Buone nuove da Lussemburgo
Di Gianfranco Amato (del 05/05/2011 @ 14:34:47, in Bioetica, linkato 1118 volte)
Una buona notizia giunta dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea rincuora il mondo pro-life, abituato di solito a ricevere amare sorprese nel campo della tutela degli embrioni. Si tratta delle conclusioni recentemente depositate dall’Avvocato Generale della Corte, il francese Yves Bot, secondo cui le cellule staminali embrionali totipotenti sono assimilabili, a tutti gli effetti, ad un embrione umano, e come tali, quindi, non possono essere brevettabili.
Davvero interessante. E ancor più interessante è che a sollevare la questione sia stata la nota associazione ecologica Greenpeace. Tutto è cominciato in Germania, quando il tribunale federale in materia di brevetti (Bundespatentgericht), sulla base di un ricorso proposto da Greenpeace, ha dichiarato la nullità di un brevetto depositato nel 1997 sui procedimenti che consentono di ottenere cellule progenitrici a partire da cellule staminali di embrioni umani. La Corte federale tedesca di Cassazione (Bundesgerichtshof) ha poi deciso di sospendere il giudizio e di chiedere alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea di pronunciarsi in ordine all’interpretazione della nozione di «embrione umano», non definita dalla Direttiva 98/44/Ce sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche. Si tratta, in pratica, di sapere se l’esclusione della brevettabilità dell’embrione umano riguardi tutti gli stadi della vita a partire dalla fecondazione dell’ovulo o se debbano essere soddisfatte altre condizioni, ad esempio che sia raggiunto un determinato stadio di sviluppo.
Il 12 gennaio 2011 si è svolta presso la Grande Sezione della Corte di Giustizia la trattazione orale nella causa C-34/10 fra Oliver Brüstle e Greenpeace.
E’ la prima volta che la Corte è chiamata a pronunciarsi sulla nozione di «utilizzazione di embrioni umani a fini industriali o commerciali» prevista dalla Direttiva 98/44, e si comprende quindi la particolare delicatezza del thema decidendum, anche per gli aspetti scientifici, giuridici, economici e filosofici che essa implica.
In gioco vi è, infatti, l’interpretazione dell’articolo 6 della Direttiva, secondo cui «sono escluse dalla brevettabilità le invenzioni il cui sfruttamento commerciale è contrario all’ordine pubblico o al buon costume».
Secondo tale disposizione, quindi, «sono considerati non brevettabili in particolare: a) i procedimenti di clonazione di esseri umani; b) i procedimenti di modificazione dell’identità genetica germinale dell’essere umano; c) le utilizzazioni di embrioni umani a fini industriali o commerciali; d) i procedimenti di modificazione dell’identità genetica degli animali atti a provocare su di loro sofferenze senza utilità medica sostanziale per l’uomo o l’animale, nonché gli animali risultanti da tali procedimenti».
Le questioni sottoposte alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea dal tribunale nazionale tedesco nella causa C-34/10 riguardano questioni di particolare rilevanza.
Il primo quesito concerne la nozione stessa di «embrione umano» di cui all’art. 6, n. 2, lett. c), della Direttiva, ed in particolare, «se siano compresi tutti gli stadi di sviluppo della vita umana a partire dalla fecondazione dell’ovulo o se debbano essere rispettate ulteriori condizioni, come, ad esempio, il raggiungimento di un determinato stadio di sviluppo; se siano compresi anche gli ovuli umani non fecondati in cui sia stato trapiantato un nucleo proveniente da una cellula umana matura, o ovuli umani non fecondati, stimolati attraverso la partenogenesi a separarsi e svilupparsi, o le cellule staminali ricavate da embrioni umani nello stadio di blastocisti».
Il secondo quesito è relativo a come si debba intendere la nozione di «utilizzazioni di embrioni umani a fini industriali o commerciali», ossia se essa comprenda qualsiasi sfruttamento commerciale nell’accezione dell’art. 6, n. 1, della Direttiva, in particolare anche un’utilizzazione finalizzata alla ricerca scientifica.
Il terzo quesito è relativo «all’esclusione della brevettabilità, ai sensi dell’art. 6, n. 2, lett. c), della Direttiva, di un determinato insegnamento inventivo anche qualora l’utilizzo di embrioni umani non rientri nell’insegnamento rivendicato con il brevetto, ma costituisca la premessa necessaria per l’utilizzo del medesimo, perché il brevetto riguarda un prodotto la cui creazione comporta la previa distruzione di embrioni umani, ovvero perché il brevetto riguarda un procedimento che richiede come materiale di partenza un prodotto siffatto».
