Si parla da tempo di “emergenza educativa”. Penso che lo abbia fatto per primo, con questa espressione, don Luigi Giussani, che è stato, appunto, un grande ed acuto educatore.
Cosa significa codesta emergenza? Nella mia esperienza mi sembra di poter dire questo: che il dato più evidente per chi abbia oggi a che fare con i giovani, ma non solo, è che molti non sono educati. Manca infatti, spesso, una famiglia alle spalle. Sempre più manca un padre che faccia il padre: che sappia appioppare una sberla, quando serve; che indichi paletti chiari, pochi ma ben precisi, coniugando regole e libertà. Intendo padre in senso lato.
Qualche mese fa un professore viene in una mia classe per spiegare la donazione del sangue e incomincia: “per donare il sangue non bisogna fare uso abituale di droghe…”. E subito dopo: “non che io stia giudicando un modello di vita, ognuno fa ciò che vuole”.
Questo è il messaggio della società, dei media, persino di non pochi che dovrebbero insegnare, con una funzione, diciamo così, paterna: “fai ciò che vuoi”.
Cioè: non crescere, rimani lì, dove il tuo ombelico, dove il tuo istinto, dove il tuo capriccio, dove la circostanza, ti porta. Inchiodato lì.
Cosa nasce da questo modo di intendere il rapporto tra generazioni, tra genitori e figli, tra società e giovani? Una società sbrindellata, un uomo che cresce solo, e che non viene mai contenuto, aiutato, guidato, per cui finisce per essere instabile, incapace di equilibrio, di autocontrollo, di tenacia. Senza forma. La fragilità estrema è la prima caratteristica di chi non è stato educato. Perché l’educazione permette di stare, con una propria forma, nella realtà: di non subirla soltanto, né di ribellarsi ad essa, come un toro che vede sempre rosso, ma di viverla.
Anzi, è la realtà stessa, se rispettata, che ci educa. Un figlio viene educato quando riconosce intorno a sé ruoli distinti e chiari; un figlio cresce quando impara che vi è un tempo per obbedire e che ogni luogo e ogni circostanza ha le sue regole, non assurde, arbitrarie, farisaiche, ma profondamente corrispondenti, appunto, ad una realtà.
Educare alla realtà significa anche educare alla ragione. E’ necessaria una corrispondenza tra un ordine oggettivo e la nostra esistenza soggettiva. Chi si droga, per capirci, non “fa ciò che vuole”, ma va contro la realtà e contro la ragione. Chi approva che una anziana cantante possa avere un figlio senza marito, grazie alla tecnica, violenta la realtà e la ragione, perché pretende di affermare la propria volontà su tutto e tutti. La ragione ci aiuta a non cadere nelle grinfie di Circe o di Armida.
Una vera educazione, dunque, deve essere, anzitutto, educazione alla realtà, alla ragione e all’ideale. La letteratura antica e medievale insegna proprio questo, che c’è un dover essere. Ulisse è chiamato a superare le circostanze contingenti, le difficoltà sul suo cammino, per tornare in patria, da moglie, sudditi e figlio. Ulisse è proposto come ideale, esattamente come Ettore nell’Iliade; come Enea nell’Eneide, come Rinaldo e Goffredo nella Gerusalemme Liberata...
Il giovane deve crescere sapendo che può e deve tendere verso l’alto, che ogni talento che gli è stato dato, va messo a frutto e moltiplicato. C’è un compito, nella vita. L’esistenza dell’ideale contempla anche la consapevolezza di una distinzione tra Bene e male.
Quando questa non vi è più, non si dà educazione, perchè non si dà né crescita né vera scelta. Il bambino deve sapere che vi sono azioni e pensieri giusti e ingiusti, e con gradualità deve essere educato a capirne e ad amarne il perché. Oggi invece si tende spesso ad una educazione di tipo roussoiano: come se non esistesse una nostra intrinseca miseria. La quale, se ignorata, diventa più radicata che mai. Persino nelle parrocchie, ai ragazzi che fanno il catechismo, non si insegnano più, da decenni, i comandamenti: roba vecchia, si dice, sono meglio gli “insegnamenti in positivo”. In verità è l’uomo di oggi che non tollera più una autorità con cui confrontarsi e da cui essere aiutato a crescere.
Anche Dio è diventato buonista: non più giusto, né misericordioso, né “geloso”, ma solo indifferente. Un Dio che non ci turba mai, che non ci chiede, che non esige nulla. Un dio inutile. Così facendo si dimentica che è la pedagogia stessa di Dio ad indicare, come primo passo verso la crescita, la chiara condanna di ciò che è male: initium sapientiae timor Dei. I dieci comandamenti, per lo più in negativo, sono il preludio necessario al comandamento dell’amore. Non sa amare chi non è stato educato a dire di no al proprio egoismo, alla propria superbia, alla propria propensione anche al male. Averlo dimenticato ha prodotto generazioni di cattolici che si fanno la morale da soli e che alla fine modificano la stessa Fede alla luce della loro morale. La caratteristica dell’uomo non educato è proprio questa: il rifiuto a riconoscere un Bene e un male che lo trascendono. Si chiama relativismo.
Ma laddove il limite del comandamento, persino il concetto, è respinto, rimane la immensa superbia dell’uomo, che crede di essere libero, ma è in verità vittima della propria miseria e della propria continua e irragionevole pretesa sulla realtà. Il Foglio, 5 maggio 2011