di Francesco Mario Agnoli
La lussemburghese Viviane Reding, vice-presidente della Commissione europea e commissaria incaricata di Giustizia, Diritti fondamentali e Cittadinanza, ha richiamato duramente all'ordine l'Ungheria, ammonendola che “gli Stati membri della Ue non possono usare i fondi comunitari per pubblicità contro l'aborto”. La Reding accusa, difatti, Budapest di avere promosso una campagna pubblicitaria “non in linea con i progetti presentati dalle autorità ungheresi per ricevere i finanziamenti di Bruxelles” e, a nome dell'esecutivo europeo, gli ha intimato di ritirare tutti i manifesti utilizzati per la campagna “se non vuole incorrere i sanzioni finanziarie”.
Il duro intervento della commissaria vice-presidente ha riscosso la piena approvazione della europarlamentare francese Sylvie Guillaume, socialista, che ha commentato: “Usare fondi Ue per promuovere campagne anti-aborto è un abuso, ed è incompatibile con i valori europei”. Alla luce di questi interventi, dell'ordine di ritiro dei manifesti e delle minacciate sanzioni si potrebbe supporre che il governo ungherese abbia minacciato di comminare il carcere dure alle donne che scelgono di abortire o, quanto meno, le abbia indicate alla pubblica riprovazione come elementi antisociali, Niente di tutto questo. Il manifesto incriminato per pubblicità contro l'aborto riproduce l'immagine di un feto, che molto timidamente chiede: “Capisco che tu non sia pronto per me, ma ti prego: dammi in adozione, lasciami vivere”. E questa sarebbe pubblicità contro l'aborto?
Non si è sempre detto (e, almeno in Italia, non si continua a dire) che il ricorso all'aborto è un rimedio estremo e doloroso soprattutto per la donna e che la legge n. 194 del 1978 lo ha sì consentito, ma è comunque a favore della vita, avendo come primo scopo quello di eliminare le condizioni che favoriscono il ricorso all'aborto. E' tanto vero (in via di principio) che la legge si apre con la solenne affermazione che lo Stato “riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio” e all'art. 2 affida ai consultori familiari il compito di contribuire “a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all'interruzione della gravidanza” Il manifesto ungherese fa esattamente questo: si schiera, come la legge italiana, a favore della vita e indica a chi sta prendendo in considerazione la soluzione abortiva una via alternativa: l'adozione.
Ora si scopre che invece nella Ue (ripugna chiamare questa organizzazione col nome di Europa) non è affatto così. Un manifesto come quello ungherese nella Ue non ha diritto di cittadinanza, soprattutto se viene stampato con fondi europei, perché, come è ovvio la Ue – ha ragione la francese – non può finanziare iniziative “incompatibili con i valori europei”. La Reding non ha spiegato se i fondi europei possano invece essere utilizzati per propagandare e promuovere l'aborto. Tuttavia è logico presumere di sì dal momento che, garante l'eurodeputata Guillaume, che ha applaudito l'intervento della commissaria vice-presidente, l'aborto è , appunto, “un valore europeo”. Forse è anche per questo che l'Ue è sempre più distante da quello che doveva essere l'Europa sognata nel dopoguerra da un branchetto di illusi (ma in molti ci avevamo creduto), e riscuote sempre meno consensi e simpatie. Peccato non sia stata abortita.
(Fonte: La Voce di Romagna)