E allora cosa si deve fare? Lo si abbandona senza alcuna assistenza aspettando che muoia spontaneamente, magari dopo ore, oppure lo si ricovera nell’unità di terapia intensiva neonatale per tentare di salvargli la vita, con il rischio di gravi danni neurologici o psichici causati dalla asfissia dovuta al precocissimo parto? Se si è praticato l’aborto non era forse perché si voleva la morte del feto per la “salute” fisica o psichica della donna? Chi decide se il feto deve essere assistito nell’unità di terapia intensiva? I medici o la madre?
Per evitare il “problema”, prima di praticare l’aborto con il parto indotto o il piccolo taglio cesareo, il feto può essere ucciso nell’utero con un’iniezione di cloruro di potassio o di digitale praticata direttamente nel suo cuore con un ago guidato dall’ecografia. Per molti anni negli USA e stato praticato ampiamente anche l’aborto cosiddetto “a nascita parziale”; una procedura orribile, che consiste nella estrazione chirurgica del feto per via vaginale fin tanto che la testa, che è la parte più ampia del corpo fetale, non rimane bloccata nel collo dell’utero; a questo punto si perfora il cranio del feto, si introduce nel foro una sonda e si aspira il cervello: così le dimensioni del cranio si riducono e il feto può essere estratto senza difficoltà dal corpo della madre e la sua morte è certa. Questa tecnica di aborto, di fatto non è praticata in Italia, anche se di per sé sarebbe lecita dato che la legge 194 non proibisce alcuna tecnica abortiva chirurgica.
In Italia si preferisce l’iniezione intracardiaca, oppure si propone di proibire l’aborto dopo le 22 settimane di gravidanza, quando già esiste qualche probabilità di sopravvivenza del feto. E’ questa la decisione della Regione Lombardia che però è stata bocciata dal TAR.
Tuttavia, se non si usano questi “metodi preventivi” e il feto abortito nasce vivo e non muore subito in sala parto, le opinioni dei medici e dei bioeticisti si dividono: c’è chi sostiene che il feto deve sempre essere rianimato e assistito in terapia intensiva neonatale (Società Italiana di Neonatologia e Comitato Nazionale di Bioetica), altri che deve essere rianimato solo se ha raggiunto l’età gestazionale di 25 settimane, mentre nei casi di età compresa tra le 22 e le 25 settimane si dovrebbe decidere caso per caso e affidando ai medici la valutazione della “vitalità” del feto, delle sue probabilità di sopravvivenza e del rischio di lesioni cerebrali da asfissia, sentendo in proposito la volontà dei genitori (Carta di Firenze).
Non si può evitare un senso di orrore di fronte a queste considerazioni circa il modo più “appropriato” per far morire legalmente un bambino non nato nel 2° trimestre di gravidanza.
Certamente alla luce delle conoscenze scientifiche sulla vita umana prenatale e sulla capacità di sopravvivenza del feto fuori dell’utero, appare evidente, oltre all’aspetto disumano, anche la natura assolutamente antiscientifica ed arbitraria della legge 194/78 e, in generale, di tutte le leggi permissive in materia di aborto che considerano la capacità di sopravvivenza fuori dell’utero come discrimine fra il diritto o il non diritto alla vita.
In realtà, in tutto il mondo occidentale, queste leggi non sono nate dallo sviluppo della scienza medica, come invece è avvenuto per le leggi sulle donazioni e sui trapianti d'organo. Al contrario, esse sono state il frutto di un’imposizione ideologica, attuata con l’inganno programmato e sistematico dell’opinione pubblica e con la collaborazione di politici senza scrupoli, per scopi che nulla hanno a che vedere con quelli delle scienze mediche. Un inganno che continua anche oggi con una rigorosa censura sui mezzi di comunicazione di massa.
Ciò ha creato una situazione giuridica assurda e un insanabile conflitto fra la legge positiva e la realtà di fatto, da cui non si potrà mai uscire fin quando le leggi in materia cesseranno di basarsi su pregiudizi ideologici e finalmente terranno conto della realtà, cioè dei dati certi delle scienze biologiche.
In attesa che i politici rinsaviscano e si rendano conto che la legge 194/78 è una vera follia giuridica, si potrebbero almeno proibire gli aborti nel secondo trimestre di gravidanza nel caso in cui le i processi patologici o le malformazioni del feto fossero guaribili per mezzo di terapie mediche o chirurgiche attuate prima o dopo la nascita. Infatti, secondo la legge 194, i processi patologici o le malformazioni fetali giustificano l’aborto perché rappresentano un pericolo per la salute psichica della madre (Art, 6). Ma se queste patologie sono guaribili questa giustificazione legale viene meno. E’ un’eventualità che finora la legge 194 non prevede. Perciò ogni anno, in Italia, centinaia di bambini non ancora nati continuano ad essere uccisi con l’aborto legale mentre potrebbero vivere ed essere guariti dalle loro infermità.