Il Concilio Vaticano II: rottura o continuità con la Tradizione?
Di Libertà e Persona (del 18/07/2011 @ 08:51:32, in Storia del Cristianesimo, linkato 1453 volte)
di Massimo Tonon

Nell’affrontare l’interpretazione del Concilio vanno considerati i due orientamenti con i quali esso viene valutato: quello della “rottura” e quello della “continuità” con la tradizione, cioè con il magistero precedente.
Queste due definizioni sono state formulate da Benedetto XVI nel discorso rivolto alla Curia il 22 dicembre 2005, nel quale auspicava che si guardasse al Concilio Vaticano II alla luce “dell’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa che il Signore ci ha dato”, contrapponendo questa interpretazione all'“ermeneutica della discontinuità e della rottura”, che invece considera il concilio come una “transizione epocale”, secondo le parole di Giuseppe Alberigo.

L’“ermeneutica della continuità” non è una novità: essa è presente nel Magistero pontificio fin dall’avvento di Giovanni Paolo II, il quale inaugurò una “lettura normalizzante” del Concilio.
Secondo l’interpretazione dell’”ermeneutica della discontinuità e della rottura”, invece, alcune peculiarità del concilio portavano necessariamente a ritenerlo un momento di cesura tra il periodo post-tridentino e il nuovo corso che a esso sarebbe seguito.
Per questo, nella valutazione globale del Concilio Vaticano II bisogna tenere conto anche, e forse soprattutto, della profondità del rinnovamento che esso portò in una serie di campi fondamentali, talvolta tornando anche a tradizioni ormai abbandonate da secoli (si pensi, per esempio, alla reistituzione del diaconato permanente, e alla possibilità per i sacerdoti di concelebrare) e restituendo il giusto valore alle chiese locali e alle diverse culture, che il monolitismo post-tridentino aveva fatto perdere di vista, costringendo la Chiesa cattolica ad adattarsi alla situazione peculiare del mondo moderno.

Alla luce di tutto questo, un esclusivo riferimento ai testi, benché necessario, sarebbe riduttivo e non esaustivo, perché l’identità del Concilio è stata determinata soprattutto dall’effettivo svolgimento delle assemblee e dalla ricezione dell’evento da parte della comunità dei fedeli. Il significato precipuo del Concilio, quindi, secondo questa visione, consiste nell’“aver impegnato risolutamente la Chiesa sulla via dell’avvenire con una triplice correzione al tempo stesso pastorale, spirituale e intellettuale”. L’”ermeneutica della continuità”, invece, non partiva da una visione storica dell’evento, bensì da una interpretazione teologica dello stesso, come si evince anche dal discorso di Benedetto XVI; essa lo poneva, per definizione, in continuità con tutta la tradizione della Chiesa e lo considerava soltanto uno dei ventuno Concili ecumenici. Questa ermeneutica riteneva insostenibili, da un punto di vista teologico, i due termini pre- e post-conciliare perché, come ebbe a dire il card. Ratzinger, “l’unica maniera di rendere credibile il Vaticano II è presentarlo chiaramente com’è: una parte dell’intera e unica tradizione della Chiesa e della sua Fede”.
Per i sostenitori di questa interpretazione, il Concilio coincideva con i suoi documenti ufficiali, che dopo l’approvazione del papa erano diventati un atto del Magistero, se non infallibile, almeno autentico.
In questo senso, essi tendevano a far passare in secondo piano il dibattito conciliare e tutte le caratteristiche dovute al momento storico in cui si è svolto, vedendo nel concilio un momento di quella particolare categoria della storia che è chiamata “historia salutis”. Lo stesso mons. Lefebvre, a questo riguardo, diceva: ”Quello che può sembrare un voltafaccia non ha nulla che debba sorprenderci. Una volta che uno schema veniva promulgato dal papa, non era più uno schema ma un atto magisteriale, mutando perciò natura, […] io non posso separarmi dal Santo Padre: se il Santo Padre firma, moralmente io sono obbligato a firmare”.
Perciò la sola interpretazione autentica del Vaticano II, alla stregua di ogni altro Concilio, era quella che emergeva alla luce della fede e della tradizione: esso andava considerato quasi come una continuazione e un ulteriore “approfondimento” del Concilio Vaticano I e del Concilio di Trento.
Questa idea, che era alla base degli schemi preparatori, si accordava però male sia con le intenzioni di papa Giovanni XXIII, sia con quelle della maggioranza dei padri conciliari che, infatti, rifiutarono tutti gli schemi proposti, provocando la costernazione della minoranza, che tuttavia riuscì più volte a far emergere il proprio punto di vista.

Proprio questa situazione ha fatto sì che tra i fautori della continuità emergano due posizioni distinte: la prima, maggioritaria e presente soprattutto tra gli studiosi più vicini alla Santa Sede, che ritiene che i testi del concilio siano effettivamente in continuità con la tradizione, tra essi vi sono il card. Siri, o più recentemente mons. Guido Pozzo; la seconda, minoritaria, che sostiene ci siano nei documenti conciliari elementi di discontinuità con la tradizione, come Romano Amerio, e lo stesso mons. Lefebvre.
In un articolo apparso su Avvenire del 10 dicembre 2010, il prof. Corrado Gnerre ha definito queste due posizioni come “minimalista” e “massimalista”. “La ‘minimalista’, che afferma la continuità, ma conservando tutto com’è; la ‘massimalista’, che afferma ugualmente la continuità, ritenendo però necessario intervenire con un eventuale documento per annotare quelle parti dei testi conciliari che più difficilmente sono armonizzabili con i documenti del magistero precedente. È ‘ermeneutica della continuità’ in entrambi i casi. […] il Concilio Vaticano II è un fatto. Piuttosto da parte di costoro si vuole prendere in considerazione l’opportunità di andare molto più a fondo per capire davvero le cause di un ormai troppo lungo ‘inverno’ della Chiesa. […] Mi sembra che per la prima volta s’invochi da parte del Magistero un’ermeneutica per un atto del Magistero stesso, un atto per giunta pastorale, quindi che ha volutamente utilizzato un linguaggio che sarebbe dovuto essere quanto più possibile chiaro, semplice e aperto a tutti”.

Il problema che si pone, dunque, è inerente l’interpretazione del valore dei testi Conciliari. Se, dal punto di vista dell’”ermeneutica della rottura”, un superamento dei testi era plausibile in quanto il riferimento a essi non è esclusivo, questo era meno immediato per i sostenitori dell’”ermeneutica della continuità”, i quali li ritenevano costitutivi del Concilio stesso.
Per questo è molto importante cercare di capire il valore dato a un Concilio che, per la prima volta nella storia della Chiesa, è stato dichiarato – e si è auto-qualificato – come pastorale.