Nei media si eleva un peana generale intriso di lacrime e scoramento per la morte della cantante inglese Amy Winehouse. Intendiamoci bene: a tutti, anche al più incallito delinquente, va tributato un sentimento di pietas, se non cristiana perlomeno umana, allorchè si lascia questo mondo. Quindi anche alla Winehouse.
Detto ciò, quello che sconcerta è il fatto che il leitmotiv più ricorrente sia il seguente: è morta per la sua fragilità. Per nulla: è morta non perché fragile ma per le sue scelte che semmai l’hanno resa debole. Infatti il suo trapasso era cronaca di una morte annunciata (già scampata al dì letale una volta, più volte vista ubriaca o drogata in concerto etc.).
La Winehouse ha fatto la corte alla morte: perché poi stupirsi che ad un certo punto la Signora con la falce abbia accettato le sue lusinghe (tanto più che si vocifera che forse è stato suicidio)? Si è sposata con l’eccesso e questi - si sa - è coniuge esigente che prima o poi ti porta il conto da saldare. La libertà o il tanto decantato principio di autodeterminazione obbliga dunque anche ad un computo preciso delle responsabilità frutto della gestione di questa stessa libertà. Ci si lamenta poi che aveva tutto ma questo tutto non le bastava. In particolare si vocifera che negli ultimi giorni fosse ancora più depressa perché si era lasciata con il fidanzato.
Eppure in centro Africa, dove non si ha nulla, la parola depressione è sconosciuta e i bambini africani come quelli delle favelas in Brasile sorridono sdentati del loro niente, seppur la loro esistenza – quella sì – sia davvero tragica. Quindi il compatimento non è giustificato. Frasi come “i fan e i colleghi la rimpiangono pensando di non aver fatto abbastanza per lei” fanno venire solo l’orticaria e gridano giustizia al cielo perché l’ugola d’oro del soul non voleva essere aiutata sebbene molti venivano in suo soccorso e le voci di milioni di derelitti sparsi nell’orbe terracqueo che invece vogliono essere assistiti non vengono ascoltate. Ma a dire la verità e ad un esame più attento era comprensibile che la cantante fosse depressa: perché fama, successo, soldi e potere massmediatico sappiamo che non riempiono il cuore di nessuno.
La sua tristezza è la prova provata che senza Dio e l’Assoluto si può facilmente annegare in un bicchiere di wisky. E’ poi da rifiutare un’estetica di un certo tipo di morte. C’è quasi un’aura di soddisfazione che sia morta così perché è il perfetto completamento di un’esistenza dedita alla sballo. Insomma se doveva morire doveva farlo con un ago ficcato in braccio o le narici bianche di coca, perché nell’immaginario collettivo il rocker demoniaco che combatte le convenzioni non può spirare in un letto di ospedale circondato dall’affetto dei suoi cari. Eppure morire come un drogato di certo non è mai stato dignitoso per nessuno. E’ infine da rigettare il mito dell’artista romantico sofferente che alla vita della Winehouse si vuole associare. Tale mito non c’entra nulla con questa paladina dello sballo totale.
Le vite di Chopin, Schumann (morto pazzo), Listz (morto sacerdote), Schubert, e poi Brahms, Mahler, Bruckner erano piagate dal dolore a motivo della loro finissima sensibilità. Erano anime crepuscolari, forse a volte decadenti, però altresì anime elevate, nobili, che a causa della loro profondità sapevano cogliere con nitore quella parte di amarezza che l’esistenza inevitabilmente riserva a ciascuno di noi. Un’esistenza a volte drammatica ma ricca di senso. E poi spessissimo tale strazio del cuore era tutto interiore, un dolore che per pudore non si esternava se non nella musica, unico luogo adatto per comunicare appieno la loro infelicità. Insomma non si lasciavano andare in pubblico a poco edificanti e svilenti spogliarelli dell’anima in cui invece la cantante, tra fumi dell’alcol e tirate di coca, indugiava spesso compiacente.
E dunque all’opposto di questi grandi del passato la Amy Winehouse, insieme ai suoi colleghi morti per overdose o suicidi quali Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jim Morrison, John Belushi, Kurt Cobain dei Nirvana, Sid Vicious dei Sex Pistol, erano solo alfieri di un vuoto nichilismo, incarnavano unicamente vite eccessive fine a se stesse, erano adoratori dell’esistenza borderline intesa come farmaco contro il nonsense in cui erano volutamente sprofondati. Arrabbiati contro tutti e tutti ma non si è mai capito bene il perché. L’intemperanza nutriva la loro vita dal momento che ogni altro credo era stato escluso.
Erano vite, al contrario dei grandi geni del passato, che puntavano in basso, non al sublime. Anche Beethoven era un ubriacone (si racconta che alla sua morte nel suo pianoforte fossero state trovate alcune bottiglie vuote di vino), anche lui si stordiva con l’alcol perché schiacciato dalla consapevolezza che il destino gli era nemico: la sordità, la solitudine, il nipote tanto amato che non ricambiava il suo affetto, una visione dell’esistenza intristita dalle letture di Kant.
Di certo non beveva perché la sua ultima “fidanzata” lo aveva lasciato. Insomma la profondità del dramma di Beethoven si misura ascoltando la V Sinfonia, quella della Winehouse con la capienza della sua ultima bottiglia di whisky.