di Riccardo Cascioli “Gheddafi non è il nostro bersaglio”, ha detto il comando della Nato mentre si infittivano le domande sulla sorte del leader libico dopo che uno dei raid notturni su Tripoli aveva colpito il suo bunker.
E allora vogliamo proprio dirlo: è ora di smetterla con questa insopportabile ipocrisia. Se l’obiettivo è proteggere i civili e non colpire Gheddafi, perché allora le bombe che da settimane cadono su Tripoli cercano di colpire i rifugi del raìs, anche a costo di fare vittime civili? E la bomba dell’altra notte sul bunker è stato un errore? E cosa c’entra con la protezione dei civili la distruzione delle sedi radio e tv? E poi, quali civili: quelli di Tripoli, martoriati dalle bombe della Nato non contano? La verità è che dei civili libici, così come del milione e passa di immigrati che lavoravano in Libia fino all’inizio dei bombardamenti, non è mai importato niente a nessuno. Le motivazioni umanitarie fin dall’inizio sono state la foglia di fico per coprire i veri motivi di una guerra voluta anzitutto dalla Francia – è bene non dimenticarlo – che ha come obiettivo principale l’eliminazione di Gheddafi, come ci ha detto chiaramente il vicario apostolico di Tripoli, monsignor Martinelli.
Gas? Petrolio? Fin troppo facile andare a cercare nelle fonti energetiche la ragione fondamentale di questa guerra, così come negli interessi geopolitici di un paese o dell’altro. Non ci interessa ora discutere su queste ipotesi, tutte legittime tutte opinabili. Quello che vogliamo dire con forza è: basta con l’ipocrisia. Ci voleva la grave crisi della Siria per far risaltare l’inconsistenza di tutte le dichiarazioni intrise di spirito umanitario che abbiamo sentito a marzo per giustificare la guerra alla Libia.
Come non ricordare qui anche l’ipocrisia tutta italiana di chi – presidente della Repubblica in testa – pretendeva di non chiamare guerra questo intervento, come ricordato anche dal nostro Robi Ronza nella sua rubrica settimanale: e come altro si potrebbe chiamare un’azione condotta da militari che lanciano bombe e missili contro i militari di un altro paese? “Quando il leader di un paese attacca il proprio popolo, abbiamo il dovere morale di intervenire”, si diceva in coro.
Il “dovere morale”, costi quel che costi. E dov’è finito il dovere morale nei confronti del popolo siriano? Ottocento morti in pochi giorni, dicono diverse fonti, ed è tutt’altro che finita. Della Libia invece non si è mai saputo con esattezza, perché sono state denunciate stragi di ogni tipo per giustificare la guerra, ma nulla è mai stato documentato, neanche nelle città “liberate”. Anzi, le uniche immagini di “fosse comuni” si sono poi rivelate un clamoroso falso.
Ma torniamo alla Siria, a cui si potrebbe aggiungere anche il Bahrein: qui abbiamo cominciato a leggere tanti distinguo, il “dovere morale” di soccorrere la popolazione civile non è più assoluto, bisogna considerare anche il futuro, quello che potrebbe accadere se cadesse il regime di Assad. E pensare che ci attaccavano quando dicevamo la stessa cosa a proposito di Gheddafi, ci davano dei “pacifisti”, insensibili alle sofferenze dei popoli e al bisogno di democrazia. Ora, man mano che i dettagli sui massacri che stanno compiendo le forze siriane non si riescono più a nascondere, assistiamo a un vero e proprio campionato di arrampicata sugli specchi. Volete un esempio? Prendiamo uno dei più noti e seri analisti di relazioni internazionali, Vittorio Emanuele Parsi, docente all’Università Cattolica di Milano ed editorialista di punta di Avvenire e La Stampa: il 27 febbraio, su Avvenire, invocava misure ferme contro Gheddafi, plaudendo al blocco dei beni decisi dall’Europa contro Gheddafi e il suo seguito, e diceva: “Sono misure importanti, incapaci di arrestare il massacro, ma in grado di mandare un forte segnale che il mondo non è neutrale in questa sfida tra il tiranno e il suo popolo, né intende girare lo sguardo altrove.
Poco, tanto? In proposito basterebbe ricordare come nel 1982 Afez el-Assad, padre dell’attuale presidente siriano, fece migliaia di morti nella città di Haman per stroncare una rivolta guidata dalla Fratellanza Musulmana nella sostanziale indifferenza del mondo”. Chiaro? Con Gheddafi non si poteva ripetere l’errore già fatto con la Siria nel 1982. E quindi, eccolo meno di un mese dopo, a sostenere l’intervento armato. Ma il 6 maggio, in un altro intervento su Avvenire, lo stesso Parsi ci viene a spiegare perché “In Libia sì, in Siria e Bahrein no”.
Sì, è vero, c’è un tiranno – degno figlio di suo padre - che sta massacrando il suo popolo, ma qui no, non si può intervenire perché la situazione geopolitica è diversa, si rischia di rimanere coinvolti in un più ampio conflitto arabo-israeliano. E la popolazione civile? Pazienza, siamo obbligati a restare neutrali. E come con papà Assad nel 1982, gireremo di nuovo “lo sguardo altrove”, neanche qualche misura economica seria prenderemo: le sanzioni economiche decise in questi giorni, guarda caso, non toccano i beni del tiranno Assad, come al contrario si era fatto con quelli di Gheddafi.
La guerra in Libia, ci dice Parsi, invece è diversa, non ha controindicazioni: “La fredda analisi dei ‘frutti’ di quella guerra – afferma con un certo cinismo – conferma che la maggior conseguenza extra-nazionale diretta è stata, finora, quella di provocare una temporanea impennata del flusso di migranti dalla Libia verso i Paesi vicini e, in minima parte, verso l’Italia e l’Europa”.
Oltre un milione di profughi, forse due, sommando i lavoratori immigrati in Libia - soprattutto dall’Asia - e gli africani che transitano dalla Libia alla ricerca di un passaggio per l’Europa. Questi non contano come civili, sono solo “una temporanea impennata”, poi chi se ne frega: la maggior parte “sparirà” nei paesi vicini, mica sono affari nostri. Un’ultima cosa: all’inizio della crisi libica Europa e Usa si accorsero improvvisamente che la Libia di Gheddafi sedeva nel Consiglio Onu per i diritti umani e ne decretarono l’immediata espulsione.
Ora, il 20 maggio ci sarà il voto per eleggere nuovi paesi asiatici nello stesso Consiglio per i diritti umani: neanche a farlo apposta la Siria è candidata, e quindi c’è il concreto rischio che venga eletta. Chissà se allora Parsi e compagnia ci verranno a spiegare che va bene la Siria nel Consiglio per i diritti umani, che è importante coinvolgere la Siria in un dialogo costruttivo per garantire una transizione pacifica verso la democrazia? In fondo, è già stato fatto anni fa per giustificare i rapporti economici con la Cina e la Birmania, malgrado i massacri contro la popolazione che chiedeva democrazia e libertà. Il giochino potrebbe funzionare ancora. da: la Bussola