Lo scorso 10 marzo, l’Avvocato Generale della Corte, Yves Bot, ha depositato le sue conclusioni prospettando alla stessa Corte la risposta ai tre quesiti, con un ragionamento che appare davvero interessante e meritevole di approfondimento.
«La scienza ci insegna in modo universalmente acquisito ai nostri giorni», scrive Bot nelle sue conclusioni, «che l’evoluzione a partire dal concepimento comincia con alcune cellule, poco numerose e che esistono allo stato originario solo per qualche giorno». «Si tratta delle cellule totipotenti», spiega l’Avvocato Generale, «la cui caratteristica essenziale è che ciascuna di esse ha la capacità di evolversi in un essere umano completo», in quanto tali cellule «racchiudono in se stesse ogni capacità ulteriore di divisione, poi di specializzazione che condurrà, alla fine, alla nascita di un essere umano. Per questo si può affermare che «in una cellula si trova dunque concentrata tutta la capacità dell’evoluzione successiva».
Da qui la conclusione tratta dall’Avvocato Generale secondo cui «le cellule totipotenti costituiscono il primo stadio del corpo umano che diverranno», con la conseguenza che «esse devono essere giuridicamente qualificate come embrioni».
«In considerazione della definizione così data», continua Bot, «ogni volta che ci troviamo di fronte a cellule totipotenti, qualsiasi sia il mezzo con cui siano state ottenute, siamo in presenza di un embrione di cui dovrà pertanto essere esclusa ogni brevettabilità». Sempre secondo lo stesso Avvocato Generale «rientrano pertanto in tale definizione gli ovuli non fecondati in cui sia stato impiantato il nucleo di una cellula matura e gli ovuli non fecondati stimolati a separarsi attraverso la partenogenesi, qualora, secondo le osservazioni scritte depositate dinanzi alla Corte, con queste modalità vengano ottenute cellule totipotenti».
Queste considerazioni valgono anche per la blastocisti: «Se, di per sé, le cellule totipotenti comportano la capacità di sviluppare un intero corpo umano, la blastocisti è allora il prodotto ad un dato momento di questa capacità di sviluppo», ed «uno degli aspetti dello sviluppo del corpo umano di cui costituisce una delle fasi», con la conseguenza che «essa stessa, come tutti gli stati precedenti o posteriori a questo sviluppo, deve essere qualificata come embrione». «Sarebbe altrimenti paradossale», fa notare l’Avvocato Generale, «rifiutare la qualificazione giuridica di embrione alla blastocisti, prodotto della crescita normale delle cellule di partenza che, di per sé, ne sono dotate», in quanto «ciò significherebbe diminuire la protezione del corpo umano in uno stadio più avanzato della sua evoluzione».
Il punto 96 delle conclusioni di Yves Bot merita di essere integralmente riportato: «Occorre peraltro rammentare qui che la Direttiva 98/44, in nome del principio della dignità e dell’integrità dell’uomo, vieta la brevettabilità del corpo umano nei diversi stadi della sua costituzione e del suo sviluppo, comprese le cellule germinali (37). Essa dimostra così che la dignità umana è un principio che deve essere applicato non soltanto alla persona umana esistente, al bambino che è nato, ma anche al corpo umano a partire dal primo stadio del suo sviluppo, ossia da quello della fecondazione». Così come merita di essere testualmente citato il punt0 110: «(…) Dare un’applicazione industriale ad un’invenzione che utilizza cellule staminali embrionali significherebbe utilizzare gli embrioni umani come un banale materiale di partenza. Siffatta invenzione strumentalizzerebbe il corpo umano ai primi stadi del suo sviluppo. Mi sembra inutile, in quanto superfluo, evocare qui ancora una volta i richiami già fatti alle nozioni di etica e di ordine pubblico».
Se la Corte di Giustizia accogliesse le conclusioni dell’Avvocato Generale Yves Bot, e fondasse la propria decisione su di esse, verrebbe inferto un colpo ferale alla ricerca sulle cellule staminali embrionali totipotenti.
Sì, perché ad onta di tutte le pretese motivazioni etiche poste a fondamento di tale ricerca (che ad oggi, peraltro, non ha dato alcun risultato nonostante le mirabolanti promesse), questa non esisterebbe senza il business dello sfruttamento economico dei suoi eventuali risultati. La brevettabilità rappresenta, infatti, il presupposto essenziale di quel business.
La sentenza della Corte di Giustizia è prevista nelle prossime settimane, ed in molti sperano che, per una volta almeno, quell’organo giudiziario possa esprimersi in favore della vita umana. Non pare, in fondo, di chiedere molto.

Da Cultura Cattolica.it, 3 maggio 2011